Oggi e domani

Mi son chiesto spesso se Benedetto Croce e i suoi seguaci e tutti coloro che nei primi decenni del secolo ravvisavano nel decadentismo la malattia del nostro tempo, si siano mai accorti che le teste di turco da essi scelte (D’Annunzio, Pascoli, persino Fogazzaro) erano dei semplici pretesti e che il vero nemico era un altro: era il maturare di una situazione storica in cui ogni idealismo filosofico appariva minato alle basi. In sé il preteso decadimento artistico era poca cosa in confronto alla totale industrializzazione della cultura e delle arti, che è il fatto nuovo del nostro tempo; e tuttavia fin da allora pareva facilmente avvertibile che le turbe dell’irrazionale erano già in azione in tutti i campi, non solo in quello dell’arte. Così fin da quella stagione si poteva comprendere che un rappel à l’ordre nel senso desiderato da quei pessimisti (se tali vogliamo considerarli) non aveva alcuna probabilità di riuscita.

A quale ordine si poteva tornare, per esempio, in arte? All’accademia, all’ottimismo per partito preso, alla romanità di quello che fu poi il Novecento sarfattiano, a una poesia considerata come un genere letterario garantito da regole imprescrittibili? Un tentativo di incolonnare le correnti artistiche, secondo direttive impartite dall’alto, non mancò nell’Italia mussoliniana e in vari Paesi a regime totalitario. Ma evidentemente non a simili rimedi si riferivano i filosofi che deprecavano l’intorbidamento e la contaminazione di quelle facoltà dello spirito che essi si erano tanto affaticati a distinguere. Il rimedio non poteva essere, per costoro, che un altro: tener viva e operante e influente una scuola di pensatori decisi a opporsi alle incursioni dell’«odioso io» (pratico, velleitario, sensuale, vitalistico) negli spicchi dello spirito che dovevano esserne protetti.

Fu un’illusione che non poteva durare perché non teneva conto di due grandi forze, la scienza e l’industria, le quali hanno in comune la necessità di far dell’uomo intero, e non di un ipotetico io trascendentale, un vasto campo di sperimentazione e di sfruttamento.

Morti i filosofi idealisti, venute a mancare le truppe di rincalzo ch’essi si attendevano, si ebbero nuove filosofie, o anti-filosofie, che celebrarono i funerali di ogni possibile metafisica. Al di là di ogni diversità di pensiero e di scuola, tutti si mostrarono d’accordo nell’affermare che il filosofo non doveva porsi quesiti insolubili ma era tenuto invece a occuparsi dell’uomo reale inserito in una situazione e in una storia. Questo può farsi in vari modi: il materialista «storico» metterà il suo pensiero al servizio della rivoluzione sociale in atto, il fenomenologo chiuderà «tra parentesi» il mondo reale (per lui irreale) dando però attiva collaborazione a quel che accade nel mondo senza sporcarsi troppo le mani. Nei due casi (e in altri che vi risparmio) il risultato non muta: l’uomo si mette a rimorchio di forze diverse da lui, oscure a lui e più forti di lui e si arrende nel momento stesso in cui celebra la sua libertà. Viene in mente l’episodio di quel tale che ruzzolò a terra dalla piattaforma del tranvai e si rialzò dicendo: «poco male, stavo per scendere».

La mia cultura filosofica è modesta e non è neppure di prima mano. Piuttosto che le opere dei filosofi io leggo libri sui filosofi e non è esattamente la stessa cosa. E non sono qui per difendere la vecchia metafisica o per chiederne una nuova, ma dico semplicemente: se non siamo liberi cominciamo col rendercene conto, poi vedremo se è possibile o augurabile una liberazione.

Prevedo la prima obiezione che può venire in mente a chi mi legge. Mai come oggi si è tanto insistito sul tema dell’uomo alienato, e la parola stessa è diventata un grimaldello che apre tutte le porte. Mai si è tanto protestato contro la massificazione dell’individuo e contro la disumanizzazione dell’arte. Ma è anche accaduto quel che era prevedibile: la protesta stessa, svuotata di ogni contenuto e diventata cliché, si è fatta materia d’arte o di surrogato d’arte, tanto che oggi non si comprenderebbe il successo di un libro che non contenesse l’apparenza di una denunzia. Esiste un’industria dell’engagement e questo impegno può assumere caratteri non necessariamente ideologici o politici. Noti autori si illudono di protestare contro l’asservimento dell’uomo scrivendo libri pornografici. Essi sfruttano così un’angoscia che può essere sincera, mostrano di essere all’altezza dei tempi e fanno anche un eccellente affare. Quale sciagura per molti artisti se la «condizione umana» fosse diversa e se l’uomo fosse veramente libero di sé e del proprio destino! In tal caso il mercato dell’arte non sarebbe neppure concepibile e forse non potrebbe nemmeno sopravvivere l’idea di una qualsiasi arte.

Sembra comunque evidente che l’uomo, l’uomo-artista (per l’uomo normale il fatto è anche più evidente) crede più o meno in buona fede di aspirare alla libertà, ma nel suo profondo la considera come un’ipotesi disastrosa e, per fortuna, inattuabile.

Tanto condizionato appare l’uomo fin dalla nascita, e tanto carico di catene d’ogni genere, che alcuni clercs o intellettuali pensano sia ormai tempo, per lui, di aggirare l’ostacolo e di uscire dall’equivoco. Non sappiamo più che farcene, essi dicono, di quel rudimento di libertà che ci è concesso e che noi utilizziamo per crearci una nicchia, apparentemente individuale, nel mondo della produzione. Così facendo noi restiamo a mezza via, non più uomini e non ancora del tutto parti di un ingranaggio. Occorre fare un passo innanzi e diventare coscientemente e deliberatamente macchine, sia pure macchine semoventi e dotate di una qualche autonomia. Occorre fare un salto qualitativo e sopprimere quel tanto che in noi sopravvive dal vecchio homo sapiens. Non dobbiamo spaventarci, perché non conosciamo il punto d’arrivo. L’antropologia ci illumina sull’uomo del passato, ma è al buio sul suo avvenire. Se l’uomo ha saputo creare macchine che superano in molti campi le sue stesse capacità mentali non sarà forse possibile che egli – restando in qualche modo uomo o parvenza d’uomo – faccia di se stesso una supermacchina più perfetta delle altre? Sarà questione di attendere ancora per secoli, forse centinaia di secoli, ma se il mondo potrà durare e l’evoluzione della specie soccorrerà, la nuova meta dovrà essere raggiunta.

Si tratta di una tesi estrema – da noi forse esagerata – e che può anche esprimersi così: non è vero che l’uomo sia troppo meccanizzato, è vero il contrario: lo è in misura insufficiente. Qualora egli, un giorno, sia del tutto fuso e compenetrato nell’ordegno meccanico universale, l’idea di libertà e non libertà perderà ogni senso, l’uomo nuovo non avrà più bisogno di interrogarsi sulle sue sorti, della filosofia e dell’arte si sarà anche dimenticato il nome e l’essere umano (se così potremo chiamarlo ancora) avrà conseguito quella felicità funzionale che è la sola per lui possibile.

E ormai, giunti qui, non ci resta che fermarci e fare i debiti scongiuri. È troppo evidente che l’ipotetica trasformazione dell’uomo in un altro animale metterebbe in soffitta quel senso antropocentrico della vita che non è soltanto alla base della nostra civiltà ma anche la sostanza ultima del nostro modo di essere e di vivere. Qualcuno ha definito la malattia dell’uomo d’oggi come una progressiva perdita del centro. Un tempo l’uomo fu creduto misura di tutte le cose, più tardi si continuò a crederlo misura di qualche cosa, oggi non lo si crede più misura di nulla, eppure le possibilità del termitaio umano si moltiplicano in proporzione inversa alla fiducia (alla perdita di fiducia) che l’uomo ha in sé. C’è chi se ne rallegra e chi se ne duole: è questione di gusti.

Forse nel 1925, quando Ortega y Gasset annunziava, non senza compiacimento, la totale «deshumanización del arte» i motivi di ottimismo non mancavano; e si può anche supporre che prevalessero in lui ragioni tuttora esistenti, anzi assai più gravi. Potete immaginare quale catastrofe sarebbe l’arte di molte migliaia (o di milioni) di artisti convertiti all’umanesimo? A memoria d’uomo nessuna inflazione monetaria avrebbe prodotto effetti peggiori. Può darsi che le falsificazioni e i surrogati siano il necessario sfogo di un’attività che indirizzata diversamente farebbe della terra un luogo veramente inabitabile. Forse un giorno, se grandi opere potranno venire alla luce, dovremo fare un monumento collettivo a tutti i pessimi artisti che, senza neppure sospettarlo, avranno reso possibile il miracolo.

Sempre nell’ipotesi, tutt’altro che certa, che l’uomo di domani conservi qualche somiglianza con l’uomo di ieri. Per fortuna mia, e dei miei lettori, nessuno di noi potrà verificare l’ipotesi contraria, perché nell’era della velocità la storia procede ancora a rilento.

14 marzo 1962