La tragedia classica e il melodramma dovevano la loro universalità al fatto di attenersi ad alcune regole del giuoco accettate da tutti. Messe in questione tali regole, stabilito che il linguaggio non dev’essere convenzionale ma strettamente individuale, questi due grandi generi artistici sono entrati in coma. Si risveglieranno come Brunilde, non però dopo vent’anni (gli anni strettamente necessari alla formazione del nuovo Sigfrido), ma dopo secoli, in un mondo del tutto diverso – peraltro molto improbabile. Ed oggi tutte le forme di espressione verbale tendono a livellarsi nell’unico calderone del lirismo. I poeti aumentano a dismisura, funghiscono dovunque. Negli Stati Uniti esistono «circuiti di poesia» che alimentano una legione di poeti e di recitatori. La fondatrice di simili circuiti, miss Elizabeth Kray, ha ricevuto particolari onoranze.
Anche il romanzo si adegua alla nuova situazione. Alcuni credono che i romanzi dell’Ottocento fossero carciofi dai quali era necessario togliere le foglie esterne per raggiungere poi il polposo centro (quando c’era) della poesia. Ora si procede diversamente, eliminando in partenza quanto non fa parte del nocciolo essenziale. Ciò presuppone la totale autocoscienza dell’artista, il che è contrario ad ogni vera esperienza d’arte. Il vero poeta non sa mai dove deve arrivare: se così non fosse cadrebbe ogni distinzione tra industria ed arte.
Dimessa (per ora) la vecchia teoria del romanzo come poesia «sliricata», non esistono più differenze tra linguaggio poetico e linguaggio prosastico; anzi, il linguaggio prosastico è oggi particolarmente adottato dai poeti lirici, mentre vistose reliquie della lingua illustre sopravvivono, intenzionalmente, in pochi ottimi prosatori.
Di quale e quanta libertà godono gli scrittori d’oggi! In alcuni paesi essi sono stipendiati dallo Stato e devono perciò guardarsi dal vilipendere la fonte dei loro guadagni: nei paesi, invece, dove non esistono regimi totalitari essi sono liberi di ingiuriare la società che compra, e non legge, le loro opere. Ma fermiamoci per ora a questi paesi liberi e prescindiamo dalla polemica sull’industria culturale. Resta pur sempre fermo un punto: che l’effettiva comunicazione è inversamente proporzionale alla facilità e rapidità dei mezzi usati. Lo scrittore d’oggi sa che il contenuto delle sue pagine è soggetto a una rapida usura: gli universali non interessano più nessuno e si affacciano solo nelle opere di superstiti autori accademici: quel che ancora interessa, ma per poche ore, è l’adeguarsi a un certo tipo di tecnica, a certi schemi che mutano di stagione in stagione. E lo schema probabilmente più duraturo, negli anni che corrono, è l’indifferenziato formale, la pentola che bolle e manda a galla legumi e còtiche che appena si riesce a distinguere. La scienza e la filosofia, consapevoli della loro ignoranza, forniscono eccellenti alibi a tale ecumenica bouillabaisse espressiva.
Ecco perché il nostro tempo è tanto favorevole alla poesia. Milioni di uomini disperatamente soli conoscono la gioia dell’espressione, una gioia ch’era concessa solo a pochi dei loro antenati. Non si tratta evidentemente di un’espressione artistica, bensì di un’espettorazione che può provocare lodi e consensi in una delle molte tribù intellettuali. Non è più il caso di «dare un senso più puro alle parole della tribù», come ha scritto un vero poeta; ma semmai di renderle sempre più impure e volgari. Con poca fatica il giuoco è fatto. In disparte restano gli scrittori inattuali, quelli che ancora si fanno leggere. È molto dubbio che il futuro sia clemente verso le loro fatiche.
19 maggio 1963