Per fortuna siamo in ritardo

Quella sindrome di atteggiamenti e di scelte psicologiche, estetiche, e morali, che va sotto le definizioni di decadentismo, irrazionalismo, culto della vita intensa, giustificazione o addirittura idoleggiamento della guerra e della violenza; quel mostro dalle molte facce che Benedetto Croce combatté fin dal primo decennio del Novecento, fu poi da lui e dai suoi seguaci (fin ch’essi restarono uniti) giudicato con animo di storici o con partecipazione (mi scuso della tautologia) di uomini di parte? So benissimo che Croce non identificò il suo liberalismo con alcun partito liberale: ciò non toglie che le sue obiurgazioni fossero dettate da un animo che «parteggia». Resta così da dimostrare che l’illiberalismo e l’irrazionalismo si possano espungere con un tratto di penna dalla storia contemporanea, rappresentando essi nient’altro che uno dei due poli della dialettica dello spirito. Padrone l’uomo di parte di condannarli; molto meno certo che il filosofo e lo storico possano essere unilaterali nel giudicarli. In ogni modo è chiaro che Croce non si ingannò denunziando sintomi e atteggiamenti nei quali si possono ravvisare i prodromi di ciò che venne dopo e, particolarmente, il fascismo, il nazismo… e il resto.

Se però assumiamo la definizione di decadentismo in accezione strettamente artistico-letteraria, allora non trovo nulla da modificare in quanto scrissi nel ’43; e cioè che gli ismi giunsero tardivamente in Italia e che nel complesso gli scrittori italiani che più contano non riuscirono, e nemmeno si provarono, a creare una letteratura fascista. Presero la tessera (non tutti), questo è vero, ma non andarono molto oltre. E ciò non fu senza danno perché troppi motivi della vita democratica moderna restarono soffocati. Ma non si può chiedere a nessuno di aspirare alla palma del martirio.

Quanto all’irruzione del così detto decadentismo nel nostro Paese vorrei dire a Eugenio Garin, che si mostra impersuaso di quel mio giudizio del ’43 (si legga il suo recente e interessante volume La cultura italiana tra ’800 e ’900), di considerare alcune date. Il preraffaellismo, animato certamente da spiriti decadenti ed estetizzanti, era vivo in Inghilterra quando in Italia dipingevano i Fontanesi e i Cammarano, classici malgrado il loro romanticismo. Rimbaud e Mallarmé scrivono quando in Italia si è giunti appena alla Scapigliatura; i nostri macchiaioli si svegliano quando incontrano l’impressionismo francese; Debussy è un contemporaneo di Puccini e Mascagni. D’Annunzio non si spiega senza le sue fonti straniere, innumerevoli. Mentre infuria l’espressionismo musicale viennese, Casella e soci propongono un ritorno al Settecento.

Unica eccezione il futurismo che ebbe più fortuna in Russia e nel Sud America che in Italia. Ma quel poco di buono che ha dato la poesia futurista (nella prima antologia marinettiana) segue le tracce di Whitman e del verslibrisme francese. Le fonti, poi, dei crepuscolari sono ben note a tutti. Ma qui c’è appena l’anemia di un tempo troppo prosaico, terra terra, perciò ben poco irrazionale.

È vero che dopo il ’43 le cose sono mutate e siamo giunti in rari casi fino alla apologia della schizofrenia. Comunque siamo in ritardo anche qui, perché non abbiamo ancora (ed è fortuna) il nostro Beckett.

30 giugno 1963