Gesù ha un problema. È a un matrimonio a Cana con i suoi discepoli e sua madre, ed è finito il vino. Gli invitati sono nel panico. Sua madre gli dà di gomito e gli fa tanto d’occhi: «Ehi, sei il figlio di Dio, vedi di fare qualcosa». Gesù non è tanto per la quale: non aveva in programma di rivelare la propria natura così presto, ma questa è un’emergenza. Il vino è finito. Così Gesù dice ai servi di riempire d’acqua alcune grosse anfore di pietra. Poi ne trasforma il contenuto in un vino così squisito che il primo ad assaggiarlo violerà la prima regola dei banchetti e dirà allo sposo: il vino migliore è stato servito solo alla fine. I discepoli, che hanno assistito al primo dei miracoli di Gesù, sono esterrefatti. Il vino torna a scorrere a fiumi, tutti sono felici e il banchetto riprende nel migliore dei modi.1
Gesù compirà altri miracoli ben più impressionanti, fra cui camminare sulle acque e far risorgere Lazzaro. Ma è interessante notare come la trasformazione dell’acqua in vino sia stato il primo miracolo di Gesù. L’alcol è connesso in modo così inestricabile con la socialità umana da spingere il figlio di Dio a compiere il suo primo miracolo. Per non parlare dell’Eucaristia e del sangue di Cristo. Dopo la doverosa esplorazione del lato oscuro di Dioniso nel capitolo 5, è giunto il momento di tornare al tema principale di questo libro: la gioia e il potere dell’ebbrezza.
Come abbiamo visto, in molte culture l’alcol assume una connotazione sacrale. I testi della Cina medievale spiegano come l’acqua utilizzata per produrre “vino fermentato per intervento divino” possa essere raccolta solo prima dell’alba in un particolare giorno del mese, soltanto da un ragazzo purificato tramite un rituale molto specifico, e non possa essere toccata da altra mano umana.2 In quanto sostanza sacra, all’alcol vengono spesso attribuiti poteri magici, di cui viene investito chi lo consuma. In uno dei più antichi testi scritti giapponesi, il Kojiki, l’imperatore tesse un elogio del “forte liquore augusto” prodotto da un nobile coreano in visita che, secondo la leggenda, introdusse in Giappone un tipo di sakè. «Oh, come sono ebbro / di questo liquore / scaccia-demoni ed esilarante… / E, oh, come sono ebbro!».3 Vagando ubriaco fuori dal suo palazzo, l’imperatore e la sua scorta investono un masso che blocca loro il cammino, spostandolo come se nulla fosse. In Messico il pulque, ritenuto sacro in epoca precoloniale, con l’introduzione del cristianesimo venne ribattezzato “il latte di Maria”, offerto in sacrificio nel giorno dei morti, e versato sui teschi sepolti ai quattro angoli di un campo per proteggerlo dai ladri.4 In tutta l’Africa, il potere divino della birra è ritenuto un elemento essenziale delle cerimonie religiose e dei sacrifici offerti agli antenati. I kofyar del nord della Nigeria credono che l’uomo vada incontro alla divinità “con una birra in mano”.5 Come direbbe un tanzaniano, «se non c’è birra, non c’è rito».6 In virtù del prestigio che viene loro riconosciuto, spesso le culture si definiscono in termini di specifiche bevande alcoliche: basti pensare ai francesi e al vino, ai bavaresi e alla birra, o ai russi e alla vodka. Come osserva l’antropologo Thomas Wilson: «In molte società, se non nella maggior parte, bere alcol è una pratica essenziale per esprimere la propria identità, un elemento nella costruzione e nella disseminazione della propria cultura e delle culture altrui».7
Queste bevande sacre, capaci di definire una cultura, differiscono moltissimo per metodo di produzione, colore, gusto e corposità. Ciò che le accomuna è il principio attivo: l’etanolo. Come si spiega tanta venerazione proprio per questa neurotossina? Con il fatto che l’alcol – la sostanza inebriante maggiormente impiegata dall’uomo – è una tecnologia flessibile, ad ampio spettro ed efficacissima nell’aiutarci a vivere nella nostra nicchia ecologica così particolare ed estrema. La civiltà non sarebbe così come la conosciamo senza una qualche forma di ebbrezza, e l’alcol è stato la soluzione di gran lunga più comune in cui le culture si sono imbattute per soddisfare tale esigenza. Oltre alle sue funzioni sociali, l’ebbrezza è anche un conforto essenziale per l’unico animale sul pianeta afflitto dall’autocoscienza. «Siamo scimmie con cervelli grandi come pianeti», si lamenta Tony, il protagonista di Afterlife, la bellissima serie di Ricky Gervais. «Non stupisce che ci ubriachiamo.»8
Riconoscere esplicitamente e documentare l’utilità funzionale, il sollievo individuale e il profondo piacere che l’alcol e le altre sostanze inebrianti sanno regalare è un correttivo necessario all’attuale opinione comune sull’argomento. Le sostanze inebrianti non sono solo “dirottatori mentali” o vizi di cui fare piazza pulita o da tollerare controvoglia. Sono strumenti essenziali nella battaglia contro gli aspetti limitanti della corteccia prefrontale, la sede del controllo apollineo, oltre ai vincoli imposti dalla nostra natura di primati. Non possiamo conoscere veramente le dinamiche della vita sociale se non comprendiamo il ruolo che gli inebrianti hanno giocato nel rendere possibile la civiltà. Come Friedrich Nietzsche, il grande campione di Dioniso, dichiarò in uno dei suoi caratteristici aforismi criptici: «Oh chi ci racconterà tutta la storia dei narcotici? È praticamente la storia dell’educazione, della cosiddetta educazione superiore!».9
Questo libro è stato scritto quasi interamente nel pieno della crisi scatenata dal Covid-19, che ha fornito una plateale conferma del ruolo ineliminabile dell’alcol nelle nostre vite. Uno dei grandi temi dibattuti quando i governi imponevano i primi lockdown era: quali “servizi essenziali” non devono chiudere? Negli Stati Uniti le risposte sono state diversissime: per alcuni stati i campi da golf, per altri i negozi di armi. Su un punto nessuno ha avuto da eccepire: i negozi di liquori. (L’unico stato che ha tentato di chiuderli, la Pennsylvania, di fronte all’indignazione generale ha fatto subito marcia indietro.)10 In Canada e negli stati dell’Unione dove è legale, lo stesso è accaduto per i rivenditori di cannabis a scopo ricreativo. Va aggiunto che i pochi paesi che hanno sfruttato la pandemia come una scusa per imporre il proibizionismo, come lo Sri Lanka, hanno finito per dare vita a un’enorme rete di produttori casalinghi, impegnati a preparare intrugli appena accettabili – ma decisamente alcolici – utilizzando qualunque cosa, dalle barbabietole agli ananas.11 La gente ha voglia di bere, e neppure una pandemia globale riuscirà a impedirlo.
Capire il perché è estremamente importante. Non è possibile porre questa domanda, né tantomeno rispondervi in modo coerente senza comprendere la funzione che l’alcol ha svolto nelle civiltà umane. Come abbiamo visto, oltre all’immediato valore edonistico, gli effetti cognitivi e comportamentali dell’ebbrezza alcolica rappresentano, in un’ottica evolutivo-culturale, una risposta valida ed elegante alla sfida di far sì che un primate egoista, sospettoso e orientato allo scopo si lasci andare e si leghi a degli estranei. Nel corso della storia dell’uomo, i vantaggi che l’ebbrezza ha garantito a livello individuale e collettivo hanno superati i costi più ovvi. Questo è il motivo per cui le “soluzioni” genetiche e culturali al “problema” dell’alcol non sono riuscite a diffondersi con la rapidità che ci si aspetterebbe se la nostra propensione all’ebbrezza fosse un semplice errore evolutivo.
Potremo valutare il significato di tutto ciò nel mondo moderno, così complesso e sottoposto a mutamenti di una rapidità senza precedenti, solo quando disporremo di una prospettiva storica, psicologica ed evolutiva più ampia. Questo ci potrebbe portare alla conclusione che, quando si tratta di raggiungere determinati obiettivi, il consumo di alcol dovrebbe essere sostituito da metodi migliori e più sicuri. Le alternative analcoliche potrebbero risultare attraenti soprattutto in un’epoca in cui dobbiamo far fronte ai pericoli relativamente recenti della distillazione e dell’isolamento. Per esempio, se lo scopo è quello di rinsaldare i legami di gruppo o il senso di appartenenza a una squadra, potrebbe darsi che il paintball o le escape room forniscano i medesimi risultati di una festa a base di alcol, ma senza gli svantaggi di quest’ultimo. Man mano che raccoglieremo ulteriori dati sul microdosaggio di droghe psichedeliche, potremmo finire per scoprire che queste esaltano la creatività quanto l’alcol ma senza esporci al rischio di una dipendenza o di un danno epatico.
Altri spunti sono più controversi e complicati, ma anche in questi casi è utile delineare un quadro scientificamente accurato rispetto alle decisioni che si possono prendere. Forse le feste dell’ufficio dovrebbero essere senza alcolici, oppure dovrebbero svolgersi al mattino e consentire al massimo un mimosa. Forse è un bene che i fondi federali canadesi – anche quelli riservati al networking – non vengano spesi in alcolici. Quali sono i costi e i benefici di limitare o eliminare l’alcol in questo modo? Di sicuro, bere con moderazione sembra meno controverso di sbronzarsi (superando un tasso alcolemico dello 0,10 per cento), ma l’eccesso è sempre un male? Qui lo scenario si fa più intricato e confuso. L’eccesso è chiaramente pericoloso e porta a un aumento esponenziale dei costi, ma non è detto che sia del tutto disadattivo. Un eccesso a tempo debito, talvolta, può favorire i legami di gruppo o aiutare gli individui a superare un momento difficile in una relazione. Non c’è dubbio che, nel corso della nostra storia evolutiva, la capacità di abbassare la guardia e di renderci vulnerabili agli altri abbia fornito un beneficio sociale in grado di sopravanzare i costi.
Come minimo, però, in ambito scientifico è giunto il momento di andare oltre le teorie del dirottamento o del doposbornia evolutivo e, rispetto agli atteggiamenti culturali, di lasciarsi alle spalle il disagio morale e una saggezza popolare anacronistica. I dibattiti sul ruolo delle sostanze inebrianti nelle nostre vite non possono prescindere dalle migliori conoscenze scientifiche, antropologiche e storiche a nostra disposizione, il che è ancora un’illusione. Porci nella prospettiva migliore ci metterà nella posizione di cogliere con maggiore chiarezza i compromessi che scegliamo quando formuliamo politiche e prendiamo decisioni personali. La nostra voglia di alcol non è un errore evolutivo. Ci sono buone ragioni per cui ci ubriachiamo. Non è possibile prendere alcuna decisione consapevole, a livello individuale e sociale, senza una comprensione più profonda del ruolo che l’ebbrezza ha svolto nel creare, promuovere e sostenere la socialità umana, e dunque la civiltà stessa.
Andare in questa direzione, tuttavia, è particolarmente impegnativo nel clima attuale, che è al tempo stesso tecnocratico, ascetico e moralistico. Un articolo pubblicato di recente su “The Lancet” sul consumo di alcol passato e previsto12 indica come il consumo pro capite in età adulta è salito da 5,9 a 6,5 litri fra il 1990 e il 2017, mentre l’astinenza nell’arco della vita è scesa dal 46 per cento al 43 per cento. Gli autori prevedono che queste tendenze verranno confermate in futuro, con l’astinenza che calerà fino al 40 per cento nel 2030. La conclusione dell’articolo, presentata non come un’interpretazione ma come un dato di fatto, è che siamo di fronte a un disastro in termini di salute pubblica, e che dobbiamo mettere in campo tutte le contromisure a nostra disposizione per ridurre l’esposizione all’alcol e invertire tali tendenze. Un simile atteggiamento ha senso solo in uno scenario in cui qualunque cosa che non aumenta direttamente l’aspettativa di vita o non riduce il rischio di tumore è negativa, punto e basta. Questa versione moderna e secolare dell’ascetismo, che si basi su un parere medico o sulle dottrine dei guru che predicano uno stile di vita “consapevole”, permea anche gran parte dei manuali di auto-aiuto sul consumo di alcol. Poco spazio viene lasciato a considerazioni di più ampio respiro e a lungo termine su ciò che consente agli esseri umani di vivere e creare insieme in civiltà produttive, o su ciò che dà valore e godibilità alla vita.
Forse un problema più profondo risiede nel fatto che oggi sembra di essere tornati al moralismo dell’epoca vittoriana. In parte questo è un doveroso e importante correttivo al laissez faire che non intacca le norme di genere e i pregiudizi razziali, ammicca agli atteggiamenti sessisti e retrogradi stile Mad Men e giustifica qualunque eccesso maschilista. Nei suoi aspetti più soffocanti, tuttavia, il neomoralismo rende difficoltoso discutere in modo chiaro e obiettivo di certi argomenti centrali nell’esperienza umana. In quanto argomento tabù, solo il sesso è in grado di competere con l’ebbrezza chimica. È un tema che gli studiosi della socialità umana perlopiù trascurano, così come i suoi benefici vengono ignorati nelle decisioni dei politici. Come lamenta Stuart Walton,
l’intossicazione ha, o ha avuto, un ruolo praticamente nella vita di tutti, eppure in Occidente, nel corso di tutta l’era storica cristiana, è stata soggetta a una crescente censura religiosa, etica e morale. Attualmente, siamo a malapena in grado di pronunciarne il nome sottovoce per timore di scontrarci con la legge, di comprometterci agli occhi degli altri o di accusarci personalmente di far parte (per quanto marginalmente) della molteplice calamità che ha colpito le nostre società sotto forma di tabagismo, guida in stato di ubriachezza, vandalismo, malattie autoinflitte o criminalità legata alla droga.13
Dobbiamo salvare l’alcol, e più in generale l’ebbrezza chimica, tanto dalla serenità degli asceti new age quanto dai musi lunghi dei neopuritani.
La mia paura peggiore è di esserci riuscito solo a metà, abbozzando la mia difesa dell’ebbrezza in termini pragmatici e funzionali, ossia inquadrando ogni aspetto in un’analisi costi-benefici. Mi auguro invece di essere riuscito a costruire una difesa olistica dell’alcol e dell’ebbrezza, riconoscendone al tempo stesso l’aspetto puramente edonistico. Potrebbe essere utile, da questo punto di vista, tornare a Tao Yuanming, lo scrittore a cui più di tutti devo il mio interesse per il tema dell’ebbrezza, fin da quando ero un giovane studente di cinese. Ecco la meravigliosa poesia numero 14, tratta dalla serie dedicata al vino:
I vecchi amici sanno cosa mi piace,
così quando vengono a farmi visita portano sempre una caraffa di vino.
Ci dividiamo la stuoia e ci accomodiamo all’ombra di un pino,
e dopo qualche bicchiere siamo completamente ubriachi,
come dei vecchi che saltano di palo in frasca,
incapaci di dire di chi sia il prossimo calice da riempire.
Del tutto dimentichi di noi stessi,14
perché dovremmo preferire una cosa a un’altra?
Rilassati e distaccati, smarriti nel luogo in cui siamo;
nel vino si cela il senso profondo!15
È molto difficile tradurre con precisione il termine con cui si conclude la poesia. Shenwei (深味) significa letteralmente “gusto/sapore/significato/senso profondo/intimo”, e racchiude allusioni spirituali quanto edonistiche. Il vino è denso di significato e al tempo stesso piacevole.
Mi sembra giusto chiudere il libro ripercorrendo il mito più antico di Dioniso, descritto in un inno omerico risalente al VII secolo a.C.16 Il dio, sotto forma di un giovane ben vestito, viene catturato da una banda di pirati, i quali, pensando che sia il figlio di un ricco sovrano, sperano di ricavarne un cospicuo riscatto. Solo il timoniere non è convinto del piano: ha intuito che il giovane è in realtà un dio ed è giustamente spaventato. Appena la nave prende il largo, ecco verificarsi ogni genere di prodigio: l’oceano si trasforma in vino e l’albero maestro in un’enorme vite carica di grappoli. Dioniso assume le sembianze di un leone, mentre i marinai terrorizzati si tuffano in acqua, dove vengono trasformati in delfini. Solo il timoniere, a cui infine Dioniso svela la sua vera identità, viene risparmiato. L’uomo vivrà un’esistenza lunga e prospera, essendo stato benedetto direttamente dal dio.
Questo racconto è meraviglioso e rivelatore. «Pochi vedono un dio in Dioniso, sembra dirci questo inno», osserva Robin Osborne, «e sono quelli che conservano la propria umanità.»17 È un modo perfetto per concludere la nostra trattazione. Gli antichi greci disprezzavano chi beveva acqua: il loro rifiuto del vino rispecchiava freddezza, calcolo e perfino bassezza morale. Oggi, giustamente, siamo più consapevoli del valore dell’astinenza, ed è improbabile che ristabiliremo Dioniso nel nostro pantheon religioso. Tuttavia, è solo riconoscendo sia i benefici sia i costi dell’ebbrezza che possiamo rimanere umani, attingendo con cautela al suo potere per riuscire a occupare la precaria nicchia ecologica che ci siamo ritagliati. Così si conclude l’inno a Dioniso: «Salute, figlio di Sèmele bella: a chiunque ti scordi, no, non è dato più intonare il canto soave».18 Manteniamoci umani, assicurandoci di non dimenticare Dioniso, ma di vederlo sia come un dio sia come una minaccia. Solo così potremo trovare spazio per l’estasi nelle nostre vite, conservare la capacità di “intonare il soave canto” e continuare a prosperare come esseri umani, i primati più strani e di successo.