Maria

Maria abita al Travucco, la parte alta del paese, destinata ai poveri, dove non ci sono strade selciate, come nella parte bassa, riservata ai galantuomini, ma solo scalini pavimentati di lisce, le pietre comuni di cui la zona abbonda.

Ha quindici anni ed è l’ultima di quattro sorelle, nata quando i genitori erano già vecchi e ormai non aspettavano più figli. Vive nella casa di famiglia, formata da una stanza con un camino e un fondaco sottostante, cui si accede tramite tre scalini esterni, dove trovano ricovero l’asino e le galline.

Alla sera va a letto molto presto, dopo una dura giornata di lavoro.

Le piacerebbe fermarsi un poco davanti al fuoco, lasciare che lo sguardo si perda nelle fiamme guizzanti, che il tepore pervada il corpo e scacci il freddo della faticosa giornata. Ma la stanchezza la vince, le palpebre si fanno pesanti. La fantasia non trova la forza di sbrigliarsi e correre lontano, di interrogarsi sul suo destino, se la vita ha ancora in serbo un dono per lei.

Non sa immaginare, Maria.

Non sa pensare al futuro come a un’entità autonoma, diversa dal presente, a uno spazio vuoto che può essere riempito di sogni, speranze e desideri. Per lei il tempo più lontano è l’alba del giorno successivo, le speranze e i desideri spaziano nell’ambito angusto della sopravvivenza: che l’asino, ormai vecchio, resti in buona salute, che il freddo domani non sia così intenso da spaccare le mani, che riesca a trovare un lavoro da sbrigare, uno qualunque, non importa quanto faticoso, per poter sfamare se stessa e il padre malato.

Anche il volto di Elìa, quel suo fugace sorriso mentre le lancia uno sguardo furtivo, che talvolta si materializza all’improvviso e si posa lieve sul velo del sonno, è ormai un’immagine che non dispensa più né dolore né gioia.

Lei è consapevole dei suoi obblighi.

Il senso del dovere è radicato nel suo cuore come le rocce nella terra delle sue montagne.

E poi Elìa è emigrato lontano, spinto dalla fame e dalla necessità di sopravvivere, e quasi certamente non tornerà più al paese, ammesso che sia ancora vivo e le febbri della pianura non se lo siano portato via.

Maria abbandona il focolare, scende nel fondaco e compie l’ultima operazione della giornata: accudire l’asino. Con la paglia gli sfrega i fianchi, si assicura che il fieno sia sufficiente.

Quindi si corica sul materasso di crine, accanto al camino e, come tocca il letto, le palpebre si chiudono, senza che le labbra abbiano neppure il tempo di formulare per intero le preghiere della sera.

Forti colpi di tosse scuotono il silenzio immobile della notte.

Maria indugia qualche istante prima di sfuggire alla morsa del sonno. Poi si strappa al tepore della coperta e si reca al capezzale del padre.

La tosse si fa più insistente, sembra squassare il petto del vecchio.

Sarà sempre peggio, pensa Maria. Suo padre morirà così, soffocato. Lo attende la morte che temeva di più.

Avverte una fitta di dispiacere, come se una mano le strizzasse il cuore.

Prova a sollevarlo e collocarlo in una posizione che faciliti la respirazione. Di solito lo aiuta, ma lui continua a tossire.

Alle volte le capita di pensare che, in questo calvario, un aiuto da parte delle sorelle le sarebbe di grande conforto. In fondo, Nicola lo stagnaro ha generato quattro figlie.

Ma nessuna di loro può offrirle alcun sostegno. Le due maggiori si sono sposate per procura a quindici anni e sono andate alla Merica. Non le hanno più viste. Maria, in pratica, non le ha nemmeno conosciute, se non attraverso una foto sbiadita che hanno mandato una volta da un luogo chiamato Paterson NJ. Così c’era scritto sulla lettera, anche se neanche il parroco ha saputo spiegare cosa significasse.

Neppure la terza, Assuntina, può soccorrerla, sebbene viva in paese. È sposata, ha tre figli piccoli e la pancia grossa del quarto. Il marito Isidoro la costringe ad andare nei campi e le allunga dei calci se è troppo lenta.

«Mia madre ha sempre partorito con la zappa in mano. E tu, chi ti penzi di essere?»

Assuntina si volta e cerca di proteggere la pancia dai colpi. Non per sé ma per il bambino. Fosse sola, senza figli, accoglierebbe la morte come una liberazione.

Tutte le volte che può – poche purtroppo – è piuttosto Maria che dà una mano alla sorella e l’aiuta con le faccende di casa. È sempre indietro, Assuntina, sempre scarmigliata, la casa in disordine, i bambini piagnucolosi, sporchi e col moccio al naso, il focolare spento. In questo caos, lei è capace di starsene seduta vicino al tavolo, la testa appoggiata al palmo della mano, lo sguardo perso nel vuoto. Non la scuotono dal suo torpore neppure le grida e le botte che suo marito le dispenserà in abbondanza, appena metterà piede a casa. I lividi non fanno in tempo a guarire che già se ne sono aggiunti di nuovi.

Un altro dispiacere per Maria, la sorte misera di Assuntina, un rimorso che la rode perché, le poche volte che riesce a recarsi a casa della sorella, tutto sembra rifiorire. La biancheria sporca viene lavata, la casa rassettata, la polenta cuoce nel paiolo sopra il focolare acceso. I bambini sono puliti, mangiano e non piangono.

Cerca solo di fuggire via prima che arrivi Isidoro.

Non le piace, il marito della sorella.

Per carità, è un uomo che si ammazza di lavoro per sfamare la famiglia, nei campi giorno e notte a zappare la terra dei signori, perché lui è un semplice bracciante agricolo.

Però non le piace lo stesso.

È alto, imponente, minaccioso, gli occhi sempre torvi, astiosi, cattivi.

Solo quando si posano su di lei sembrano acquisire una luce diversa, che tuttavia non illumina, non scalda, anzi, le incute un incomprensibile timore. Si sente sempre in ansia, di fronte a Isidoro, sempre tremante. Percepisce che c’è qualcosa di losco, di impuro in quello sguardo.

Per questo lo evita, corre via prima di incrociarlo. Ha tante incombenze cui provvedere, nel corso della giornata. Il padre malato è bisognoso di tutto e deve procurarsi il necessario alla sopravvivenza per entrambi. Chi mai potrebbe sostenerli, se non provvedesse lei?

L’incubo peggiore di ogni risveglio è che quel giorno non riesca a trovare alcun lavoro. In paese ce n’è poco perfino per i maschi. Figurarsi per una donna, anche se Dio, conoscendo il suo destino, le ha fatto il dono di braccia forti e robuste come quelle di un uomo. Non c’è fatica che non possa affrontare Maria, la figlia di Nicola lo stagnaro. Lo sanno tutti, in paese. Lo sa anche il soprastante che, all’alba di ogni mattina, distribuisce ai braccianti radunati in piazza le opportunità disponibili per la giornata. Quella ragazzina quindicenne che mai, in altre situazioni, degnerebbe di uno sguardo, lavora quanto e più di molti uomini presenti. E costa poco, perché il salario di una donna è la metà di un maschio, anche a parità di impegno e risultati. Per questo riesce quasi sempre a rimediare qualcosa.

La tosse del vecchio si placa, la crisi è passata.

Ma è tardi per tornare a dormire. Tanto vale iniziare la giornata.

Prima di andare al lavoro, come tutte le mattine, Maria attinge l’acqua da un secchio e, con la mano, la sparge a piccoli spruzzi in giro qua e là sul pavimento di casa. Poi, con la ramazza, pulisce con cura ogni angolo, sistema il vecchio, gli lascia un pezzo di pane e una cipolla per pranzo. Quando si incammina per le ripide stradine del paese, l’aurora è ancora un lontano presagio e la luna è l’unica luce a illuminare il cammino.

Due piccoli fazzoletti di terra in collina, aridi e sassosi, e un asino malandato: questo il patrimonio su cui può contare. I campi li coltiva prima dell’alba, oppure a fine giornata. Vi pianta lenticchie, ceci e fave, perché altro non crescerebbe. Tuttavia lei è così abile nella coltivazione di quei legumi che i suoi raccolti vengono prenotati per tempo dalle donne del paese e pagati con grano e granone.

Terminato il lavoro nei suoi campicelli, si reca nella piazza del paese con il suo asino.

E aspetta. Aspetta che il soprastante le offra un lavoro. Uno qualsiasi.

Maria accetta tutto. A patto che sia onesto.