Maria

Nel corso della sua giornata, Maria si sforza di ricavare un poco di tempo in più per sua sorella Assuntina, che non si riprende dalla malattia, anzi, sta sempre peggio. Lava la biancheria dei figli, pulisce la casa, prepara qualcosa da mangiare, istruisce i nipoti, che sono grandi, ormai, in modo che sappiano arrangiarsi e provvedere a loro stessi.

Quella sera Isidoro, a sorpresa, rincasa prima del solito. Entra e non dice una parola né alla moglie né ai figli. Si mesce del vino, lo beve, pulisce la bocca con la manica della camicia e prende a fissare Maria.

Lei saluta in fretta la sorella, bisbiglia un «buonasera» rivolto a tutti e a nessuno e fugge via con l’agitazione che sempre la prende quando si imbatte nel cognato.

Percorre a passi rapidi le stradine buie del paese, cercando di concentrarsi sulle attività che la attendono a casa ma il disagio persiste, si accentua, anzi. Avverte la strana sensazione che una presenza ostile la segua e incomba su di lei. Si volta ma nel buio ormai fitto non intravede nessuno.

Cerca di scuotersi, di rimproverarsi, di ricondursi alla realtà. Lei non è abituata a lasciarsi suggestionare, le ombre sono nulla, lei non si fa spaventare neppure dai cristiani in carne e ossa, figurarsi dalle ombre.

E tuttavia affretta ancora di più il passo.

Per fortuna, ormai è arrivata a casa. Tira un sospiro di sollievo e poi sorride di se stessa e delle sue ansie. Non ci mancherebbe che questo, nella sua vita: spalancare la porta a un’intrusa scomoda e sgradita come la paura. Non se lo può permettere. Lei deve essere padrona di sé e delle proprie azioni, essere in grado di muoversi in ogni condizione, con il sole che acceca e con le tenebre più fitte.

Gira la chiave nella toppa. Spalanca la porta. Entra e la richiude alle sue spalle.

Ma la porta resiste, si spalanca di nuovo e un peso le precipita addosso, una mano la stringe alla bocca con una presa ferrea.

Maria lo riconosce dall’odore.

Ha bevuto vino poco prima e lei lo percepisce nelle zaffate che quel respiro affannoso le soffia addosso. E poi l’odore di Isidoro lo riconoscerebbe anche a distanza. Ecco una delle cose che più la disturbano di suo cognato. Quell’afrore che lo accompagna. Di sudore della giornata di lavoro e di corpo trascurato, non abituato a lavarsi. Tanto più la disturba perché lei, al contrario, ha ribrezzo del tanfo di vecchio e sporco e continua a lavarsi e ad annusarsi, per timore di emanarlo.

Maria reagisce subito e prova a liberarsi dalla stretta ma viene scaraventata a terra, dove il corpo dell’assalitore la schiaccia con la sua mole di gigante.

Anche in quelle condizioni, Maria stenta a credere che il cognato voglia davvero farle del male, la sua mente rifiuta di accettare l’evidenza della situazione, di credere che una disgrazia così grande stia per abbattersi su di lei, fino a quando non avverte la mano di Isidoro frugare tra le gonne, sollevarle, giungere alla carne nuda delle gambe. L’enormità di quella offesa, l’orrore che le suscita, invece che infonderle energia per reagire, la paralizza. In un frammento di tempo, le scorrono davanti agli occhi tutte le immagini di quello che può accaderle, se permetterà al cognato di portare a termine il suo turpe progetto. Lo scandalo, la vergogna. L’allontanamento dal paese in cui è nata perché non c’è posto per quelle che hanno subito l’insulto che rischia di abbattersi su di lei.

Ma non è la condanna della gente che le importa.

Molto di più la sconvolge la possibilità che qualcuno offenda il suo pudore, si appropri di un’intimità che è solo sua e di cui è gelosissima, violi il suo corpo che, ai suoi occhi, è sacro e appartiene solo a lei, tanto da avere preferito di non sposarsi, pur di non dovere riconoscere a un estraneo diritti sulla sua persona.

Non deve accadere, pensa Maria.

Fissa il suo aggressore con uno sguardo allucinato, di disperazione, di condanna, di rivolta.

E reagisce. Lotta.

Feroce. Silenziosa. Lo sguardo sempre fisso negli occhi di lui: deve vergognarsi di quello che sta cercando di farle.

Usa tutta le risorse di cui dispone per respingerlo, per fargli del male. Il lumino che sta sempre acceso davanti a un’immagine del Cuore di Gesù getta lamine sottili di luce negli occhi di Isidoro, nei quali intravede un furore cieco che, ne è ben consapevole, non si placherà fino a quando avrà raggiunto il suo scopo.

Ma resiste, Maria. Silenziosa, ostinata, accanita.

Lei svolge gli stessi lavori degli uomini e dunque possiede la loro forza.

Ma Isidoro ne possiede di più. Più di lei. Alla fine, stremato da quella resistenza che accende ancora di più il suo bisogno e la sua follia, l’afferra per la gola e stringe. Maria si rende conto che potrebbe morire.

Le mani si serrano sempre più.

Morire non la spaventa, se può salvarla dalla disgrazia.

Alla fine, tutto diventa buio.

Sabina rientra più tardi del solito, quella sera. Ha atteso suo marito, che ogni tanto si presta ad aiutare il sagrestano a riordinare e pulire la chiesa.

Passando, butta uno sguardo alla casa di Maria, come fa spesso. L’amica dovrebbe essere nel fondaco, a governare l’asino. Un rapido saluto, per accertarsi che non le serva nulla, e poi a casa. Ma il fondaco è serrato. Una fievole luce filtra dalla porta dell’abitazione, che è solo accostata. Sabina si domanda se possa essere una dimenticanza di Maria, lei sempre così precisa. Già pregusta l’idea di poterle rimproverare quella disattenzione, visto che invece le rampogne toccano sempre a Sabina per la sua sbadataggine.

Si avvicina alla porta e la chiama.

«Marì! Hai lasciato la porta aperta… Marì! Rispondi.»

Spinge la porta. Il buio è vinto solo dalla fievole luce del lumino davanti al quadro di Gesù. Sabina entra ma inciampa in un ostacolo sul pavimento. A mala pena, in quella penombra, riconosce Maria. Trema in tutto il corpo. Il respiro è un rantolo, il volto livido come fosse morta, gli occhi senza anima, senza vita, due segni violacei, molto vistosi, intorno al collo, come se qualcuno lo avesse stretto. Le gonne sono sollevate, le gambe divaricate e insanguinate.

Non perde un istante, Sabina. Non si ferma a riflettere. Le è sufficiente un’occhiata per capire cos’è accaduto ma adesso non c’è tempo per l’orrore, per il raccapriccio. Si precipita nella sua casa, afferra un asciugamano bagnato e corre dall’amica, dalla sorella.

Le tampona la fronte, il viso, i lividi. Maria non smette di tremare, di respirare con quel rantolo che mette i brividi.

«Marì! Marì! Rispondimi. Mi devi parlare. Adesso. Dimmi che mi senti, Marì.»

Ma gli occhi restano vuoti, fissi, la bocca spalancata in un grido senza suono.

Le massaggia le braccia contratte, la stringe, prova a scacciare il gelo. Intanto ripete il suo nome, cerca di scuoterla da quella apatia di morte.

Non le domanda nulla.

Non c’è nulla da chiedere.

Ha intuito l’enormità dell’accaduto.

E anche, teme, l’identità del responsabile.

Un pensiero angoscia Sabina, più di tutti gli altri: Maria ha la forza per reggere mille avversità, la fatica, il dolore dell’animo e del corpo, ma non può ammettere di essere frugata nella sua intimità. Soffre di un pudore assoluto di sé, quasi una gelosia morbosa. A nessuno, nemmeno alla più vicina delle amiche, ha mai permesso di violare quello che lei considera il limite del rispetto, neppure quando è stata male. Alle volte, per questa sua ritrosia, le altre donne l’hanno derisa.

«Quante storie, ti comporti così perché non ti sei sposata. Cosa faresti, se un giorno dovessi partorire?»

Sabina si sente spezzare il cuore da un dolore profondo: perché Dio si accanisce verso Maria? Perché si ostina a imporle una croce così pesante?

Poi, nel petto, il dolore si trasforma in indignazione, in ira cieca, in un furore che le infonde una forza inarrestabile.

Afferra Maria sotto le ascelle e la solleva di peso.

«Tu vieni con me, adesso, subito. Lo devono sapere tutti. Tutti, lo devono sapere. Sveglio il paese, faccio un macello.»

Non si avvede che sta gridando con quanto fiato ha in gola.

«Alzati, reagisci. Non sei morta. Sei viva. Tua sorella deve vedere con i suoi occhi. Tutto il paese deve sapere quant’è ignobile quell’uomo. Tutti gli devono sputare in faccia! Muoviti!» grida. «Muoviti!»

Pare una forsennata, nonostante il volto rigato di lacrime, una pazza scarmigliata e urlante.

«Cammina! Cammina, ti ho detto. Tutto il paese, sveglio! Tu non hai colpe, hai capito? Tranne una, una sola. Di essere troppo buona. Troppo, Marì. Con tutti. Ed ecco come ti ripaga, quella bestia, quel delinquente, che sia maledetto.»

Le strade del paese sono scosse dalle grida di Sabina, gli usci cominciano a dischiudersi.

Si precipita in casa di Assuntina come una furia, trascinando Maria che sembra inconsapevole di quello che accade intorno a lei, si muove come un’ebete, una marionetta guidata da fili invisibili.

Anche Isidoro ode le grida di Sabina e poi i colpi violenti all’uscio. Sobbalza. Ma cosa sta combinando, quella pazza? Non si rende conto che tutto il paese sta ascoltando le sue grida?

Poi afferra i calzoni, la camicia e fugge dalla finestra sul retro.

Non sa ancora che non rimetterà mai più piede nella sua casa.

Assuntina, inchiodata al suo letto di dolore, quando comprende quello che è successo, si dispera, si strappa i capelli. Ha approfittato troppo di Maria, l’ha trattenuta a casa sua più del dovuto, perché il suo aiuto le faceva comodo, sotto gli occhi del marito, per il quale lei ormai da molto tempo non è più una moglie.

Sabina corre anche a casa di don Carmelo, il vecchio parroco che conosce l’animo, la bontà e la sincerità di ogni pecorella del suo gregge. È molto affaticato e sofferente, don Carmelo, e non esercita più, sostituito ormai da qualche anno da don Leonardo, che ha scelto di svolgere la sua missione proprio nel paese in cui è nato. Ma, in questa occasione, serve don Carmelo.

Con tutta la velocità che le sue gambe malandate gli consentono, il sacerdote accorre nella casa di Assuntina.

Accarezza Maria sulla testa.

«Stammi bene a sentire, Marì. Non hai niente da rimproverarti, perché il peccato non è tuo. Sono qui solo per confortarti, per rassicurarti che Dio ti ama oggi più di ieri, proprio per il martirio che hai patito.»

Maria lo fissa. Adesso sembra un poco più lucida, più consapevole. Forse per questo lo sguardo incute ancora più paura di prima: gelido, duro, impenetrabile.

«Dovevo lasciarmi uccidere» sussurra alla fine.

«Non bestemmiare, Marì!» la rimprovera con veemenza don Carmelo. «Solo Dio può decidere quando è il momento di liberarci della nostra croce.»

Maria tace. Ma l’ostinazione nei suoi occhi parla per lei. Nessuno le toglierà mai più quella convinzione dalla testa.

Doveva lasciarsi uccidere.

Adesso le è chiaro quale sia stato il suo errore, che pagherà per tutta la vita.

Sopravvivere.

Non doveva perdere i sensi. Doveva continuare a lottare fino a costringere lui a ucciderla.

La morte l’avrebbe salvata.

Ora la sua vita non sarà altro che un calvario, ben peggiore di quanto abbia mai conosciuto fino a quel momento, un’espiazione senza fine della sua inettitudine.