Saveria

Saveria è condannata da una malattia misteriosa all’immobilità, su una sedia a rotelle.

La sedia è stato un regalo di Luigi. L’ha fatta venire da Napoli e per lei rappresenta un notevole miglioramento. Prima era immobilizzata in poltrona, priva di qualsiasi autonomia, costretta a un aiuto anche per le funzioni più intime e personali.

L’umiliazione di questa subordinazione le pesa quasi quanto l’assenza del marito dal suo letto, che ormai è definitiva. Luigi ne soffre quasi quanto lei, ma nessuno dei due può impedire questo dolore. Saveria non può essere più una moglie per lui.

Che assurdo smettere di essere una moglie proprio quando don Luigi – lei lo chiama sempre così – ha deciso di regolarizzare la sua posizione e l’ha sposata in chiesa. Saveria non ha mai compreso il motivo di quella decisone, presa senza neppure consultarla, come sempre d’altronde, dando per scontata la sua approvazione.

Agli inizi della loro relazione, subito dopo la morte di Giuanne, era stato proprio don Luigi a insistere per sposarla e lei aveva chiesto di attendere qualche settimana in più per rispettare il lutto. In seguito, però, don Luigi non aveva più accennato alla questione e, nonostante i suoi velati accenni e gli ammonimenti di Leonardo, si era sempre mostrato disinteressato. Si è risolto a compiere quel passo quando a lei, ormai, non interessava più. Forse vi è stato indotto dalle maldicenze del paese – lui che pure è refrattario a subire qualsiasi imposizione sociale o familiare – oppure dal suo insano bisogno di sfidare come sempre i suoi fratelli, che esercitavano ancora pressioni perché quell’unione non venisse mai sancita. O forse, alla fine, l’hanno spuntata le argomentazioni di Leonardo, che è l’unico della famiglia del marito che l’abbia sempre difesa e aiutata.

«Non c’è vergogna nell’amare una persona» le ha ripetuto più volte, sorprendendola. Oppure: «Non sei tu la responsabile della tua condizione. Lo sono molto di più tuo padre prima e mio fratello dopo. E dunque il peccato, come tu lo chiami, anche se agli occhi di Dio davvero ci fosse, sarebbe loro, non tuo. Ma io sono assolutamente certo che il Signore ti ama così come sei e non vede nel tuo comportamento alcuna colpa».

Ma, forse, neppure le pressioni di don Leonardo, che ha pietà di tutti e non condanna nessuno, spiegano la decisione di Luigi. Forse, a muoverlo è stata la compassione per la sua condizione di inferma senza alcuna speranza di guarigione. Una sorta di conforto, di pietoso risarcimento.

In ogni caso, adesso che don Luigi è il suo legittimo marito, lui non la ama più.

Ma come rimproverarlo?

La malattia, unita alla totale inattività, ha reso il suo fisico gonfio e sgraziato, l’ha appesantita, distorcendo i lineamenti fino a trasformarla in un’altra persona. Per questo ha imposto che tutti gli specchi vengano tolti dalla sua stanza. Ne conserva in segreto solo uno, piccolo, sul quale, di tanto in tanto, osserva i guasti che l’infermità produce su di lei. Con pedante pignoleria, scruta le borse che soffocano gli occhi, le guance enfiate e cascanti, la pelle violacea, congestionata dalla rete di venuzze e capillari che si affollano in disegni intricati, sugli zigomi e intorno al naso.

Nessuno riuscirebbe a rinvenire più, in quel viso, una minima traccia dell’antica bellezza. Ormai si trascura: che senso c’è a mantenersi in ordine, a curarsi? Niente potrebbe arginare la devastazione che la progressione inarrestabile del male opera su di lei.

Persino i capelli sono diventati radi e secchi, pendono dal capo in fili contorti e grigiastri, conferendole l’aspetto di una strega. Un tempo li aveva folti e lucidi, uno dei pregi di cui andava più fiera. Avrebbe mai potuto credere, lei così compiaciuta del suo aspetto, così affamata di vivere, che un giorno avrebbe perso ogni ornamento e agognato la morte come una liberazione?

Lei per prima respinge Luigi, per timore di leggere ripugnanza in quegli occhi che, una volta, l’accarezzavano con tanta passione. Adesso, le uniche emozioni di cui può ancora godere sono quelle evocate dalla memoria, oppure, quando è molto fortunata, dal sogno, ancora più appaganti perché talmente vivide, a volte, da donarle l’ebbrezza che provava un tempo fra le braccia di Luigi, quando lui era il suo amante appassionato, capace di travolgere ogni sua resistenza, ogni senso del pudore. Nessuno dei tanti specialisti consultati – Luigi ha speso fiumi di danaro per condurla dai luminari più accreditati – è stato capace di diagnosticare con precisione l’origine del male, ma tutti sono stati concordi nel negare ogni speranza di guarigione.

La malattia che l’affligge forse non è riportata nei libri e non è mai stata studiata, per questo i medici ne ignorano il nome.

Ma lei lo conosce.

Punizione di Dio.

Nonostante la bontà di don Leonardo, le sue pietose e amorevoli bugie, lei è consapevole della verità: quella malattia è la penitenza decretata da Dio per la sua colpa. Ha tradito Giuanne sotto il suo stesso tetto, si è lasciata amare da Luigi mentre il marito legittimo stava morendo. E Dio Padre l’ha punita nel corpo con il quale ha peccato. Ha devastato la bellezza di cui si sentiva tanto orgogliosa. L’ha privata dello struggimento, dell’esaltazione che quell’amore le faceva assaporare.

Non è stata colta di sorpresa dall’evolvere degli eventi. Per qualche ragione, ha sempre saputo in cuor suo che la punizione sarebbe giunta, in una forma o in un’altra.

Quell’espiazione terrena è necessaria, ne è persuasa lei per prima, anche se il suo corpo soffre, geme, languisce, perché, attraverso di essa, potrà salvare l’anima dalla dannazione eterna, se accetterà la sua sorte con fede e rassegnazione.

Purtroppo, così non è.

Il morbo devasta anche il suo animo. È sempre torva, livida di rancore. Cerca sfogo alla disperazione maltrattando le serve e coloro che vengono a trovarla. Tratta male persino Maria l’acquaiola, perché sa che Luigi le vuole bene, e ne detesta la figlia, con quei suoi occhi azzurri, simili a quelli della madre. Vorrebbe proibire al figlio Ermes di frequentarle ma non si sognerebbe mai di contrastare la volontà del marito.

Comprende perfettamente che questo atteggiamento è sbagliato e ingiusto ma non riesce a modificarlo. Nemmeno a Ermes, l’unico figlio che le resta, è in grado di offrire tenerezza, per questo non si oppone alla decisione del padre di mandarlo a studiare in città, come un vero signorino. Meglio stare lontano da una madre inutile e malata come lei.

I figli di Giuanne non vivono più in paese da tempo. Appena adolescenti, sono stati mandati in America. Luigi, forse per liberarsene, si è mostrato generoso e li ha aiutati. Per lei è come se fossero morti, nonostante scrivano con una certa regolarità e siano rispettosissimi sia con la madre, sia con il patrigno, al quale sanno di dovere molto. Il più grande fa il calzolaio e vive in un posto chiamato Irepà. Dice di trovarsi bene, c’è lavoro in abbondanza, anche per i fratelli più giovani. Le scrive di non preoccuparsi per Nicolino, che ci pensa lui, al fratello più piccolo.

Dunque può anche morire. Non serve più a nessuno. Si sente già staccata dal mondo e dagli affetti. Si augura solo che l’espiazione non duri troppo a lungo.