Maria

Maria ha ricevuto una lettera.

Dai francobolli intuisce che arriva dall’America e pensa che provenga da una delle sorelle, sebbene le paia molto strano, visto che non riceve più loro notizie da tempo immemorabile. Però non riesce proprio a immaginare a chi altro attribuirla.

Ha deciso che se la farà leggere da Agnese, non appena andrà a trovarla.

Con Agnese si incontra con regolarità, come accadeva da giovani. Solo quando è accaduta la disgrazia ha sospeso le visite, per non mettere in imbarazzo l’amica. Finché, una mattina, Agnese in persona si è presentata all’uscio della sua casa. Non era mai salita fino al Travucco, dove abita Maria. È la parte del paese riservata ai poveri e non c’è ragione che una signora come lei si avventuri fin lassù, anzi sarebbe disdicevole. Eppure, quella mattina Agnese è lì, abbraccia Maria e la rimprovera di essere sparita senza motivo.

L’acquaiola abbassa lo sguardo, che le cade sul ventre già prominente.

«Sì, senza motivo» ripete Agnese, che ha colto l’allusione di quello sguardo. «I dispiaceri devono unire di più le persone che si vogliono bene, non allontanarle. Tu per me sei come una sorella. E pensavo di esserlo anche io per te. Ma è evidente che mi sbagliavo perché a una sorella si chiede aiuto. Sennò, a che serve?»

Vergogna… le sembra che bisbigli Maria.

«Devi essere orgogliosa, invece» replica Agnese, severa, sillabando bene le parole. «…mio marito e la sua famiglia? Non hanno niente da criticare, anzi ti mandano a dire che mai come ora la loro casa è aperta per Maria l’acquaiola.»

Conclusione: devono continuare a incontrarsi come hanno sempre fatto, una volta al mese. E se mai giungesse un momento in cui Maria non potrà più affrontare la fatica, sarà Agnese a salire da lei al Travucco.

Maria, per quanto detesti le manifestazioni di debolezza, non riesce a trattenere le lacrime. Agnese l’abbraccia. Neppure immagina che quelle lacrime non denotano commozione, ma dispetto e disperazione, come sempre accade quando si tocca quel tasto per lei così doloroso.

Così le visite sono riprese con buona regolarità. Quando la bimba di Maria è in grado di camminare, sgambetta dietro alla madre affannandosi per mantenerne il passo, senza domandare aiuto perché sa che la madre non gliene concederà.

«La vita è dura» la sente ripetere, quando è costretta a rallentare per aspettarla. «Prima lo capisci, meglio è per te.»

Maria porge ad Agnese la lettera da leggere.

«Strano» commenta Agnese. «Sulla busta manca il mittente.»

Ma ancora più stupefacente è scoprire chi l’ha inviata.

Gentile signorina Maria

Vi scrivo dalla Merica per conto di Isidoro, vostro cognato, che e qui con me.

Vi ringrazia di quello che avete fatto per i suoi figli dopo la morte di vostra sorella Assunta. Si dispiace solo che a saputo le cose tardi, sennò provava a venire, anche se qua in America non è come penzate voi in Italia, che i soldi li troviamo per strada, qui si fatica a campare e si muore di fame come al paese. Isidoro mò cià un lavoro abbastanza buono per fortuna, per questo vi manda dentro la lettera questo biglietto da dieci dollari, che sono tanti soldi e lui dice che voi sapete per chi sono. Più avanti vi vuole spedire anche un pacco di vestiti. Isidoro vi manda a dire che lui ora sta benino qui alla merica anche se gli piacerebbe tornare al paese suo, perché si sente troppo solo, e vi vuole sposare, adesso che sua moglie non c’è più. Lui dice che voi lo sapete perché vi vuole sposare, che lui a sempre voluto bene a voi, no a vostra sorella, pace allanima sua, anche se là sposata. E dice che se anche voi non lo volete a lui lo dovete sposare lo stesso per dare un nome a quella creatura che non cià nessuna colpa degli sbagli suoi e che non dovete penzare a voi ma alla bambina, perché lei sennò, quando è grande, vi maledice perché si vergogna che non cià il nome del padre. Adesso lui vi vuole portare tutte due alla merica oppure torna lui nel paese, come vi piace a voi.

Vi manda i saluti e aspetta la risposta.

Maria non è preparata.

Qualcosa le serra la gola, come un boccone amaro che non vuole andare né su né giù. Il coltello è ancora lì, nelle sue carni, dove Isidoro l’ha piantato quella sera, e provoca lo stesso dolore acuto, che non si è mai attenuato, neppure di poco. Ha provato a dimenticarlo, come ha dimenticato tanti altri dolori, ma questo non passa, forse perché il frutto di quell’offesa è sempre lì, sotto i suoi occhi, a rammentargliela. E anzi tormento si è aggiunto a tormento, perché a lei pare proprio di non amarla, sua figlia, e si domanda ogni giorno che razza di mostro sia, una donna che non riesce ad amare la propria creatura. Nemmeno le bestie si comportano come lei, anzi si lasciano ammazzare per difendere i loro cuccioli.

Fra lei e la figlia, invece, c’è un solco di rancore che nessuna delle due riesce a colmare, dal momento che ognuna incolpa l’altra del proprio destino e del proprio dolore.

Agnese poggia una mano su quelle di Maria, chiuse in grembo.

Prova a offrirle il suggerimento che le pare doveroso ma usa la massima circospezione, sceglie le parole con cura, perché Maria è molto gelosa del suo amor proprio e molto più obbediente alla sua coscienza e al suo modo di sentire, che alle regole sociali.

«Forse Isidoro non ha tutti i torti» osserva a voce bassa, rigirando la lettera fra le mani per non fissare in volto Maria. «Dovresti preoccuparti solo della bambina. Il mondo è cattivo e tu lo sai. Anche se a te vogliono bene tutti, lei nessuno la sposerà, se resterà senza un nome. Ci hai pensato a questo? Come farà, da sola?»

Maria però ha già preso la sua decisione. Lo si intuisce dalle labbra serrate e dallo sguardo duro, fisso davanti a sé. E nessun argomento potrà fargliela mutare.

«Camperà lavorando, come ho fatto io per tutta la vita.»

«Maria, rifletti» insiste Agnese. «Non essere egoista. Non pensare solo a te. Isidoro, ora che è vedovo, vuole riparare al male che ha fatto, dice che ti ha sempre voluto bene. Perché non lo perdoni? E poi, vedi cosa scrive? Non se la passa male, potrebbe aiutarti e tu non dovresti più ammazzarti di lavoro come sei costretta a fare.»

«Non c’abbiamo bisogno di niente. Ho badato a me stessa da quando sono nata e posso farlo ancora. E Nella farà come ho fatto io.»

«Le donne non sono tutte come te, Maria. Tu sei… diversa. Ma le altre hanno paura, ad affrontare il mondo da sole. Cosa ti dirà, tua figlia? Che sei stata una cattiva madre, che hai pensato solo a te e non a lei.»

Maria chiude il viso in un’espressione impenetrabile, le palpebre, per pochi istanti, velano l’azzurro degli occhi. Non può svelare a nessuno, neppure a un’amica cara come Agnese, che, in fondo, è proprio così: il bene di sua figlia non è tanto importante ai suoi occhi da persuaderla a consegnarsi a Isidoro, colui che l’ha violata, che l’ha umiliata. Non diventerà mai sua schiava, in cambio di un nome sui documenti e un pezzo di pane. Non c’è legge umana o naturale che possa indurla a un sacrificio così grande. Non gli concederà di vincere su di lei una seconda volta. Nemmeno in nome del bene di sua figlia.

Agnese conosce quella fermezza nello sguardo di Maria e intuisce quale decisione stia maturando nel suo cuore. Ne prova sgomento e osa insistere ancora.

«Forse tu preferisci rimanere libera. Però il prezzo della tua libertà lo pagherà la bambina. Sarà lei a essere rifiutata, a trovarsi la vergogna del marchio NN stampato su ogni documento. Non ti dispiace di condannare un’innocente a una sorte così triste?»

Maria si fa livida in volto. Con un brivido di ribrezzo, rivede se stessa riversa sul letto, la notte del parto, il sangue, l’esserino appena nato esposto al freddo, il suo corpicino livido e quasi senza vita.

«L’ho già salvata dalla morte una volta» mormora. «Di più non posso fare, per lei.»

Agnese non comprende quelle affermazioni ma non si sente di forzare la mano più di quanto abbia già fatto. L’espressione di Maria tronca sulle labbra qualunque ulteriore commento. Prende carta e penna e si accinge a scrivere la risposta che l’acquaiola le detterà.

«Parola per parola, come ti dico io» ingiunge lei. «Non cambiare niente di testa tua. Promettimelo.»

Agnese decide che sacrificherà qualcosa all’italiano per rispettare la fedeltà del messaggio dell’amica.

Questa lettera la manda Maria l’acquaiola e dice a quella persona che lui a me non mi deve cercare mai più – hai scritto proprio così? – e si deve dimenticare anche come mi chiamo. Che non ho bisogno di lui, che mi bastano le mie braccia per mangiare – stai scrivendo preciso come ti dico? – che non ci pensasse a noi, che campiamo bene anche senza di lui e del nome suo non mi importa niente, e niente voglio da lui, neppure la sua elemosina, e i suoi dollari ce li rimando in questa lettera. Da lui volevo il rispetto e quello non me l’ha dato e ora non mi può comprare con i soldi e un nome. E se mi vuole aiutare, se ne deve stare alla Merica, lontano da me, che non ce lo voglio, in paese. E non mi scrivesse mai più.