XVIII

Alla fine della vita, avrei impiegato quaranta secondi per ricordare i due giorni più felici dei miei primi trent’anni. Parcheggiata la macchina, andammo a pranzo e prima di portarmi nell’hotel dove avevamo già trascorso una notte mi sottopose a un altro test per accertarsi che non fossi ubriaca. Amleto chiese una suite, ma la tappezzeria e il letto erano identici a quelli della stanza dove eravamo stati la prima volta.

Ci alzammo soltanto per il cenone, perché lui pretese di festeggiare alla grande l’arrivo dell’anno nuovo. Subito dopo il brindisi, tornammo a rinchiuderci nella nostra suite e vi restammo fino al pomeriggio del due gennaio, facendoci servire i pasti nel salotto.

Tra i momenti più esilaranti vi furono quelli dell’Oddio, Simona! Capitò quattro volte: quelle in cui, sciogliendomi dall’abbraccio di Amleto, mi ricordavo di lei e correvo a prendere il telefonino per tranquillizzarla sul protrarsi della mia assenza.

«Ancoraa?!» Simona sbottò all’ultima chiamata. Era esterrefatta.

 

 

La mattina del due gennaio ci svegliammo alle nove e ci facemmo portare la colazione nella suite. «Secondo te i camerieri ci guardano con aria complice o divertita?» dissi addentando la seconda brioche.

«Sicuramente ti sei fatta una pessima reputazione.»

«Ho capito che in portineria e al ricevimento mi hanno riconosciuta! La prima volta sono uscita dall’hotel alle due del pomeriggio in abito da sera e tacchi a spillo, e la seconda mi sono ripresentata in giacca a vento e scarponcini. Credo che le perplessità del personale riguardino più il mio abbigliamento che la mia morale. Chi sono? Un’alpinista dalla doppia vita oppure una prostituta che ama lo sport?»

«In effetti, quando siamo scesi nel salone per la cena di mezzanotte il maître ha avuto qualche istante di esitazione: eri la sola signora in maglione e pantaloni di fustagno.»

«E scarponcini!»

«Ma eri l’ospite di un signore che ha chiesto una suite presentando la Platinum card dell’American Express...»

«Vuoi insinuare che mi hai salvato dall’essere cacciata dal ristorante?»

«Così funziona, ragazza mia.»

Alle dieci Amleto telefonò alla clinica Puer per fissare un appuntamento con il direttore sanitario. Dopo averlo pregato di aspettare, la segretaria glielo passò personalmente: andava bene per quella mattina stessa, all’una? Amleto rispose che andava benissimo.

«Ti presenti con quei vestiti?» chiesi indicando giacca e pantaloni sformati dalla lunga sosta sotto la neve. «Per il cenone potevi apparire uno stravagante riccone, ma per un aspirante primario non mi sembrano il massimo.»

«Forse hai ragione. Ma come faccio?»

«Elementare: mentre io cerco di rendermi presentabile per il ritorno da Simona, tu vai nel negozio più vicino e ti comperi un completo. E anche una...» Mi interruppi. «Cielo, mi sto comportando come una moglie brontolona quando non ho ancora la certezza che siamo sessualmente compatibili!»

«I negozi chiudono a mezzogiorno. Se credi, possiamo fare un’altra verifica...» insinuò allungando una mano.

«Se mi tocchi, chiamo il centralino!»

«Quando mia nonna vedeva qualcosa che sembrava perfetta, che fosse una mela o una persona, la sua reazione era: dove sta il difetto?»

«Che cosa significa, Amleto?»

«Che me lo chiedo anch’io: dove sta il difetto di Irene?»

«E...?» Lasciai la frase in sospeso.

«Non l’ho ancora trovato.»

Avvampai di piacere. «È solo la seconda volta che ci vediamo.»

«Vedere mi sembra un verbo limitativo per definire i nostri incontri.»

«Ho la tua stessa paura» dissi diventando seria. «È davvero possibile che abbia incontrato l’uomo dei miei sogni?»

«Non ti nasconderò mai nulla. Non ti mentirò mai. Non ti farò mai del male.» Mi abbracciò. «E non sopporto di vederti triste.»

Non lo ero più. «Adesso va’ a comperare il vestito. E anche una camicia adatta.»

«Hai ragione, sai? Ti stai comportando già come una moglie autoritaria e brontolona.»

Un’ora dopo l’uscita di Amleto la portineria mi telefonò per avvisarmi che era arrivato un pacco per me: desideravo che mi fosse portato nell’appartamento?

Un pacco per me? Incuriosita risposi di sì. Era la sacca di una boutique. Quando la aprii, non potei trattenere una risata: si trattava di uno stupendo costume tirolese in loden, lungo fino ai piedi e con il corpetto ricamato. Era accompagnato da un biglietto di Amleto: Per una uscita sbalorditiva dall’hotel. Ne avrai il coraggio?

Arrivò poco dopo, già rivestito a nuovo. «Ti è piaciuto il mio regalo?» chiese posando sul letto la sacca coi vecchi indumenti.

«Ne sono estasiata. Come puoi pensare che non abbia il coraggio di metterlo? Adesso devi andare, il tuo appuntamento è tra mezz’ora.»

«Quello che mi rattrista è dover tornare a Roma stasera.»

«È stato molto più triste l’altra volta, perché eravamo sicuri di non rivederci più.»

Quando Amleto uscì, feci scorrere l’acqua della vasca, vi sciolsi un flaconcino di microsali profumati e restai immersa a lungo tra gli effluvi di gelsomino. Lavai vigorosamente i capelli col getto della doccia, e infine mi avvolsi in un grande accappatoio chiedendomi perché mai solo negli alberghi si potevano trovare accappatoi dalla spugna tanto morbida e assorbente.

Su una mensola vidi anche un cestino ricolmo di prodotti di bellezza miniaturizzati: scelsi una maschera dall’incoraggiante nome Miracle e dovetti strizzarne ben sei tubetti per avere la quantità sufficiente a ricoprire viso e collo.

Tornai a letto e mi sdraiai come da istruzioni: quindici minuti di immobilità per aspettare il miracolo. Mi sentivo fisicamente felice e godevo di quella sensazione. Felicità era vivere momenti così e sapevo bene quanto fossero brevi e rari. Qualunque difetto avessi scoperto in Amleto, qualunque difficoltà, sofferenza o sconfitta ci riservasse il futuro, la sola cosa che speravo era di non perdere più la capacità di saper rivivere quei momenti, di non disabituarmi un’altra volta ad essere felice. Soltanto questo mi aspettavo da Amleto.

I quindici minuti erano passati. Mi alzai per andare a rimuovere la maschera e, osservandone l’effetto allo specchio, dovetti ammettere che era più che soddisfacente. Il tuo viso ti piace perché sai che piace a lui. Anche il corpo, mi risposi ridacchiando. A colpi di phon, e con l’aiuto del solo pettinino in dotazione dall’hotel, cercai di dare una piega ai capelli. Non avevo in borsetta neppure l’astuccio del rossetto. Mi sorrisi con simpatia: sei carina lo stesso.

Sfilai l’accappatoio e cercai di pensare dove al ritorno dal cenone avessi lasciato la mia biancheria: in una poltrona del salotto! Arrossii ricordando con quanto desiderio Amleto mi aveva sfilato slip e reggiseno dopo il frenetico abbraccio che ci eravamo scambiati al ritorno nella nostra suite. Erano ancora lì, perché in quei giorni avevamo aperto la porta solo ai camerieri del ristorante e del bar.

E arrivò infine il momento di indossare il costume tirolese. Mi era sfuggita la balza di passamaneria che guarniva i bordi delle maniche! Stavo per indossarlo quando Amleto ritornò dal suo appuntamento. Non gli diedi il tempo di esternare l’ammirato sbalordimento che vidi nel suo sguardo nel momento in cui gli aprii in slip e reggiseno. «E allora, come è andata? Il posto è ancora disponibile?» gli chiesi.

«Firmerò il contratto la prossima settimana: per correttezza preferisco dare prima le dimissioni.»

«E se tra noi non funzionasse?» chiesi esprimendo un dubbio che mi era venuto in quel momento. «Ti ritroveresti in un’altra città, in un’altra casa, magari con un lavoro che non ti piace.»

«Piccole cose, al confronto del nostro fallimento!» Mi prese tra le braccia. «La segretaria del mio futuro capo mi ha trovato un posto su un volo che parte alle sei da Linate... Non sprechiamo le due ore che ci restano.»

Lasciammo la stanza alle cinque. «Come sto?» chiesi rimirando il costume tirolese nello specchio dell’ascensore.

«Oltre il massimo!»

«Faccio più alpinista o eccentrica accompagnatrice?» Le portiere dell’ascensore si aprirono prima di avere la risposta. Amleto mi prese per un braccio e mi guidò verso il ricevimento. Percorsi la hall a testa alta, e mi fermai qualche passo dietro di lui aspettando che un impiegato gli preparasse il conto. Il computer fece le bizze e l’attesa si prolungò.

Tutto il personale dietro ai banconi sembrava ignorarmi, ma quell’atteggiamento di signorile distacco era stato preceduto da una reazione inequivocabile, pochi istanti di evidente choc. «Lo racconteranno ai nipoti» dissi orgogliosamente quando fummo fuori.

«Di certo hai lasciato un ricordo indimenticabile» Amleto rincarò, altrettanto orgoglioso.

Il taxi chiamato dal portiere arrivò e Amleto indicò all’autista dove aveva parcheggiato la mia macchina. Percorremmo i duecento metri allacciati sui sedili posteriori. Era venuto il momento di separarci. Amleto scese e, dopo aver aperto la portiera della mia auto, mi abbracciò con lo sguardo ridente. Nemmeno io mi sentivo triste perché quello non era un addio, ma soltanto un inizio. Aspettò che svoltassi l’angolo prima di risalire sul taxi che l’avrebbe portato a Linate.

 

 

«Sei proprio tu?» Simona disse al citofono. «Credevo che Amleto ti tenesse legata!»

«Vuoi aprirmi?»

Quando uscii dall’ascensore me la ritrovai davanti. Come mi vide, la sua espressione d’impazienza sparì e sbarrò gli occhi. «Irene, come... da dove viene quel vestito?»

«È un regalo di Amleto.»

«Ti ha scambiato per Sissi l’imperatrice?»

«Ecco che cosa sembro!» esclamai folgorata.

«Sembri una pazza. Ma hai l’aria raggiante» constatò subito.

«Lo sono.»

Mi spinse dentro la porta. «Avanti, entra: adesso devi raccontarmi tutto.»

«Anche i particolari più intimi?»

«Quelli li ho intuiti dalla tua voce languida. Voglio sapere da dove è sbucato Amleto, che cosa ti ha detto, che cosa provi per lui, come ti ha...»

«Vado a togliermi questo vestito e torno.»

Mi guardò di nuovo. «Non è male... Te l’ha regalato per un capodanno in maschera oppure per fare il giochino di Sissi e Cecco Beppe?»

«Niente particolari intimi, avevamo detto.» Sparii nella mia stanza inseguita dalla sua voce: «Sbrigati!».

Cominciammo a parlare alle sei del pomeriggio e alle due di notte non avevo ancora finito di raccontarle tutto.

La sola pausa fu quella della cena: il tempo di preparare due uova strapazzate con una insalata in busta già tagliata e lavata e tornammo in soggiorno. Emanuele si dimostrò più che collaborativo: non soltanto apprezzò il menù ("dovresti farmi più spesso queste deliziose uova") ma si fece carico della piccola Irene dandole la pappa, cambiandola per la notte e facendola addormentare. Alla fine, con grande discrezione, guardò un film nel televisore della cucina e a spettacolo finito venne a darci la buonanotte.

«Adoro Emanuele» dissi a Simona.

«E io no? A tranquillizzarmi non sono state tanto le tue telefonate, quanto quello che Emanuele mi ha detto di Amleto. Fino ai vent’anni sono stati inseparabili, e ancora oggi lo considera uno dei suoi amici più cari. È incredibile quante cose sono riuscita a sapere di lui!!»

Non ne dubitavo affatto. «Per esempio?»

«Vado? Era il ragazzo più popolare del liceo, il suo primo amore si chiamava Luana, è cattolico ma non praticante, la sorella maggiore è morta quando lui aveva tre anni, è contrario all’aborto e al divorzio, non gli piacciono i cani, il suo autore preferito è Mozart, non ha mai messo una maglietta di lana, ha perso interesse per la politica. E c’è un’altra cosa che...»

«Basta così! Sono esterrefatta, lo conosci più di me!»

«Ho avuto tre giorni di tempo per interrogare Emanuele. Ma non ho finito Irene... Da molto tempo ha una relazione con una ragazza che si chiama Giovanna e voleva diventare una diva della lirica. Ma Emanuele assicura che non si sarebbe mai rifatto vivo con te se non l’avesse lasciata.»

«È così. Mi ha parlato di lei ancor prima che arrivassimo alla tua festa, mentre eravamo in macchina.»

«Adesso riprendi il racconto. Eravamo rimaste alla mattina di ieri» Simona ordinò.

«Se tu non mi interrompessi ogni minuto con i tuoi commenti e le tue richieste di precisazione, a quest’ora avrei già finito!»

«Ma che gusto ci sarebbe?»

 

 

Amleto ottenne di fare soltanto tre settimane di preavviso. Avrebbe iniziato il nuovo lavoro alla clinica Puer il primo febbraio, e durante la settimana intermedia avrebbe cercato un appartamento ammobiliato o un residence dove trasferirsi provvisoriamente. Sottolineò quell’avverbio, spiegando che quattro o cinque mesi erano il termine massimo per decidere il nostro futuro e cercare una abitazione definitiva per entrambi.

Amleto mi telefonava al risveglio, a metà mattina, all’ora di pranzo, a metà pomeriggio, prima di andare a dormire. Tornò a Milano per la firma del contratto e Simona lo volle invitare a cena. Quando lui preannunciò che avrebbe approfittato di tutti i giorni liberi per un "voletto" da Roma, lo invitò a dormire a casa sua.

«Dove sta il difetto?» chiedevo, estasiata, a Simona.

«È pignolo, ordinatino, impiccione, prepotente: per il resto è perfetto!»

«Ti ha conquistata dichiarando che la piccola Irene è la bambina più bella e più sana che ha visto» insinuai.

«Voglia il cielo che Amleto non scopra che donna cinica sei» ribatté. Lo aveva promosso in partenza, e soltanto per l’attaccamento che mi dimostrava.

Ma l’affetto vero iniziò quando Amleto, dopo averla accompagnata al Centro, si impegnò a offrire la sua collaborazione di pediatra una volta che si fosse trasferito a Milano.

Fino alla riapertura del mio Poliambulatorio, trascorsi molte notti e quasi tutte le giornate al Centro occupandomi soprattutto di Davide. Un paio di volte incontrai il giudice Verdi: come avevo potuto giudicare negativamente una persona tanto umana e sensibile? Mi vergognai per aver rifiutato sua moglie come paziente, e glielo dissi apertamente: ma né le sue parole di comprensione né l’apprendere che la moglie era ormai completamente ristabilita cancellarono il mio disagio.

Roberto Verdi, straziato quanto tutti noi per la sorte di Davide, aveva continuato a rimandare con mille cavilli il ricovero in istituto, ma ormai quel giorno si avvicinava. La data era stata stabilita, inesorabile e improrogabile: la fine di quel mese.

Il 22 gennaio Amleto lasciò definitivamente Roma e si sistemò nella poltrona letto dello studio di Emanuele in attesa di trovare il residence o l’appartamentino. Simona organizzò una cenetta per festeggiare l’evento, ma quando cominciò a parlare di Davide ogni traccia di gioia sparì.

«È possibile che nessuno possa fare qualcosa per lui?» chiesi affranta.

«Purtroppo non è un cane» Amleto disse cupamente. «Con tutto il rispetto per gli animali, se ci si occupasse dei bambini abbandonati o maltrattati con lo stesso fervore e la stessa indignazione che suscita la sorte dei cani, dei gatti o della foca monaca, esisterebbero pochi casi come quello di Davide.»

Fu a quel punto che vidi il viso tetro di Simona animarsi e scorsi nel suo sguardo un’improvvisa luce. Si rivolse al marito. «Emanuele, non ho fatto che pensarci.»

«Anch’io.»

Trattenni il fiato aspettando che proseguissero, ma intervenne Amleto. «Sapete che cosa vi aspetterebbe?» Aveva capito anche lui.

Emanuele fu il primo a rispondere. «Io sì. Ma volevo che fosse mia moglie a parlarne, perché aspetta un secondo figlio e perché la responsabilità e le cure di Davide ricadrebbero soprattutto su di lei.»

«Basta con questi condizionali!» Simona proruppe. «Ogni volta che guardo la piccola Irene, ogni volta che penso al bambino che arriverà provo una stretta al cuore per Davide. So bene tutto quello che mi aspetta, e che aspetterà Emanuele e i bambini, ma voglio occuparmi di lui, dargli una famiglia. Non lo faccio per riparare alle violenze che ha subito, ma perché ormai lo amo. Lo sai?» disse rivolgendosi a Emanuele. «Ieri mi ha sorriso

«L’argomento è chiuso. Domattina chiederemo ufficialmente che Davide ci sia affidato e, appena possibile, dato in adozione» Emanuele disse quasi burbero. Mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. Tutti avevamo gli occhi lucidi.