XIX

Quella notte, quando tutti i rumori della casa tacquero, raggiunsi Amleto in punta di piedi.

«Mi hai preceduto di un istante» sussurrò spostandosi per farmi un piccolo posto sulla poltrona letto.

«Penso a Simona e a Emanuele... Anche se non sono sposata, ho la certezza che il giudice Verdi avrebbe trovato ugualmente il modo di darmi Davide pur di non farlo finire in un istituto. Bastava chiederglielo. Ci ho pensato tanto anch’io, sai? Ma alla fine mi è mancato il coraggio di farlo.»

«Soltanto perché per te, come per me, prendere Davide equivaleva a un atto eroico.»

«Ho già sentito una spiegazione simile. Per caso hai parlato con Antonia Pozzi?»

«Molto a lungo! Se posso farti una confidenza, lei era sicura che Simona e il marito sarebbero arrivati a questa decisione. Aspettava che riflettessero. E più tempo passava, più si rassicurava sul futuro di Davide. Per i nostri amici crescerlo come un figlio non è stato un colpo d’audacia o una decisione eroica... Ci sono arrivati da persone sensate, quando si sono sentiti pronti. Come dovrebbero fare tutte le coppie prima di mettere al mondo un essere umano...»

«Sono belle parole, ma io mi sento lo stesso una vigliacca. Qualche anno fa non avrei esitato un istante.»

«Fortunatamente non hai più l’incoscienza di allora.»

«Forse è la storia con Tommaso che ha lasciato il segno.»

«Non dirlo nemmeno per scherzo.» Cambiò subito discorso. «Simona può assumersi questa responsabilità perché ha scelto di fare la madre di famiglia a tempo pieno, mentre tu avresti dovuto rivoluzionare la tua vita.»

«Forse se avessi un figlio lascerei tutto come ha fatto lei.»

«Simona aveva un posto da impiegata, tu hai un lavoro che ami. Lasciare tutto sarebbe una scelta molto più difficile.»

«Ti dispiacerebbe se continuassi a...»

«Irene, molte donne riescono a conciliare lavoro e famiglia. Mi dispiacerebbe solo se facessi qualcosa che non vuoi o che non senti solamente per compiacermi.»

«Però hai lasciato una donna che amavi perché era troppo ambiziosa.»

«È stata una delle moltissime ragioni, e nemmeno la più importante. Adesso mi chiederai: "Qual è stata la più importante?"».

«Aspetto la risposta.»

«L’ho lasciata dopo avere incontrato te. La passione era già finita, e ho capito che non c’era stato altro a legarci.»

«E per me provi passione? Oppure sono la donna giusta e basta?»

«Finalmente una bella domanda: provo troppa passione per capire se sei la donna giusta!»

Avrei dovuto sentirmi felice per quella dichiarazione? Amleto mi strinse tra le braccia senza permettermi di riflettere.

Alle sei e mezzo mi alzai silenziosamente per ritornare nella mia stanza. Anche Simona si era appena alzata, e ci incrociammo nel corridoio. «Se Amleto verrà a dormire da te, sicuramente starete più comodi» fu il suo commento.

Mi confessò che lei ed Emanuele avevano parlato tutta la notte di Davide e di come organizzarsi. Era molto emozionata all’idea di incontrare il giudice Verdi e per questo avevano deciso che preferivano parlare prima con Antonia Pozzi, affinché fosse lei a chiedere un appuntamento e ad anticipargli la loro decisione. Sarebbero andati al Centro alle nove.

Tranquillizzai Simona riferendole quello che Amleto mi aveva detto la sera prima. E aggiunsi che secondo me non soltanto Antonia, ma anche il giudice Verdi si aspettava la loro richiesta di affido.

Andammo a finire la nostra conversazione in cucina, davanti a una tazza di caffè. La speranza di Simona era adesso che il giudice le consentisse di prendere Davide al più presto, senza dover attendere che le normali procedure dell’affido andassero in porto.

Mi dispiacque non poter accompagnare al Centro lei ed Emanuele: purtroppo il Poliambulatorio aveva riaperto da pochi giorni e non potevo chiedere di rinviare gli appuntamenti già fissati da tempo.

Il pensiero del lavoro mi fece scattare come una molla: erano le sette e mezzo, dovevo correre a prepararmi. Amleto entrò in cucina nel momento in cui io ne uscivo, e dalla mia stanza li udii chiacchierare animatamente. Poco dopo, alle loro voci si unì quella di Emanuele.

Quando andai a salutarli, Amleto mi chiese di esprimere un parere obiettivo: non mi sembrava che quella casa fosse diventata troppo affollata? Era sensato oppure offensivo che lui approfittasse dei pochi giorni che gli restavano prima di iniziare il nuovo lavoro per cercare un’altra sistemazione?

Simona non mi lasciò parlare. «È sensato solamente se vuole stare più comodo! Ma lui nega, dice che qui si sente come a casa sua! A questo punto è offensivo che se ne vada pensando di disturbare!» strillò.

Amleto mi guardò aspettando che dicessi la mia. Scossi allegramente la testa. «Non chiedermi di tenere testa alla logica di Simona: ha sempre avuto l’abilità di fare apparire il suo punto di vista una verità incontestabile: con le parole riuscirebbe a convincerci che adesso è mezzanotte!»

«È raro, anzi, rarissimo, che io sbagli» Simona disse sostenuta.

Toccò a Emanuele dirimere la controversia. «Aspettiamo che Davide sia con noi: se capiremo che siamo davvero troppi, Amleto potrà andarsene senza offendere nessuno.»

«Mi sembra la soluzione più sensata» dissi. E andai.

Simona mi chiamò alle undici: era fatta! Stavano recandosi con Antonia dal giudice Verdi per avviare la pratica dell’affido, ma sicuramente, entro tre o quattro giorni avrebbero potuto portare Davide a casa.

All’una mi telefonò Amleto: aveva invitato a colazione Antonia e nel pomeriggio si sarebbe fermato al Centro con lei per visitare alcuni bambini che non stavano bene e per controllare le scorte di medicinali: quelli che mancavano, li avrebbe procurati lui.

Alle otto, quando tornai a casa, trovai Davide. Era in cucina, accucciato nel piccolo spazio tra il frigorifero e la madia. Succhiava furiosamente il ciucciotto, e ogni volta che Simona ed Emanuele si curvavano verso di lui, chiamandolo dolcemente per nome e allungando le braccia, si ritraeva spaventato.

Mi avvicinai ad Amleto: «Che cosa è successo?».

Mi posò un braccio attorno alle spalle. «Ha la bronchite» sussurrò «e non riusciamo a fargli prendere l’antibiotico. Dovremo aprirgli la bocca con la forza.»

«Ci provo io» dissi sciogliendomi dal suo abbraccio. In quell’ultimo periodo ero stata molto vicina a Davide, più di Simona, e alcune volte ero riuscita a comunicare con lui. Come aveva detto Antonia, sembrava davvero regredito allo stadio di un bambino di due anni: ma io, pur non essendo una psicologa, avevo il sospetto che Davide avesse la consapevolezza dei suoi comportamenti e che fosse scientemente ritornato a quell’età per rivivere una prima infanzia che non aveva avuto, per cancellare il ricordo dell’abbandono e delle violenze che aveva subito. Voleva le coccole, i baci, il succhiotto, le cantilene, le parole storpiate, le smorfie buffe: essere trattato da piccolo ometto ragionevole lo spaventava.

«Lasciate fare a me» dissi a Simona e ad Emanuele. Mi accovacciai davanti al lavello e improvvisai un gioco: tutti gli animali del cielo e della terra volevano prendere il bimbo Davide perché gli volevano bene, ma non riuscivano perché la foca Irene gli voleva più bene di loro e non intendeva lasciarlo portare via.

Richiamando la sua attenzione, cominciai a fare l’imitazione del cane, del gatto, dell’aquila, della balena, dell’orso: ma ogni volta che facevano per prenderlo li scacciavo imitando la foca Irene e gridando con un grosso vocione: «Questo bambino è solo mio, e non ve lo darò mai!». Intanto scrutavo il suo viso. Aveva smesso di succhiare e mi guardava con attenzione. Subito dopo aver scacciato l’ultimo animale, la volpe, mi avvicinai a Davide e dissi in fretta: «Attaccati alle mie braccia, forza, sennò adesso ritorna l’aquila!».

Davide si sporse verso di me allungando le manine verso le mie braccia. «Sì, sì, scappiamo, vojo stale qui!» disse eccitato. Lo sollevai da terra e lo feci ballare. Feci un cenno d’intesa a Simona perché mi desse l’antibiotico. Simona, come in trance, versò lo sciroppo nel cucchiaino dosatore e senza farsi vedere da Davide me lo porse.

Smisi di ballare. «Adesso dobbiamo bere la crema magica» dissi a Davide. «Se la bevi con la bocca aperta e gli occhi chiusi, avrai in premio un bacione della tua amica foca!»

Davide strizzò gli occhi: «Così?» chiese.

«Sì, così va bene. Però devi spalancare anche la bocca!»

Non appena la aprì, gli infilai il cucchiaino in bocca.

«Ma come ti è venuto in mente questo gioco?» Simona chiese ammirata.

«Sei stata straordinaria... Perfetta!» esclamò Emanuele.

Amleto fece una smorfia. «Poteva fare di meglio: la foca non ha le braccia!»

Più tardi, mentre Emanuele si curava della piccola Irene e Simona faceva addormentare Davide fingendo di essere foca Ninnananna sorella della foca Irene, Amleto mi raccontò perché Davide aveva potuto lasciare il Centro quel giorno stesso.

Stava male, continuava a dondolarsi seduto sul letto, respingendo chiunque si avvicinava. I volontari non sapevano più che cosa fare, e le due ragazze della notte erano molto preoccupate all’idea di doversi assumere la responsabilità del bambino. A quel punto Amleto aveva telefonato al giudice Verdi per spiegargli come stavano le cose e chiedergli se non era possibile portare Davide quel giorno stesso nella nuova casa.

Dopo la telefonata, Verdi era andato al Centro per rendersi personalmente conto della situazione e dieci minuti gli erano bastati per autorizzare il trasferimento. Alle cinque del pomeriggio Emanuele e Simona avevano già il bambino: nell’attesa di ottenerne l’affidamento ufficiale, risultavano come una delle tante coppie che collaboravano col Centro curandosi dei piccoli e ospitandone alcuni per una intera giornata o i fine settimana. Ma il giudice si era impegnato a risolvere entro pochi giorni la situazione, riconoscendo a Emanuele e Simona il ruolo di genitori affidatari con espressa volontà di adozione.

La casa "troppo affollata"? Tre giorni dopo mi resi conto che quattro persone adulte, tre delle quali disponibili soltanto durante la pausa del pranzo e nel tardo pomeriggio, erano appena sufficienti per condividere l’impegno del recupero di Davide.

Solamente il contatto quotidiano con lui ci permise di capire quanto profondamente la sua piccola vita fosse stata devastata. Superata l’iniziale selvatichezza, voleva sempre essere tenuto in braccio e alla sera si addormentava solamente se aveva qualcuno di noi a cui aggrapparsi. Il suo sonno era agitato e leggero, e di tanto in tanto si svegliava urlando. Durante la giornata anche la cosa più semplice, come fargli bere una spremuta di arancia, diventava una conquista: diventammo tutti e quattro giocolieri, pagliacci, imitatori.

Era gelosissimo della piccola Irene e la sua sola vista gli causava uno stato di sofferenza e di paura che esprimeva piangendo o picchiando la testa contro il muro. Era evidente che vedeva in lei l’usurpatrice. Fu Simona, stavolta, a avere l’intuizione: «Vuole che lo trattiamo come lei!».

Comperò un altro seggiolone, un altro infant sit e il problema di farlo mangiare venne provvisoriamente ma totalmente risolto ricorrendo al biberon: Emanuele praticò al succhiotto un foro grande come una nocciola e grazie a questo marchingegno riuscimmo a fargli divorare minestrine, latte, spremute a cui Simona aggiungeva carne frullata, formaggi fusi, miele, biscotti, pastina. In una settimana Davide recuperò un chilo di peso e sul suo visetto magro e pallido comparvero un po’ di colorito e qualche segno di rotondità infantile.

Amleto comperò un passeggino doppio, per gemelli, e questo rese più facile convincerlo a uscire, cosa che per lui equivaleva a un terrorizzante distacco da un ambiente che cominciava ad essergli famigliare.

E non soltanto: mangiando come Irene, uscendo nello stesso passeggino di Irene, stando seduto al fianco di Irene, anche la sorellina diventò per lui una presenza famigliare e, da un giorno all’altro, smise di essere geloso di lei. Simona, per quanto esausta, rifiutò energicamente l’offerta di un sostegno e spiegò ad Antonia che una persona estranea avrebbe rischiato di disturbare e confondere Davide nel suo lento ambientarsi. La sua famiglia eravamo noi quattro, e i genitori di Simona ed Emanuele si rendevano utili portando qualche giorno o qualche domenica Irene a casa loro.

Non soltanto era la bambina "più sana e più bella del mondo", come Amleto l’aveva definita, ma rivelò precocemente una natura dolce e serena: benché trascurata, non piangeva mai e agitava felicemente le braccine quando Davide si avvicinava.

Io riuscii a organizzarmi in modo da avere un giorno infrasettimanale libero e consentire a Simona di uscire, andare dal parrucchiere, avere qualche ora per sé.

Antonia Pozzi approfittava di tutti i momenti liberi per fare una scappata a casa di Simona. Erano le visite di un’amica, fatte al solo scopo di dimostrare che ci era vicina. Antonia non riusciva a capacitarsi che in così breve tempo Davide avesse fatto tanti progressi: fisicamente aveva ormai l’aspetto di un bambino normale.

«È soltanto l’aspetto!» sottolineava Simona. Sottintendendo che a quattro anni nessun bambino normale storpia le parole, mangia col biberon, vuole stare sempre in braccio, comincia appena a camminare liberamente per la casa.

Simona l’incontentabile, Antonia la definiva. Un pomeriggio portò con sé il dottor Verdi. Era uno dei giorni in cui Irene era dai nonni, Simona fuori casa e io sola con Davide: così fui la prima a sapere che la mia amica e il marito erano diventati, ufficialmente, i suoi genitori affidatari.

Il giudice, che non vedeva il bambino da quando aveva lasciato il Centro, stentò quasi a riconoscerlo. «Non avevo alcun dubbio sulle capacità e sulle doti umane di Emanuele e Simona, ma quello che sono riusciti a fare è sorprendente» mormorò.

Antonia mi indicò. «Senza l’aiuto di Irene e del suo uomo questo miracolo non sarebbe potuto avvenire!»

«Amleto è il mio fidanzato» precisai avvampando.

«A quanto pare non ha ancora smesso di considerarmi un giudice puritano e...»

«Questo non è vero! Gliel’ho detto soltanto perché non vorrei che si creassero i problemi e gli equivoci di un tempo.» Era la prima volta che pensavo a Tommaso.

«È ancora peggio» il dottor Verdi osservò con amarezza. «In pratica, mi sta dando dell’imbecille.»

«Lei è una persona eccezionale!» protestai. «Imbecille sono stata io per averlo capito troppo tardi.»

«E allora perché si fa dei problemi che non esistono?»

«Perché...» Lo guardai in faccia. «Io e Amleto dormiamo insieme, nel letto matrimoniale della camera degli ospiti, e facciamo a turno con Simona ed Emanuele per tenere il bambino... Davide si addormenta soltanto se sta in mezzo a...» Mi interruppi imbarazzata. «Forse questo non è legale.»

Il giudice scoppiò a ridere. «Irene, che idea si è fatta della legge? Ho conosciuto Amleto e abbiamo parlato a lungo. Anche di lei e dei problemi di Davide: sapevo dei vostri turni per farlo dormire, e ritengo Emanuele e Simona molto fortunati per avere trovato due amici come voi.»

«Mi scusi.»

«Lei deve smetterla di stare sulle difensive» replicò in tono quasi paterno. «Anche Amleto è fortunato per averla incontrata.»

«Gliel’ha detto lui?»

«Non in questi termini. Ma parla del vostro rapporto con tale entusiasmo che è facile desumerlo.»

«Sono sulle difensive solamente con lei» sentii il bisogno di confessargli.

«Perché sono un giudice?»

«Non lo so. Forse perché in passato sono stata costretta a difendermi...»

«E io a ferirla.»

«Questo ormai l’ho superato... dimenticato. Per me sono stati anni molto tristi.» Alzai la testa e lo guardai negli occhi. «Ma posso pensare al passato senza soffrirne più.»

Era vero. Per la seconda volta in pochi minuti avevo ricordato Tommaso, ed era stato come evocare un estraneo, un fantasma. Quella sera, quando fummo a tavola, Simona volle sapere tutti i particolari della visita di Antonia e del giudice.

Alla fine, mi rivolsi ad Amleto. «Non sapevo che tu conoscessi tanto bene il giudice Verdi!»

«Ci siamo incontrati soltanto due volte, ma abbiamo simpatizzato subito.»

Dal particolareggiato racconto avevo volontariamente omesso i commenti di Verdi sulla mia persona e il nostro rapporto. Glieli dissi più tardi, a letto, parlando a bassa voce per non svegliare Davide.

Amleto sollevò una mano e raggiunse la mia. «Verdi ha ragione solo in parte, perché incontrare la foca Irene è stata più che una fortuna, un miracolo.»

Fece per avvicinarsi spostando delicatamente il corpo di Davide. E fu in quel momento che avvenne il miracolo vero. Davide si sollevò sul busto come una molla e disse: «La foca Irene è mia!». La sua prima frase da piccolo ometto geloso, senza storpiature e con un intimidatorio senso compiuto.