Dodici
Durante quell’anno, e specialmente nei mesi invernali, si ritrovò a tornare sempre più spesso a quello stato d’irrealtà. Sembrava in grado, a piacimento, di rimuovere la sua coscienza dal corpo che la conteneva e di osservarsi dall’esterno come un estraneo che ripeteva i gesti di sempre in modo stranamente familiare. Era una dissociazione che non aveva mai provato prima. Sapeva che avrebbe dovuto preoccuparsene, ma si sentiva come inebetito e non riusciva a convincersi che fosse importante. Arrivato a quarantadue anni, William Stoner non vedeva nulla di emozionante nel proprio futuro. Del suo passato, poco gli interessava ricordare.
Quando ne compì quarantatré, era magro quasi come lo era stato da giovane allorché, colmo di stupore e paura, aveva passeggiato per la prima volta nel campus, che ancora non aveva perso il suo fascino su di lui. Anno dopo anno, le sue spalle s’erano andate incurvando, ma aveva imparato a rallentare i movimenti in modo che la sua goffaggine da contadino, nel muoversi e nel camminare, sembrasse più una scelta che una difficoltà congenita. Il suo viso lungo s’era ammorbidito col tempo e anche se la pelle era ancora bruna come il cuoio non si tendeva più sugli zigomi aguzzi restando addolcita dalle rughe sottili intorno alla bocca e agli occhi. Sempre vivaci e chiari, i suoi occhi grigi erano un po’ più affossati nel viso e lo sguardo vigile e attento ne rimaneva in parte nascosto. I capelli, un tempo castano chiaro, si erano scuriti, anche se cominciavano un po’ a ingrigirsi intorno alle tempie. Non pensava spesso alla sua età, né rimpiangeva lo scorrere degli anni, ma quando si guardava allo specchio o scorgeva la sua immagine riflessa in una delle porte a vetri della Jesse Hall, riconosceva i cambiamenti sul suo viso con un lieve sconcerto.
Un pomeriggio sul tardi, verso l’inizio della primavera, sedeva da solo nel suo ufficio. Una pila di temi delle matricole giaceva sulla scrivania; ne teneva uno tra le mani, ma non lo stava leggendo. Come ultimamente gli accadeva spesso, guardava fuori dalla finestra, verso quella parte del campus che poteva vedere da lì. Era una giornata luminosa e l’ombra della Jesse Hall, sotto ai suoi occhi, era avanzata quasi fino alla base delle cinque colonne che si stagliavano aggraziate e possenti al centro del cortile rettangolare. Una porzione del quale, di un color grigio-bruno intenso, era immersa nell’ombra. Oltre il confine dell’ombra l’erba invernale era leggermente rossiccia, coperta da una pellicola luccicante di un verde pallidissimo. Contro la ragnatela nera dei rami dell’edera da cui erano avvolte, le colonne di marmo brillavano di bianco. Tra poco, pensò Stoner, l’ombra striscerà anche su di loro, la base diventerà scura e le tenebre saliranno prima lentamente e poi sempre più veloci, finché...
Sentì che c’era qualcuno in piedi alle sue spalle. Si voltò sulla sedia e alzò lo sguardo. Era Katherine Driscoll, la giovane insegnante che l’anno prima aveva seguito il suo seminario. Da allora, anche se di tanto in tanto, s’incontravano nei corridoi salutandosi con un cenno del capo, non avevano mai parlato davvero. Stoner sentì un vago fastidio nel trovarsela davanti. Non voleva ripensare a quel seminario e alle conseguenze che ne erano derivate. Spinse indietro la sedia e si alzò con un po’ d’imbarazzo.
«Miss Driscoll», disse sobriamente indicando la sedia accanto alla sua scrivania. Lei lo guardò per un momento. Aveva gli occhi grandi e scuri, e Stoner pensò che il suo viso era straordinariamente pallido. Chinando leggermente il capo, si allontanò da lui e prese posto sulla sedia che le aveva indicato.
Stoner tornò a sedersi e la fissò per un istante, senza davvero vederla. Poi, sentendo che quello sguardo poteva apparire maleducato, cercò di sorridere e mormorò un’inutile domanda di circostanza sui suoi studi.
All’improvviso lei esclamò: «Lei... lei una volta mi disse che sarebbe stato disponibile a leggere la mia tesi, quando fossi arrivata a buon punto».
«Sì», disse Stoner, annuendo. «Credo di averlo detto. Certo».
Solo allora notò che la ragazza stringeva in grembo una cartellina con dei fogli.
«Naturalmente, se è impegnato...», fece timidamente lei.
«Nient’affatto», replicò Stoner, cercando di mettere un po’ d’entusiasmo nella voce. «Mi dispiace. Non intendevo sembrarle poco interessato».
Con qualche esitazione, lei gli porse la cartellina. Stoner la prese, la soppesò, e le sorrise. «Pensavo fosse andata molto più avanti», disse.
«L’avevo fatto», ammise lei, «ma poi ho ricominciato daccapo. Sto seguendo un’altra direzione e... le sarei grata se mi dicesse cosa ne pensa».
Stoner le sorrise di nuovo e annuì; non sapeva che dire. Rimasero in silenzio, imbarazzati, per qualche istante.
Alla fine lui parlò: «Quando ha bisogno di riaverla indietro?».
Lei scosse la testa. «Quando vuole. La legga quando ha tempo».
«Non voglio farla aspettare», disse lui. «Che ne dice di venerdì prossimo? Per me sarebbe più che sufficiente. Facciamo alle tre?».
Lei si alzò di colpo, così come si era seduta. «Grazie», disse. «Non voglio esserle di alcun disturbo. Grazie». Girò sui tacchi e se ne andò, snella e dritta, fuori dall’ufficio.
Stoner restò per un momento a guardare la cartellina che gli era rimasta tra le mani. La mise sulla scrivania e tornò ai suoi temi.
Questo accadeva un martedì, e nei due giorni successivi il manoscritto restò intonso sulla scrivania. Per ragioni che non comprendeva a pieno, Stoner non si decideva ad aprire la cartellina e ad affrontare il testo, la cui lettura – solo pochi mesi prima – sarebbe stata più un piacere che un dovere. Lo guardava con aria stanca, come un nemico che voleva attirarlo in una guerra a cui aveva rinunciato.
Giunse il venerdì e ancora non l’aveva letto. Era rimasto sulla scrivania e lo guardava con aria accusatoria mentre raccoglieva i libri e gli appunti per la lezione delle otto. Quando tornò in ufficio, poco dopo le nove, decise di lasciare un biglietto nella cassetta della posta di Miss Driscoll presso l’ufficio principale per chiederle un’altra settimana. Poi invece pensò di leggerlo in fretta e furia prima della lezione delle undici e di farle qualche osservazione di circostanza quando sarebbe venuta nel pomeriggio. Ma non riuscì a fare nemmeno quello e, poco prima di uscire per la lezione, l’ultima della giornata, prese la cartellina dalla scrivania, la infilò in mezzo ad altre carte e attraversò di corsa il campus per andare in classe.
A mezzogiorno, dopo la lezione, fu trattenuto da alcuni studenti che avevano bisogno di parlargli e riuscì a liberarsi solo dopo l’una. Si incamminò, con una sorta di feroce determinazione, verso la biblioteca. Sperava di trovare un banco libero e di dedicare almeno un’ora alla lettura del manoscritto, prima dell’appuntamento delle tre con Miss Driscoll.
Ma perfino in quel silenzio e in quella penombra tanto familiari, seduto a un banchetto libero che aveva scovato nei recessi più profondi della biblioteca, dovette fare uno sforzo enorme per costringersi a guardare le pagine che aveva portato con sé. Prima aprì degli altri libri, leggendo qualche paragrafo a caso, poi restò seduto immobile, inalando l’odore di muffa che proveniva dai vecchi volumi. Infine sospirò. Incapace di rinviare ulteriormente, aprì la cartellina e gettò una rapida occhiata alle prime pagine.
All’inizio la sua mente si concentrò solo marginalmente, e in modo nervoso, sulla lettura. Ma poco a poco le parole s’imposero su di lui. Aggrottò la fronte e lesse con più calma. E allora fu catturato: tornò all’inizio e la sua attenzione si riversò sulle pagine. Sì, disse tra sé, naturalmente. Molto del materiale che la Driscoll aveva raccolto nella sua ricerca per il seminario era confluito in quel testo, ma dopo essere stato riscritto, riorganizzato e orientato secondo un criterio che lui stesso aveva solo intuito. Dio mio, si disse con una sorta di stupore, e le dita gli tremavano per l’eccitazione, mentre voltava le pagine.
Quando arrivò all’ultimo foglio dattiloscritto, poggiò la schiena alla sedia, esausto, e restò a fissare il muro di cemento grigio che aveva davanti a sé. Anche se gli sembrava che fossero passati solo pochi minuti da quando aveva cominciato a leggere, guardò l’orologio. Erano quasi le quattro e mezza. Si alzò precipitosamente dal banco, raccolse i fogli in fretta e furia e corse fuori dalla biblioteca. Pur sapendo che ormai non faceva alcuna differenza, attraversò il campus quasi correndo, diretto alla Jesse Hall.
Mentre passava davanti alla porta dell’ufficio principale, diretto verso la sua stanza, si sentì chiamare per nome. Si fermò e fece capolino nella stanza. La segretaria, una ragazza nuova che Lomax aveva assunto da poco, gli disse con tono accusatorio, quasi insolente: «Miss Driscoll è venuta alle tre in punto. Ha aspettato quasi un’ora».
Stoner annuì, la ringraziò e s’incamminò di nuovo, più lentamente, verso il suo ufficio. Si disse che non importava, che poteva restituirle il manoscritto anche lunedì e farle le sue scuse allora. Ma l’eccitazione che aveva provato finendo di leggere il testo non diminuiva, e continuava a camminare avanti e indietro nella stanza. Di tanto in tanto si fermava e annuiva tra sé. Alla fine si avvicinò alla libreria, cercò per qualche istante e prese un libricino con la copertina tutta imbrattata, su cui era scritto con dei caratteri neri: Elenco degli iscritti e del personale, Università del Missouri. Trovò il nome di Katherine Driscoll: ma non aveva un telefono. Si appuntò il suo indirizzo, prese il suo manoscritto dalla scrivania e uscì dall’ufficio.
A circa tre isolati dal campus, in direzione della città, c’era un caseggiato di vecchie abitazioni piuttosto grandi che, qualche anno prima, erano state divise in appartamenti. Vi abitavano studenti vecchi e nuovi, impiegati dell’università e altra gente del posto. La casa in cui viveva Katherine Driscoll era al centro del caseggiato. Era un enorme edificio a tre piani fatto di pietra grigia, con un’incredibile varietà di entrate e uscite, e torrette, bovindi e balconcini che spuntavano ovunque in lungo e in largo. Alla fine Stoner trovò il nome di Katherine Driscoll sopra una cassetta delle lettere su un lato del palazzo, dove una breve rampa di scalini scendeva verso la porta di un seminterrato. Esitò per un momento, poi bussò.
Quando Katherine Driscoll gli aprì la porta, Stoner quasi non la riconobbe. Aveva i capelli tirati in su, raccolti in modo un po’ sbrigativo, che le lasciavano scoperte le orecchie, piccole e di un color rosa pallido. Portava degli occhiali con la montatura scura, dietro cui si scorgevano gli occhi, ora spalancati per lo stupore. Indossava una maglietta da uomo aperta sul collo e dei pantaloni scuri che la facevano sembrare più magra e aggraziata del solito.
«Mi... mi dispiace di non essere venuto all’appuntamento», disse Stoner imbarazzato. Le porse la cartellina. «Ho pensato che potesse averne bisogno, nel fine settimana».
Per un lungo istante, lei rimase in silenzio. Lo guardava senza alcuna espressione, mordendosi il labbro inferiore. Poi fece un passo indietro e disse: «Vuole entrare?».
Stoner la seguì lungo un corridoio molto corto e stretto fino a una piccola stanza, buia e col soffitto basso, con un lettino a una piazza e mezzo che fungeva da divano, davanti al quale c’era un tavolino lungo e basso, una poltroncina imbottita, un piccolo scrittoio con una sedia e una libreria a muro zeppa di libri. Molti altri volumi giacevano aperti in terra e sul divano e sullo scrittoio erano sparpagliate delle carte.
«È molto piccola», disse Katherine Driscoll, chinandosi a raccogliere un libro da terra, «ma a me non serve tanto spazio».
Stoner si sedette sulla poltroncina imbottita davanti al divano. Katherine gli chiese se voleva un caffè e lui rispose di sì. Lei uscì dalla stanza e lui si rilassò un poco, guardandosi intorno e ascoltando i piccoli rumori che provenivano dalla cucina.
Katherine servì il caffè in due tazzine di delicata porcellana bianca, su un vassoio laccato di nero che posò sul tavolo davanti al divano. Sorseggiarono il caffè e si sforzarono di conversare per qualche istante. Poi Stoner parlò della parte del manoscritto che aveva letto e dell’eccitazione che l’aveva travolto prima, in biblioteca. Si protese in avanti, parlando con entusiasmo.
Per vari minuti riuscirono entrambi a discutere in modo spontaneo, nascondendosi dietro l’argomento del testo. Katherine Driscoll sedeva sul bordo del divano, con gli occhi accesi, stringendo le sue dita affusolate intorno al tavolino. William Stoner spostò la sedia in avanti e si chinò intenzionalmente verso di lei. Erano così vicini che, allungando una mano, avrebbe potuto toccarla.
Parlarono dei problemi sollevati dai primi capitoli del testo, della direzione che poteva prendere la ricerca, dell’importanza dell’argomento affrontato.
«Deve andare avanti», disse Stoner, con un’urgenza che non riusciva a spiegarsi. «Non si preoccupi delle difficoltà. Vada avanti. Il testo è troppo buono per rinunciare. Ottimo, senza dubbio».
Lei restò in silenzio, e per un momento il suo viso si spense.
Indietreggiò con la schiena, distolse lo sguardo e disse in modo quasi assente: «Il seminario... alcune delle cose che ha spiegato... mi sono state di grande aiuto».
Stoner sorrise e scosse la testa. «Lei non aveva alcun bisogno del mio seminario. Ma sono lieto che abbia potuto frequentarlo. Era un buon seminario, credo».
«Oh, è una vergogna», esclamò Katherine all’improvviso. «È una vergogna. Il seminario... lei è stato così... io ho dovuto ricominciare daccapo, dopo il seminario. È una vergogna che abbiano...». Si fermò, amareggiata e confusa, si alzò dal divano e s’avviò impaziente verso lo scrittoio.
Colto alla sprovvista da quello sfogo, Stoner restò un istante in silenzio. Poi disse: «Non deve preoccuparsi. Sono cose che capitano. Col tempo tutto si aggiusterà. Non ha importanza».
E d’improvviso, dopo averlo detto, si accorse che davvero non aveva importanza. In quell’istante capì che era sincero e, per la prima volta dopo mesi, si sentì alleggerito dal peso di una disperazione la cui gravità non aveva mai realizzato fino in fondo. Stordito, quasi ridendo, ripeté: «Non ha importanza, davvero».
Ma l’imbarazzo si era fatto strada e non riuscivano più a parlare liberamente come avevano fatto qualche istante prima. Di lì a poco Stoner si alzò, la ringraziò per il caffè e prese congedo. Lei lo accompagnò alla porta e sembrò quasi brusca nell’augurargli la buonasera.
Fuori era buio, e una brezza primaverile soffiava nell’aria. Stoner respirò a pieni polmoni e sentì il suo corpo ritemprato dal freddo. Oltre il profilo discontinuo del caseggiato, le luci della città brillavano nella nebbia, che gravava sottile nell’aria. Dopo l’angolo, un lampione baluginava solitario, avvolto nell’oscurità. Dal buio emerse all’improvviso una risata, che ruppe il silenzio, indugiò un istante e svanì. La nebbia tratteneva il fumo della spazzatura, che bruciava nei cortili sul retro, e mentre camminava lento nella sera, respirandone l’odore e sentendo sulla lingua il sapore tagliente dell’aria, gli parve che quel momento fosse abbastanza e che non avesse bisogno di molto di più.
E così ebbe la sua storia d’amore.
La consapevolezza dei sentimenti per Katherine Driscoll si fece strada in lui poco a poco. Si ritrovò a cercare pretesti per andare a farle visita ogni pomeriggio: gli veniva in mente il titolo di un libro o di un articolo, se li appuntava e poi evitava di incontrarla nei corridoi della Jesse Hall per poter passare a casa sua a suggerirglieli direttamente, prendere una tazza di caffè e parlarle. Una volta trascorse quasi mezza giornata in biblioteca a cercare una citazione a sostegno di un passaggio del secondo capitolo che gli sembrava incerto. Un’altra trascrisse laboriosamente un passo di un misconosciuto manoscritto latino, di cui la biblioteca possedeva una copia fotostatica, per poter rimanere molti giorni con lei e aiutarla con la traduzione.
Durante i pomeriggi che passavano insieme, Katherine Driscoll era cortese, amichevole e riservata. Era tacitamente grata a Stoner per il tempo e l’interesse che dedicava al suo lavoro e sperava di non distoglierlo da cose più importanti. A Stoner non venne mai in mente che potesse considerarlo più di un semplice professore per cui nutriva grande ammirazione e che, seppur in modo amichevole, l’aiutava un po’ oltre il dovuto. Si considerava un personaggio al limite del ridicolo, per il quale nessuno mai avrebbe potuto nutrire un interesse particolare. Così, quand’ebbe riconosciuto a se stesso i suoi sentimenti per Katherine Driscoll, si preoccupò immediatamente di non far trasparire in alcun modo quel che provava.
Per più di un mese continuò a farle visita due o tre volte a settimana, trattenendosi non più di due ore: temeva che le sue continue apparizioni finissero col disturbarla e faceva in modo di andare da lei solo quand’era certo di poterla veramente aiutare. Con un certo sarcasmo, notò che si predisponeva a quegli incontri con la stessa diligenza con cui preparava le sue lezioni. Si convinse che più di tanto non poteva sperare: si sarebbe accontentato di vederla e di parlarle finché non si fosse stancata della sua presenza.
Ma nonostante queste premure e questi sforzi, i pomeriggi trascorsi insieme divennero sempre più tesi. Per lunghi momenti si ritrovavano senza nulla da dirsi, sorseggiavano il caffè senza guardarsi articolando dei semplici «Bene...», con voce incerta e guardinga. Coglievano il primo pretesto per mettersi a camminare in lungo e in largo, tenendosi a reciproca distanza. Con una tristezza di proporzioni inattese, Stoner si disse che le sue visite stavano diventando un peso per lei e che solo la sua educazione le impediva di dirglielo. Come aveva previsto di dover fare, prese la sua decisione. Si sarebbe ritratto gradualmente, in modo da non farle capire che aveva notato la sua insofferenza, come se ormai le avesse dato tutto l’aiuto che poteva darle.
La settimana dopo passò da lei solo una volta e quella successiva non ci andò affatto. Non aveva immaginato di dover lottare tanto contro se stesso. Nel pomeriggio, seduto nel suo ufficio, doveva costringersi quasi fisicamente a non alzarsi dalla scrivania e a precipitarsi fuori per correre al suo appartamento. Una o due volte la vide da lontano, nei corridoi, che correva da una lezione all’altra. Si voltò avviandosi nella direzione opposta, in modo da non doverla incontrare.
Dopo qualche tempo fu sopraffatto da una specie di torpore, e si disse che tutto sarebbe andato per il meglio, che nel giro di pochi giorni sarebbe stato in grado di incontrarla a scuola, di salutarla e di sorriderle, perfino di trattenerla per qualche istante e chiederle come procedeva il suo lavoro.
Poi, un pomeriggio, nell’ufficio principale, mentre stava ritirando della posta dalla cassetta delle lettere, udì un giovane lettore dire a un altro che Katherine Driscoll era malata e da due giorni non andava a lezione. Allora il torpore lo abbandonò: sentì una fitta acuta nel petto e tutta la sua determinazione e la sua forza di volontà lo abbandonarono. Si avviò di corsa verso il suo ufficio e cercò quasi disperato tra i libri. Ne scelse uno e uscì. Arrivò a casa di Katherine Driscoll senza fiato e dovette aspettare un lungo istante prima di riprendersi. Poi si sforzò di sorridere in modo naturale, si stampò quell’espressione sul viso e bussò alla porta.
Quando gli aprì era perfino più pallida del solito e aveva gli occhi cerchiati di nero. Portava una semplice veste da camera color blu scuro e i capelli raccolti sul capo in modo austero.
Stoner si accorse di essere nervoso e di dire delle cose stupide, ma non riuscì a interrompere il flusso delle parole. «Salve», disse pimpante, «ho sentito che era ammalata, ho pensato di fare un salto per vedere come stava, ho portato un libro che potrebbe tornarle utile, come sta? Non voglio...». E mentre ascoltava quei suoni riversarsi dal suo sorriso immobile, continuava a esplorarle il viso con gli occhi.
Quando finalmente tacque, lei indietreggiò un poco dalla porta e con calma disse: «Entri».
Una volta nella stanzetta, che fungeva insieme da soggiorno e camera da letto, il suo sciocco nervosismo svanì. Si sedette sulla poltroncina davanti al letto e ricominciò a sentirsi a suo agio non appena Katherine Driscoll si accomodò davanti a lui. Per un lungo istante, nessuno dei due parlò.
Alla fine lei chiese: «Vuole un po’ di caffè?».
«Non deve disturbarsi», disse Stoner.
«Nessun disturbo». Nella sua voce c’era un che di brusco e di arrabbiato che Stoner aveva già sentito in altre occasioni. «Devo solo scaldarlo».
Andò in cucina. Rimasto solo nella stanzetta, Stoner fissò con aria triste il tavolino, pensando che aveva fatto male ad andare e riflettendo sulla follia che muove i comportamenti degli uomini.
Katherine Driscoll tornò con il pentolino del caffè e due tazzine. Ne versò a entrambi mentre restavano a guardare il vapore che si alzava dal liquido nero. Poi lei prese una sigaretta da un pacchetto malconcio, la accese e fumò nervosamente per qualche istante. Stoner si ricordò del libro che aveva portato con sé e che ancora stringeva tra le mani e lo mise tra loro sul tavolino da caffè.
«Forse ora non ha voglia di leggerlo», disse, «ma ho pensato che potesse esserle d’aiuto, e così...».
«Non la vedo da due settimane», disse lei, spegnendo la sigaretta nel posacenere con un gesto imperioso.
Stoner fu colto di sorpresa. Spaesato, disse: «Sono stato piuttosto impegnato... C’erano molte cose che...».
«Non importa», rispose lei: «Davvero, non importa. Avrei dovuto...». Si strofinò la fronte con il palmo della mano.
Stoner la guardò preoccupato; pensava che avesse la febbre. «Mi dispiace che sia ammalata. Se c’è qualcosa che posso...».
«Non sono ammalata», disse lei. E poi aggiunse con voce calma, riflessiva e quasi distaccata: «Sono disperatamente... disperatamente infelice».
Lui ancora non capiva. Quelle parole semplici e taglienti lo colpirono come una lama. Si scostò un poco da lei e disse confuso: «Mi dispiace. Vuole che ne parliamo? Se c’è qualcosa che posso fare...».
Katherine alzò la testa. L’espressione del viso era rigida, ma negli occhi le brillava un lago di lacrime. «Non volevo imbarazzarla. Mi dispiace. Penserà che sono una stupida».
«No», disse lui. La guardò ancora per un momento, osservò il suo volto pallido che sembrava mantenersi inespressivo in virtù di uno sforzo di volontà. Poi contemplò le proprie manone ossute, che teneva intrecciate su un ginocchio: le dita erano tozze e pesanti e le nocche parevano dei bernoccoli bianchi sulla carne bruna.
Alla fine, con voce lenta e grave, disse: «Sotto molti aspetti, sono un uomo ignorante. Sono io che sono stupido, non lei. Non sono venuto a trovarla perché pensavo... sentivo che cominciavo a essere un fastidio. Forse non era vero».
«No», disse lei. «No, non era vero».
Sempre senza guardarla, Stoner continuò: «E non volevo causarle il disturbo di doversi confrontare con... con i miei sentimenti per lei... che prima o poi, se avessi continuato a vederla, si sarebbero palesati».
Lei restò immobile. Due lacrime le inumidirono le ciglia e le corsero giù per le guance. Non le asciugò.
«Forse sono stato egoista. Pensavo che questa cosa non avrebbe fatto altro che mettere in imbarazzo lei e rendere infelice me. Conosce le mie... circostanze. Mi sembrava impossibile che lei potesse... provare qualcosa per me... se non...».
«Sta’ zitto», disse con forza lei, dolcemente: «Sta’ zitto, amore mio. E vieni qui».
Stoner si accorse che stava tremando: imbarazzato come un ragazzino, girò intorno al tavolo e si andò a sedere accanto a lei. Incerte, impacciate, le loro mani si strinsero nervose e per un lungo istante restarono seduti e immobili, come se il più piccolo gesto potesse sottrarli a quella cosa strana e terribile che tenevano insieme in quella stretta.
Gli occhi di lei, che aveva sempre immaginato neri o color bruno intenso, erano di un viola profondo. A volte catturavano il baluginio di una lampada della stanza e scintillavano liquidi. Se Stoner voltava la testa da una parte all’altra e continuava a guardarli, cambiavano colore e anche quand’erano a riposo non sembravano mai fermi. La sua carne, che in lontananza pareva così fredda e pallida, nascondeva un sottotono caldo e roseo, come una luce che scorresse in trasparenza sotto un velo di latte. E come la sua carne traslucida anche la calma, l’equilibrio e la riservatezza che sembravano contraddistinguerla, mascheravano un calore, un’ironia e una gaiezza che solo l’apparenza contraria rendeva possibili.
A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.
Erano entrambi molto timidi e si conobbero lentamente, con cautela. Si avvicinavano e poi si allontanavano, si toccavano e si ritraevano immediatamente, per paura di imporsi l’uno all’altra più di quanto non fosse desiderato. Giorno dopo giorno, ogni riserva tra di loro si sciolse e alla fine, come ogni persona timida, si aprirono l’un l’altra senza più difese, fino a sentirsi perfettamente a loro agio.
Quasi ogni pomeriggio, al termine delle lezioni, Stoner andava a casa di lei. Facevano l’amore, parlavano, e poi facevano ancora l’amore, come dei bambini mai stanchi dello stesso gioco. Con la primavera i giorni si allungavano, e loro aspettavano con emozione l’estate.