Quindici
E quella fu una delle leggende che cominciarono a circolare sul suo conto, leggende che anno dopo anno si facevano sempre più complesse e dettagliate, progredendo dalla vicenda personale alla verità rituale, come avviene con i miti.
Pur non essendo ancora cinquantenne, dimostrava molti anni di più. I suoi capelli, folti e aggrovigliati come in gioventù, erano ormai quasi tutti bianchi. Il viso era solcato da rughe profonde, gli occhi infossati nelle orbite. La sordità che lo aveva colpito l’estate in cui si era lasciato con Katherine Driscoll era progressivamente peggiorata, tanto che quando parlava qualcuno, con la testa inclinata da una parte e gli occhi assorti, sembrava che contemplasse qualche strana specie animale che non riusciva a identificare.
La sua sordità era di natura un po’ particolare. Anche se a volte aveva difficoltà a comprendere anche chi gli parlava direttamente, spesso riusciva a sentire bene una conversazione appena sussurrata in fondo a una stanza rumorosa. Fu proprio fingendosi sordo che poco a poco scoprì di essere considerato, con un’espressione ricorrente fin dai tempi della sua giovinezza, un “personaggio” del campus.
Più volte sentì ripetere il racconto infiorettato delle sue lezioni di letteratura inglese avanzata a un gruppo di matricole e della capitolazione di Hollis Lomax. «E quando le matricole del ’37 fecero il loro primo esame di inglese, sapete quale fu la classe che ebbe il punteggio più alto?», riconobbe una volta a malincuore un giovane insegnante di composizione. «Quella del vecchio Stoner. E noi ancora usiamo gli esercizi e i libri di grammatica!».
Stoner dovette riconoscere di essere diventato, agli occhi dei professori più giovani e degli studenti più anziani che sembravano andare e venire prima che riuscisse a dare un nome ai loro volti, una figura quasi mitica seppure dai tratti sfuggenti e continuamente variabili.
A volte era il cattivo. Secondo una delle numerose interpretazioni della sua lunga faida con Lomax, aveva sedotto e abbandonato una giovane laureata, verso cui Lomax nutriva un sentimento puro e onorevole. Altre volte era il pazzo: stando a un’altra versione della stessa faida, aveva tolto il saluto a Lomax perché quest’ultimo una volta si era rifiutato di scrivere una lettera di raccomandazione per uno degli studenti che si erano laureati con lui. E altre ancora era l’eroe: secondo un’ultima – e spesso contestata – versione, era odiato da Lomax e aveva subito il congelamento della carriera perché una volta aveva beccato il direttore mentre passava a uno dei suoi pupilli una copia dell’esame finale di uno dei suoi corsi.
La leggenda, tuttavia, era dovuta anche al suo comportamento in classe. Con il passare degli anni era diventato sempre più assente, ma anche più veemente. Cominciava le letture e le discussioni in modo timido e maldestro, ma poi si immergeva nell’argomento con tanta foga da perdere coscienza di tutto ciò che lo circondava. Una volta fu stabilito che una riunione di vari membri del consiglio d’amministrazione dell’università dovesse tenersi nella sala conferenze in cui Stoner svolgeva il suo seminario sulla tradizione latina. Stoner era stato informato della riunione ma se n’era scordato, e tenne il suo seminario alla solita ora e nello stesso posto. A metà lezione, qualcuno bussò timidamente alla porta ma Stoner, tutto preso dalla traduzione all’impronta di una citazione latina, non se ne accorse. Dopo qualche istante la porta si aprì e un ometto di mezza età, piccolo e grassoccio, con gli occhiali senza montatura, entrò in punta di piedi e gli batté su una spalla. Senza neanche guardarlo, Stoner gli fece cenno di uscire. L’uomo si ritirò. Fu sentito confabulare sottovoce oltre la porta aperta con varie persone che aspettavano di fuori. Stoner continuò a tradurre. Poi quattro uomini, guidati dal rettore dell’università, un uomo alto e massiccio con un petto imponente e un viso florido, irruppero nell’aula e si pararono in gruppo davanti alla cattedra di Stoner. Il rettore aggrottò le ciglia e si schiarì rumorosamente la voce. Senza interrompere la traduzione nemmeno per un istante, Stoner alzò gli occhi e, dolcemente, recitò il verso successivo in faccia al rettore e al suo entourage: «Via di qui, dannati Galli figli di troia!». Poi, sempre senza fermarsi, tornò a guardare il libro continuando a parlare, mentre il gruppo, basito, indietreggiava con vari inciampi, voltandosi e battendo in ritirata fuori dall’aula.
Alimentata da simili eventi la leggenda crebbe, finché ci furono aneddoti a dar consistenza a quasi tutte le attività più tipiche di Stoner, e si allargò fino a espandersi anche oltre l’università. Giunse perfino a includere Edith, che in pubblico veniva vista così di rado in compagnia del marito, da diventare una figura un po’ misteriosa, che fluttuava nell’immaginario collettivo come un fantasma. Si diceva che bevesse di nascosto, a causa di qualche remoto e oscuro dolore; che stesse morendo lentamente, per una rara e sempre fatale malattia, o che fosse un’artista di straordinario talento che aveva rinunciato alla carriera per dedicarsi interamente a Stoner. Alle funzioni pubbliche, il sorriso le appariva sul volto in modo così fulmineo e nervoso, gli occhi le brillavano tanto intensamente, e parlava con voce così acuta e sconnessa che tutti erano sicuri che il suo aspetto celasse un’altra realtà e che oltre quella facciata, a cui nessuno poteva credere, si nascondesse un’altra persona.
Dopo la sua malattia, sulla scorta di un’indifferenza che divenne uno stile di vita, William Stoner cominciò a passare sempre più tempo nella casa che lui e Edith avevano comprato molti anni prima. All’inizio Edith era così turbata dalla sua presenza che se ne stava sempre in silenzio, quasi disorientata. Ma giorno dopo giorno, notte dopo notte, fine settimana dopo fine settimana, vedendo che quella presenza si avviava a diventare una condizione permanente, ricominciò l’antica battaglia con nuova intensità. Alla minima provocazione, scoppiava a piangere disperata vagando di stanza in stanza mentre Stoner la guardava impassibile e mormorava con distacco qualche parola di conforto. Certe volte si chiudeva in camera per ore e ore. In quei casi lui preparava da mangiare al posto suo e sembrava non accorgersi della sua assenza, finché lei non rispuntava fuori, pallida e con le guance e gli occhi infossati. Coglieva ogni pretesto per deriderlo ma Stoner difficilmente le faceva caso. Gli gridava contro mille imprecazioni, che lui ascoltava sempre con cortese interesse. Quand’era immerso nella lettura di un libro, irrompeva in soggiorno e si avventava sul piano, che di solito non suonava mai, pestando sui tasti con foga. Quando suo marito chiacchierava beato con Grace, lei si infuriava con tutti e due. E Stoner reagiva a tutto ciò – alla rabbia, alle maledizioni, alle urla e ai silenzi carichi di odio – come se stesse succedendo a un’altra coppia cui solo con un grande sforzo di volontà riusciva a dedicare un interesse di circostanza.
Alla fine, esausta, quasi riconoscente, Edith accettò la sconfitta. I suoi sfoghi diminuirono d’intensità fino a diventare superficiali come l’interesse che suscitavano in Stoner, mentre i lunghi silenzi che prima erano aggressioni contro un avversario indifferente si trasformarono in momenti di raccoglimento che non destavano più preoccupazione.
A quarant’anni compiuti, Edith Stoner era ancora sottile come in gioventù, ma con una durezza e una fragilità dovute a un contegno inflessibile che faceva apparire ogni suo movimento rigido e forzato. Le ossa del viso si erano appuntite e la pelle chiara e sottilissima vi si tendeva sopra come la tela su una cornice, rendendo le rughe più affilate. Era molto pallida e usava molta cipria e belletto, tanto che sembrava dipingere i suoi stessi tratti, di giorno in giorno, su una maschera vuota. Le mani, sotto la pelle dura e secca, erano quasi scheletriche e si muovevano incessantemente, torcendosi, scattando in avanti e serrandosi, anche nei momenti più tranquilli.
Sempre appartata, era entrata nella mezza età facendosi ancor più lontana e assente. Dopo quell’ultimo, breve periodo di aggressività verso il marito, consumatosi con disperata intensità, tornò a vagare come un fantasma nei recessi della propria anima, un luogo da cui non riemergeva mai completamente. Cominciò a parlare da sola, con la pacatezza con cui di solito ci si rivolge ai bambini. Lo faceva apertamente e senza accorgersene, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Tra le varie attività artistiche cui si era dedicata occasionalmente durante il matrimonio, alla fine optò per la scultura, valutandola come la più “soddisfacente”. Modellava prevalentemente l’argilla, anche se talvolta lavorava anche alcune pietre morbide; busti, figure e composizioni di ogni genere erano sparsi per casa. Aveva uno stile molto moderno: i busti erano sfere dai tratti appena accennati, le figure bulbi d’argilla con appendici allungate, e le composizioni raggruppamenti casuali di solidi geometrici, cubi, sfere e cilindri. A volte, passando davanti al suo studio, la stanza che prima occupava lui, Stoner si fermava ad ascoltarla mentre lavorava. Edith si dava indicazioni da sola, come se si rivolgesse a un bambino: «Ora devi mettere quello qui – non troppo – qui, vicino allo scalpellino. Oh, guarda... sta cadendo. Non era abbastanza umido, vero? Be’, possiamo sistemarlo, giusto? Basta un altro pochino d’acqua e... ecco fatto. Vedi?».
Prese l’abitudine di rivolgersi al marito e alla figlia in terza persona, come se stesse parlando di qualcun altro. Diceva a Stoner: «Willy farebbe meglio a bere il suo caffè, sono quasi le nove e rischia di far tardi in classe». Oppure diceva alla figlia: «Grace non si esercita abbastanza al piano. Dovrebbe farlo almeno un’ora al giorno, se non due. Che ne sarà del suo talento? Vergogna, vergogna».
Cosa significasse per Grace questo allontanamento progressivo di Edith, Stoner non riusciva a capirlo. Anche perché, a suo modo, la bambina si era allontanata quanto la madre. Aveva preso l’abitudine di stare in silenzio e, anche se riservava a suo padre ancora un timido e dolce sorriso, non gli parlava più. Nell’estate in cui si era ammalato, quando poteva farlo senza esser vista, Grace si intrufolava nella cameretta di lui, gli si sedeva accanto e assieme guardavano fuori dalla finestra, come se le bastasse stargli vicino. Ma anche in quei momenti restava in silenzio e si innervosiva quando Stoner cercava di farla uscire da se stessa.
Aveva dodici anni, all’epoca, ed era una bambina alta e magra, con un viso delicato e i capelli più biondi che rossi. Quell’autunno, quando Edith sferrò l’ultimo attacco contro suo marito, contro il proprio matrimonio, contro se stessa e ciò che credeva di essere diventata, Grace divenne quasi inerte, come se sentisse che qualsiasi movimento avrebbe potuto gettarla in un abisso da cui non sarebbe riuscita a riemergere.
Terminata la sua aggressione, con la noncuranza di cui era capace, Edith decise che Grace non parlava perché era infelice e che era infelice perché non aveva successo con i compagni di scuola. Spostò dunque quel che restava della violenza impiegata nell’attacco a William sulla “vita sociale” (così l’aveva battezzata) di Grace. Divenne quello il suo nuovo “interesse”: cominciò a vestirla con abitini allegri e alla moda, i cui mille fronzoli sottolineavano la sua magrezza. Prese a organizzare festicciole in cui suonava il piano e insisteva perché tutti ballassero. Le dava il tormento forzandola a sorridere, parlare, scherzare e ridere con tutti.
Quest’aggressione a Grace durò meno di un mese, poi Edith abbandonò la campagna e intraprese il lungo, lento viaggio verso la sua oscura meta. Ma le conseguenze dell’aggressione furono sproporzionate rispetto alla sua durata.
Nei giorni seguenti, Grace trascorse quasi tutto il tempo libero nella sua stanza, in compagnia della radiolina che il padre le aveva regalato il giorno del suo dodicesimo compleanno. Giaceva inerte sul letto sfatto, o sedeva immobile alla scrivania, e ascoltava quei piccoli suoni lontani, che uscivano dalla spirale dell’apparecchio brutto e piatto poggiato sul comodino accanto al letto, come se quelle voci, quella musica e quelle risate fossero tutto ciò che restava della sua identità, che si perdeva poco a poco nel silenzio, senza che lei riuscisse a trattenerla.
E nel frattempo ingrassava. Tra quell’inverno e il suo tredicesimo compleanno, aumentò più di venti chili: il viso le divenne teso e tondo, come l’impasto che lievita, e gli arti morbidi, lenti e impacciati. Non mangiava molto più del solito, ma divenne golosissima di dolci, e prese l’abitudine di tenere una scatola di caramelle in camera sua. Era come se qualcosa, in lei, si fosse liberato, acquistando una mollezza disperata, come se qualcosa di informe avesse combattuto per uscire e fosse finalmente riuscito ad esplodere, convincendo la sua carne a rivelare quell’oscura e segreta esistenza.
Stoner assistette a quella trasformazione con una tristezza che comprometteva la sua maschera di indifferenza nei confronti del mondo. Non si concesse il facile lusso della colpa. Data la sua natura, e le circostanze del suo matrimonio, non c’era niente che avrebbe potuto fare. E questa consapevolezza lo addolorava ulteriormente, rendendo il suo amore per la figlia ancora più profondo e disperato.
Grace era, e Stoner lo sapeva bene, forse l’aveva sempre saputo, una di quelle rare e adorabili creature la cui natura morale è così delicata che va sostenuta e curata di continuo, per poter essere soddisfatta. Aliena al mondo, era costretta a vivere dove non poteva sentirsi a casa; avida di tenerezza e quiete, doveva cibarsi d’indifferenza, insensibilità e rumore. Un’indole che, anche nel luogo estraneo e ostile in cui era costretta a vivere, non aveva la ferocia necessaria per combattere le forze brutali che la contrastavano e non poteva che ritrarsi delicatamente nel silenzio e lì farsi piccola piccola, restare immobile ed essere dimenticata.
Quando compì diciassette anni, verso l’inizio dell’ultimo anno del liceo, subì una trasformazione ulteriore. Era come se la sua natura avesse finalmente trovato un nascondiglio e lei potesse quindi mostrare al mondo un’altra apparenza. Con la stessa rapidità con cui era ingrassata, perse il peso che aveva acquistato in quei tre anni. Agli occhi di chi la conosceva, quella trasformazione aveva qualcosa di magico, come se fosse emersa da una crisalide, librandosi nell’aria per cui era stata creata. Divenne quasi bella. Il suo corpo, che prima era stato molto sottile e poi, all’improvviso, molto grasso, era morbido e delicatamente tornito, e si muoveva con grazia leggera. Era una bellezza passiva, la sua, quasi placida. Il viso era quasi senza espressione, come una maschera. Gli occhi azzurro chiaro guardavano l’interlocutore sempre in viso, senza curiosità e senza lasciar trasparire alcuna tensione. La sua voce era delicatissima, un po’ monocorde, e parlava di rado.
D’un tratto divenne, secondo la definizione di Edith, “popolare”. Il telefono squillava spesso e lei prendeva la cornetta e si sedeva in soggiorno, annuendo di tanto in tanto e rispondendo brevemente e con dolcezza all’interlocutore. Le automobili passavano a prenderla nei pomeriggi scuri e se la portavano via, tra grida e risate anonime. A volte Stoner restava davanti alla finestra a guardarle allontanarsi tra nuvole di polvere e avvertiva un misto di timore e ammirazione. Non aveva mai posseduto un’automobile e non aveva mai imparato a guidarne una.
Edith invece era contenta. «Vedi?», diceva con distacco, trionfante, come se non fossero passati più di tre anni dai suoi frenetici attacchi in merito alla questione della “popolarità” di Grace. «Vedi? Avevo ragione. Le serviva solo un piccolo incoraggiamento. Solo che Willy non era d’accordo. Ma tanto lo sappiamo. Willy non è mai d’accordo».
Per molti anni, ogni mese, Stoner aveva messo da parte qualche dollaro, in modo che Grace, quando fosse arrivato il momento, potesse andarsene a studiare lontano da Columbia, magari in qualche università dell’est. Edith era al corrente dei suoi piani e sembrava essere d’accordo. Ma quando arrivò il momento, non volle sentire ragioni.
«Oh, no!», disse. «Non potrei sopportarlo! La mia bambina! E poi l’anno scorso è stata tanto bene, qui... È così popolare, e così felice. Dovrebbe ricominciare tutto da capo, e... Gracie, bambina mia», si voltò verso sua figlia, «Gracie non vuole andarsene dalla sua mamma. Vero? Lasciarla tutta sola?».
Grace guardò sua madre per un momento, senza parlare. Poi si voltò un istante verso il padre e scosse la testa. Disse alla madre: «Se vuoi che resti, certo che lo farò».
«Grace», disse Stoner, «ascoltami. Se vuoi andare... ti prego, se davvero vuoi andare...».
Lei non lo guardò. «Non importa», disse.
Prima che Stoner potesse aggiungere altro, Edith cominciò a parlare con Grace di come avrebbero potuto spendere il denaro che suo padre aveva risparmiato, magari rinnovando il guardaroba, comprando qualcosa di davvero carino, forse perfino una piccola automobile, in modo che lei e i suoi amici potessero... E Grace riprese a sorridere come sempre, ad annuire di tanto in tanto e a dire qualche parola, quasi sapesse che era quello che ci si aspettava da lei.
La questione fu chiusa. Stoner non seppe mai cosa provava sua figlia e se avesse deciso di restare perché lo desiderava, perché era stata sua madre a volerlo, o in virtù di una completa indifferenza verso il proprio destino. In autunno si sarebbe iscritta all’Università del Missouri, l’avrebbe frequentata almeno per due anni e poi, se avesse voluto, avrebbe potuto andarsene in un altro Stato a finire gli studi. Stoner si disse che era meglio così: meglio che Grace sopportasse per altri due anni la prigione in cui neanche si rendeva conto di essere rinchiusa piuttosto che sfidare nuovamente l’ira di Edith.
Così nulla cambiò. Grace rinnovò il suo guardaroba, rifiutò la piccola automobile offertagli dalla madre e si iscrisse all’Università del Missouri. Il telefono continuò a squillare, le stesse facce (o altre molto simili) continuarono ad apparire sulla porta tra risate e grida e le stesse automobili continuarono a ruggire nel buio. Grace passava parecchio tempo fuori casa, più di quanto non facesse al liceo, e Edith ne era lieta, attribuendo la cosa alla sua crescente popolarità. «È come sua madre», diceva. «Anche lei era molto popolare, prima di sposarsi. Tutti i ragazzi... Papà si arrabbiava sempre con loro, ma sotto sotto era molto orgoglioso. Me ne accorgevo, sai?».
«Sì, Edith», diceva Stoner con dolcezza, sentendo una stretta al cuore.
Fu un semestre difficile per lui. Doveva gestire gli esami di inglese per le matricole, e allo stesso tempo seguiva due tesi di dottorato particolarmente difficili, che richiedevano entrambe una grande quantità di letture aggiuntive da parte sua. Quindi trascorreva molto tempo fuori casa, più di quanto non fosse abituato a fare negli ultimi anni.
Una sera, verso la fine di novembre, rientrò perfino più tardi del solito. Le luci del soggiorno erano spente e la casa era silenziosa. Immaginò che Grace e Edith fossero a letto. Prese dei giornali che aveva con sé e li portò nella stanzetta sul retro, con l’intenzione di leggerli una volta a letto. Andò in cucina a farsi un tramezzino e un bicchiere di latte. Aveva appena tagliato il pane e aperto il frigo, quando all’improvviso sentì, netto e tagliente come una lama, un grido prolungato giungere dal piano di sotto. Corse in soggiorno; sentì un altro strillo, più breve e quasi rabbioso, stavolta dallo studio di Edith. Attraversò di corsa la sala e aprì la porta.
La moglie era seduta a terra in modo scomposto, come se fosse caduta. Aveva gli occhi inferociti e la bocca aperta, pronta a emettere un altro grido. Grace sedeva al lato opposto della stanza su una sedia imbottita, con le ginocchia incrociate, e guardava la madre con aria quasi serena. Solo una lampada era accesa, quella sul tavolo da lavoro di Edith e il suo violento bagliore gettava nella stanza delle ombre scure.
«Che c’è?», disse Stoner. «Cos’è successo?».
La testa di Edith oscillò verso di lui, come se ruotasse intorno a un perno instabile. Aveva lo sguardo vuoto. Prese a ripetere con uno strano tono petulante: «Oh, Willy. Oh, Willy», e rimase a fissarlo, scuotendo debolmente il capo.
Stoner si voltò verso Grace, che manteneva il suo aspetto tranquillo.
«Sono incinta, papà», disse con noncuranza.
Di nuovo si sentì quel grido, penetrante e indicibilmente rabbioso. Entrambi si voltarono verso Edith, che guardava ora l’uno ora l’altra, con gli occhi gelidi e assenti sopra alla bocca urlante. Stoner attraversò la stanza, si chinò accanto a lei e la fece alzare in piedi. Aveva le braccia molli e dovette sostenerla di peso.
«Edith!», disse bruscamente. «Sta’ zitta».
Lei si irrigidì e si tirò indietro. Con le gambe che le tremavano, percorse velocemente la stanza e si fermò davanti a Grace, che non si era mossa dalla sedia.
«Tu!», sibilò. «Oh, mio dio. Oh, Gracie. Come hai potuto... oh, mio dio. Come tuo padre. Stesso sangue. Oh, sì. Schifosi. Schifosi...».
«Edith!», esclamò Stoner ancor più brusco mentre le si avvicinava a grandi passi. Posò con decisione le mani sulle sue braccia e la fece allontanare da Grace. «Vai in bagno e gettati dell’acqua fredda sul viso. Poi vai a stenderti in camera tua».
«Oh, Willy», disse Edith con tono supplichevole, «la mia bambina. La mia bambina. Com’è potuto succedere? Come ha potuto...».
«Vai», le disse Stoner. «Ti chiamerò tra poco».
Edith uscì barcollando. Stoner la guardò allontanarsi senza muoversi finché non sentì l’acqua scorrere nel lavandino in bagno.
Poi si voltò verso Grace, che era rimasta a guardarlo seduta sulla sedia imbottita. Le fece un piccolo sorriso, si spostò di fianco al tavolo di lavoro di Edith, prese una sedia, l’avvicinò a quella della figlia e si sedette davanti a lei, in modo da poterle parlare senza guardarla dall’alto in basso.
«Ora», le disse, «vuoi che parliamo un po’?».
Lei gli fece il suo piccolo, dolce sorriso. «Non c’è molto da dire», rispose, «sono incinta».
«Sei sicura?».
Lei annuì. «Sono stata da un dottore. Ho avuto il risultato oggi pomeriggio».
«Bene», disse Stoner, e le toccò la mano con un po’ d’imbarazzo. «Non devi preoccuparti. Andrà tutto bene».
«Sì», disse lei.
Stoner chiese gentilmente: «Vuoi dirmi chi è il padre?».
«Uno studente», disse Grace, «dell’università».
«Avresti preferito non dirmelo?».
«Oh, no», fece lei. «Non fa nessuna differenza. Si chiama Frye. Ed Frye. È al secondo anno. Credo fosse in classe tua l’anno scorso».
«Non lo ricordo», disse Stoner, «non lo ricordo affatto».
«Mi dispiace, papà», disse Grace. «È stata una cosa stupida. Era un po’ ubriaco e non abbiamo preso... precauzioni».
Stoner distolse gli occhi e guardò il pavimento.
«Mi dispiace, papà. Ti ho sconvolto, vero?».
«No», disse Stoner. «Mi hai sorpreso, forse. Non siamo stati molto vicini in questi ultimi anni, vero?».
Lei distolse lo sguardo e disse con disagio: «Be’... immagino di no».
«Tu... ami questo ragazzo, Grace?».
«Oh, no», disse lei: «Non lo conosco quasi per niente».
Stoner annuì. «Che vuoi fare?».
«Non lo so», disse lei. «Comunque non ha importanza. Davvero. Non voglio crearvi problemi».
Rimasero seduti per un lungo istante senza parlare. Alla fine Stoner disse: «Va bene, non devi preoccuparti. Andrà tutto bene. Qualsiasi cosa tu decida, qualsiasi cosa tu voglia fare, andrà tutto bene».
«Sì», disse Grace. Poi si alzò dalla sedia. Abbassò gli occhi verso il padre e aggiunse: «Ora possiamo parlare, tu e io».
«Sì», disse Stoner, «possiamo parlare».
Grace uscì dallo studio e Stoner aspettò finché non sentì la porta della sua camera chiudersi al piano di sopra. Poi, prima di tornare nella propria, salì le scale con delicatezza e aprì la porta della stanza di Edith. Si era addormentata subito, gettandosi sul letto con tutti i vestiti, e aveva la luce del comodino puntata sul viso. Stoner spense la luce e tornò di sotto.
La mattina dopo, a colazione, Edith era quasi allegra. Non le restava alcun segno dell’isteria della notte precedente e parlava del futuro come di un ipotetico problema da risolvere. Dopo aver saputo il nome del ragazzo disse con slancio: «Allora, vediamo. Pensate che dovremmo contattare i parenti, o prima parliamo con lui? Vediamo... Questa è l’ultima settimana di novembre. Diciamo due settimane. Possiamo organizzare tutto per tempo, forse perfino un matrimonio in una chiesetta. Gracie, il tuo amico, come si chiama, che lavoro...».
«Edith», disse Stoner, «aspetta. Stai dando troppe cose per scontate. Forse Grace e questo giovanotto non vogliono sposarsi. Prima dobbiamo parlarne con Grace».
«E di che cosa dobbiamo parlare? Certo che vorranno sposarsi. Dopo tutto, hanno... hanno... Gracie, diglielo tu a tuo padre. Spiegaglielo».
Grace disse a Stoner: «Non importa, papà. Credimi, non importa».
E Stoner capì che era davvero così: gli occhi di Grace guardavano oltre, verso un punto lontano che lei stessa non riusciva a vedere e che contemplava senza alcuna curiosità. Restò in silenzio e lasciò che sua moglie e sua figlia facessero i loro piani.
Fu deciso che «il giovanotto di Grace», come lo chiamava Edith, quasi che fosse proibito pronunciarne il nome, sarebbe stato invitato a casa, e che lui e Edith ci avrebbero «parlato». Edith organizzò il pomeriggio come la scena di una rappresentazione teatrale, con tanto di uscite ed entrate e perfino una o due battute di dialogo. Stoner avrebbe dovuto allontanarsi con una scusa, Grace restare qualche istante in più e poi congedarsi a sua volta, in modo da lasciare Edith e il ragazzo da soli. Dopo mezz’ora sarebbe tornato Stoner e, una volta presi tutti gli accordi, sarebbe rientrata anche Grace.
Tutto andò esattamente come Edith aveva pianificato. In seguito Stoner si domandò, divertito, cosa avesse pensato il giovane Edward Frye mentre bussava timidamente alla loro porta di casa e veniva accolto in una stanza piena di nemici mortali. Era un ragazzo alto e grosso, con i lineamenti indefiniti e un po’ tetri. Era così intontito dall’imbarazzo e dalla paura che non guardava in faccia nessuno. Quando Stoner uscì dalla stanza vide che era sprofondato nella sedia, con gli avambracci posati sulle ginocchia e gli occhi fissi sul pavimento. Mezz’ora dopo, quando rientrò, lo ritrovò nella stessa posizione, paralizzato dal fuoco di sbarramento degli allegri cinguettii di Edith.
Ma tutto fu sistemato. Con voce alta, forzata, ma sinceramente allegra, Edith lo informò che «il giovanotto di Grace» proveniva da un’ottima famiglia di St Louis, che il padre era un agente di borsa e probabilmente aveva anche avuto a che fare con suo padre, o almeno con la sua banca; che «i ragazzi» avevano deciso di sposarsi «il prima possibile, con una cerimonia molto informale»; che entrambi avrebbero lasciato la scuola, almeno per un anno o due; che sarebbero andati a vivere a St Louis, per concedersi «un cambio di scena e un nuovo inizio»; che anche se non sarebbero stati in grado di finire il semestre, avrebbero continuato a frequentare le lezioni fino alla pausa di mezzo termine e si sarebbero sposati il pomeriggio di quel giorno stesso, che era un venerdì. E non era tutto così dolce e tenero, malgrado tutto?
Il matrimonio ebbe luogo nel caotico ufficio di un giudice di pace. Solo William e Edith assistettero alla cerimonia. La moglie del giudice, una donna grigia e sgualcita, dall’aria perennemente accigliata, rimase tutto il tempo a trafficare in cucina e uscì solo per firmare i fogli come testimone. Era un pomeriggio freddo e desolato. La data, quella del 12 dicembre 1941.
Cinque giorni prima del matrimonio, i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor. William Stoner assistette alla cerimonia con un misto di sentimenti che non aveva mai provato. Come molti altri, in quel periodo era in preda a una sorta di torpore che non riusciva a definire altrimenti: ma sapeva che quella sensazione era il frutto di emozioni così profonde e intense che non potevano essere riconosciute, perché non era possibile sopportarle. Ciò che sentiva era il peso di una tragedia collettiva, di un orrore e di un dolore così diffusi che le tragedie private e le vicissitudini personali venivano trasferite su un altro piano esistenziale, pur essendo amplificate dalla vastità in cui si sviluppavano, come la tristezza di una lapide solitaria può essere amplificata dal deserto che la circonda. Con una pietà quasi impersonale, assistette al piccolo e triste rituale del matrimonio, e fu stranamente commosso dalla passiva, indifferente bellezza del viso di sua figlia e dalla torva disperazione del suo fidanzato.
Dopo la cerimonia, i due ragazzi salirono senza gioia sulla piccola automobile di Frye e partirono alla volta di St Louis, dove li attendeva un’altra coppia di genitori e dove sarebbero rimasti a vivere per sempre. Mentre li guardava allontanarsi lungo la strada, Stoner continuava a pensare a sua figlia come alla bambina che un tempo gli sedeva accanto, osservandolo con una gioia solenne, in una stanza sbiadita dal ricordo. Una bambina incantevole, morta tanto tempo addietro.
Due mesi dopo il matrimonio, Edward Frye si arruolò nell’esercito e Grace decise di restare a St Louis fino alla nascita del bambino. Sei mesi dopo Frye morì sulla spiaggia di un’isoletta del Pacifico, insieme a molte altre giovani reclute, spedite laggiù nell’inutile speranza di fermare l’avanzata giapponese. Nel giugno del 1942 Grace partorì il bambino. Un maschio, cui diede il nome del padre che non aveva mai conosciuto, e che non avrebbe mai potuto amare.
Benché Edith, quando si recò a St Louis per «darle una mano», avesse tentato di persuaderla a ritornare a Columbia, Grace non volle farlo. Aveva un piccolo appartamento, una piccola rendita data dall’assicurazione di Frye, l’aiuto dei suoceri, e sembrava felice.
«È cambiata», disse distrattamente Edith a Stoner. «Non è più la nostra piccola Grace. Ne ha passate tante, e immagino che non voglia ricordare... Mi ha detto di dirti che ti vuole bene».