Tre

Una settimana prima della cerimonia di consegna dei diplomi di dottorato, Archer Sloane offrì a Stoner un posto da lettore a tempo pieno presso l’università. Sloane sottolineò che non era una politica dell’università quella di impiegare i propri laureati, ma vista la penuria di insegnanti validi ed esperti dovuta alla guerra, era riuscito a convincere l’amministrazione.

Seppur con una certa riluttanza, Stoner aveva scritto qualche lettera alle università e ai college di zona, snocciolando brutalmente le sue credenziali. Ma vedendo che nessuno gli rispondeva, si era sentito stranamente sollevato. Intuiva il motivo di quella reazione: solo presso l’Università di Columbia aveva provato quella sicurezza e quel calore che gli erano mancati a casa da bambino e non era certo che sarebbe riuscito a ritrovarli altrove. Accettò l’offerta di Sloane con gratitudine.

Nel farlo, si accorse anche che Sloane era molto invecchiato durante quell’anno di guerra. Aveva meno di sessant’anni, ma ne dimostrava dieci di più: i capelli, che un tempo gli si arricciavano in testa in una folta chioma grigio ferro, erano diventati bianchi e gli ricadevano lisci e senza vita intorno al cranio ossuto. Gli occhi neri s’erano fatti opachi, come ricoperti da un fitto strato di umidità. Il viso lungo e segnato, che un tempo era stato duro come il cuoio, ora aveva la fragilità della carta rinsecchita dal tempo, e la sua voce ironica e piatta aveva cominciato a tremare. Guardandolo, Stoner pensò: sta per morire. Tra uno o due anni, forse dieci, morirà. Si allontanò stretto dalla morsa di quella perdita prematura.

Fece molti pensieri di morte durante quell’estate del 1918. La scomparsa di Masters l’aveva sconvolto più di quanto non volesse ammettere: e cominciavano ad arrivare i primi elenchi dei caduti americani dall’Europa. Prima di allora, quando aveva pensato alla morte, se l’era figurata come un evento letterario o come il lento, naturale logorio del tempo sulla carne imperfetta. Non l’aveva immaginata come un’esplosione di violenza su un campo di battaglia, o un fiotto di sangue che sgorga da una gola tagliata. Si chiedeva quale differenza vi fosse tra quei due modi di morire, e che significato avesse tale differenza. Sentiva crescere in sé un po’ di quell’amarezza che un tempo aveva scorto nel cuore ancora palpitante del suo amico David Masters.

L’argomento della sua tesi di dottorato era L’influenza della tradizione classica sulla lirica medievale. Trascorse buona parte dell’estate a leggere i poeti latini classici e medievali, e soprattutto le loro composizioni sul tema della morte. Non finiva di meravigliarsi per la facilità e la grazia con cui i lirici romani accettavano l’idea della morte, quasi che il nulla con cui si confrontavano fosse un tributo doveroso agli anni goduti in terra. E lo stupivano l’amarezza, il terrore e l’odio malcelato di certi poeti cristiani, appartenenti alla tradizione latina più tarda, davanti a una morte che, seppur vagamente, prometteva loro un’estasi eterna – come se la morte e la promessa non fossero che una beffa che gli rendeva amara la vita. Quando pensava a Masters, lo immaginava come un Catullo o un Giovenale, più gentile e poetico, un esule nella sua stessa patria. Pensava alla sua morte come a un esilio ulteriore, più strano e duraturo di quello che già conosceva.

Quando, nell’autunno del 1918, cominciò il semestre, era ormai chiaro a tutti che la guerra in Europa non sarebbe durata a lungo. L’ultima, disperata controffensiva tedesca era stata fermata alle porte di Parigi, e il maresciallo Foch aveva dato inizio al contrattacco degli alleati, che in poco tempo respinsero il nemico oltre le linee di partenza. Gli inglesi avanzarono verso nord e gli americani entrarono nelle Argonne, a un prezzo che, nell’esaltazione generale, venne ampiamente ignorato. I giornali prevedevano che la Germania sarebbe caduta prima di Natale.

Il semestre dunque cominciò in un clima di gaiezza un po’ esagitata. Professori e studenti si ritrovavano a sorridersi l’un l’altro e ad annuire con vigore lungo i corridoi. Diverse esplosioni di esuberanza e piccole violenze tra gli studenti furono deliberatamente ignorate dalla facoltà e dall’amministrazione. E uno studente non meglio identificato, che divenne subito una specie di eroe locale, si arrampicò a mani nude su una delle immense colonne della Jesse Hall, impiccandovi in cima un fantoccio di paglia raffigurante il Kaiser.

L’unica persona che sembrava estranea a quell’eccitazione generale era Archer Sloane. Dal giorno in cui l’America era entrata in guerra, aveva cominciato a chiudersi in se stesso, e la chiusura appariva più marcata via via che la guerra si avvicinava al termine. Non parlava con i colleghi a meno che non fosse costretto da qualche incombenza legata al dipartimento, e si mormorava che le sue lezioni fossero diventate così eccentriche che gli studenti le frequentavano con terrore. Si limitava a leggere gli appunti in modo ottuso e meccanico, senza mai guardare la classe. Spesso gli si smorzava la voce in gola e continuava a fissare il quaderno, restando uno, due, a volte anche cinque minuti in silenzio, durante i quali non si muoveva e non rispondeva alle domande imbarazzate degli allievi.

Quando gli assegnò il programma dei corsi per l’anno accademico, William Stoner riconobbe in lui le ultime vestigia dell’uomo brillante e ironico che aveva conosciuto da studente. Sloane affidò a Stoner due corsi di composizione per le matricole e un seminario di approfondimento sulla letteratura medievale inglese. Poi disse, con uno sprazzo di ironia residua: «Come molti dei nostri colleghi, e non pochi dei nostri studenti, sarà lieto di sapere che abbandonerò alcuni dei miei corsi. Tra questi ve n’è uno che è sempre stato il mio favorito: il corso generale di letteratura inglese del secondo anno. Forse lei se lo ricorda...».

Stoner annuì, sorridendo.

«Già», continuò Sloane, «immaginavo che lo ricordasse. Ora le chiedo di occuparsene al posto mio. Non che sia un gran regalo, ma forse può divertirla l’idea di cominciare la sua carriera di professore con il primo corso che ha frequentato da studente». Poi lo fissò, e per un istante gli occhi gli brillarono come prima della guerra. Quindi la patina di indifferenza tornò a velargli lo sguardo e si voltò altrove, scartabellando alcuni incartamenti sulla scrivania.

Così Stoner cominciò da dove aveva iniziato, e l’uomo alto, magro e ricurvo che ormai era diventato si sedette in cattedra nella stessa aula dove il ragazzo alto, magro e ricurvo che era stato sedeva dietro a un banco, ascoltando le parole che l’avrebbero condotto fin lì. Ogni volta che entrava in quell’aula non poteva impedirsi di guardare il posto che aveva occupato, e ogni volta si stupiva un po’ di non trovarsi lì.

L’11 novembre di quell’anno, due mesi dopo l’inizio del semestre, venne firmato l’armistizio. La notizia arrivò mentre le lezioni erano in corso e le aule si sciolsero immediatamente. Gli studenti correvano senza meta per il campus, dando vita a piccoli cortei che si riunivano, si disperdevano e si riunivano ancora, dipanandosi per i corridoi, le classi e gli uffici. Quasi contro la sua volontà, Stoner finì in mezzo a uno, ritrovandosi a percorrere corridoi, scale e ancora corridoi verso la Jesse Hall. Trascinato da quella piccola folla di studenti e insegnanti, passò davanti alla porta dell’ufficio di Archer Sloane, che era aperta, e lo vide seduto davanti alla sua scrivania. Aveva il viso scoperto e chiaramente alterato: piangeva di rabbia e le lacrime gli scorrevano a fiotti lungo le rughe.

Sconvolto, Stoner si lasciò portare dalla folla ancora per un momento. Poi uscì dal corteo e andò nella sua stanza vicino al campus. Rimase seduto al buio ad ascoltare le grida di gioia e di sollievo che provenivano dall’esterno, pensando ad Archer Sloane che piangeva per una sconfitta che lui solo vedeva, o credeva di vedere. Capì che Sloane era un uomo finito e non sarebbe mai più stato quello di un tempo.

Verso la fine di novembre, molti dei ragazzi che erano partiti per la guerra cominciarono a tornare a Columbia, e il campus venne puntellato dalle macchie color verde marcio delle uniformi dell’esercito. Tra quelli che rientrarono in congedo esteso c’era Gordon Finch. Aveva preso qualche chilo durante quell’anno e mezzo trascorso al fronte e il suo viso ampio e aperto, un tempo docile e gentile, aveva assunto un’espressione grave che, per quanto amichevole, poteva risultare sinistra. Indossava i gradi di capitano e parlava dei suoi “uomini” con orgoglio quasi paterno. Con Stoner era cordiale e distante, e si rivolgeva ai membri più anziani del dipartimento con deferenza affettata. Il semestre era già troppo avanti perché gli si potesse affidare un corso, così per il resto dell’anno accademico venne impiegato come assistente amministrativo del decano della facoltà di Scienze umanistiche, un’evidente sinecura temporanea. Finch era sufficientemente accorto da cogliere l’ambiguità della sua nuova posizione, ma anche abbastanza furbo per intuirne le possibilità. I suoi rapporti con i colleghi erano cauti, la sua gentilezza sempre di circostanza.

Il decano di Scienze umanistiche, Josiah Claremont, era un uomo piccolo e barbuto, piuttosto avanti negli anni, che aveva già abbondantemente superato l’età della pensione. Lavorava lì dai primi anni Settanta del secolo precedente, quando l’istituto, da semplice college, si era trasformato in un’università a pieno titolo di cui suo padre era stato uno dei primi rettori. Era così attaccato al suo ruolo, e così legato alla storia dell’università, che nessuno aveva il coraggio di insistere perché andasse in pensione, malgrado la crescente incompetenza con cui amministrava il suo ufficio. Aveva perso quasi completamente la memoria. A volte si smarriva per i corridoi della Jesse Hall, dove si trovava il suo studio, e bisognava riaccompagnarlo come un bambino alla sua scrivania.

Ormai gestiva in modo così confuso gli affari dell’università che, quando dal suo ufficio arrivò l’annuncio che si sarebbe tenuto in casa sua un ricevimento in onore dei veterani della facoltà e dello staff amministrativo tornati dalla guerra, la maggior parte di quelli che avevano ricevuto l’invito pensò che si trattasse di un subdolo scherzo o di uno sbaglio. Invece non era né l’uno né l’altro. Fu Gordon Finch a confermare l’invito, e tutti intuirono che era stato lui a sollecitare il ricevimento e a organizzare la cosa.

Josiah Claremont, rimasto vedovo molti anni addietro, viveva da solo con tre domestiche di colore vecchie quasi quanto lui. Stavano in una di quelle grandi case costruite prima della guerra civile che un tempo erano assai comuni nei dintorni di Columbia e andavano rapidamente scomparendo con l’avvento dei piccoli fattori autonomi e degli imprenditori immobiliari. L’architettura dell’edificio era amena ma indefinibile; pur avendo forma e dimensioni “meridionali”, non condivideva affatto il rigore neoclassico delle tipiche case della Virginia. Le assi erano dipinte di bianco e un bordo verde incorniciava le finestre e le balaustre dei balconcini che sporgevano qua e là dal piano superiore. Tutto l’edificio era circondato da un bosco e alti pioppi, spogli in quel pomeriggio d’inverno, bordavano l’ingresso e i viali. Era la casa più grande che William Stoner avesse mai visto. Quel venerdì pomeriggio percorse il viale d’accesso in soggezione, raggiungendo un gruppo di universitari che non conosceva, in attesa di entrare.

Ad aprire la porta fu Gordon Finch, con indosso l’uniforme militare. Il gruppo entrò in un salottino quadrato, in fondo al quale c’era una scala ripida con le ringhiere di quercia lucida che portava al secondo piano. Un piccolo arazzo francese, con il blu e l’oro così scoloriti che la decorazione si distingueva a stento sotto la luce giallastra delle lampadine, era appeso al muro della scala proprio davanti ai nuovi arrivati. Stoner rimase un momento a guardarlo mentre il resto del gruppo si sparpagliava nel foyer.

«Dammi il cappotto, Bill». La voce, vicina al suo orecchio, lo fece sobbalzare. Si voltò. Finch gli sorrideva, con la mano pronta a prendere il capo che Stoner non si era ancora levato.

«Non eri mai venuto qui, vero?», gli chiese quasi sussurrando. Stoner fece segno di no con la testa.

Finch si rivolse agli altri e, senza alzare la voce, riuscì a farsi sentire da tutti. «Signori, andate nel salone principale». Indicò una porta sul lato destro del foyer. «È una delle attrazioni del luogo».

«Sì», disse Stoner, «ne ho sentito parlare».

«Claremont è un buon vecchio, sai? Mi ha chiesto di dargli una mano».

Stoner annuì.

Finch lo prese sottobraccio e lo condusse verso la porta che aveva appena indicato. «Oggi pomeriggio ci faremo una bella chiacchierata. Ora entra, ti raggiungerò tra un minuto. Voglio presentarti delle persone».

Stoner fece per replicare, ma Finch s’era già voltato per accogliere un altro gruppo di ospiti appena arrivati. Stoner fece un bel respiro e aprì la porta che dava sul salone.

Appena entrato, venendo dal freddo del foyer, sentì un gran caldo che lo respingeva, come per costringerlo a tornare indietro; il lento mormorio degli invitati, che aveva liberato aprendo la porta, gli rimbombò per un istante in testa, prima che le sue orecchie vi si abituassero.

Una trentina di persone vagavano per la stanza, ma sul momento non ne riconobbe nessuna. Vide il nero, il grigio e il marrone dei sobri completi maschili, il verde marcio delle uniformi militari e qua e là l’azzurro o il rosa cipria di un abito femminile. Tutti si muovevano pigramente nel caldo della sala e Stoner prese a farlo insieme a loro, conscio di stagliarsi in altezza in mezzo agli ospiti già seduti, salutando con un cenno del capo quelli che ora cominciava a riconoscere.

Una porta in fondo alla stanza si apriva su un parlatoio adiacente al salone, che era lungo e stretto. Le doppie porte d’ingresso erano spalancate su un immenso tavolo da pranzo in legno di noce, coperto da damasco giallo e carico di piatti bianchi e coppe d’argento scintillanti. Molte persone erano assiepate intorno al tavolo, a capo del quale una giovane donna, alta, sottile e bella, con indosso un abito di seta color blu marino, versava tè nelle tazze di porcellana bordate d’oro. Stoner si fermò sulla porta, colpito da quella visione. La giovane, dal viso dolce e affusolato, sorrideva agli ospiti intorno, e le sue dita sottili, quasi fragili, si muovevano con destrezza tra l’urna e le tazze. Guardandola, Stoner fu assalito dalla coscienza della propria goffaggine.

Rimase a lungo sulla porta, immobile. Sentiva la voce morbida e delicata della ragazza che emergeva dal mormorio degli ospiti in attesa del tè. Poi la vide alzare la testa, e all’improvviso incrociò i suoi occhi: erano grandi e pallidi e sembravano brillare di luce propria. Un po’ stordito, indietreggiò, tornando nel salottino più piccolo. Trovò una sedia libera in un angolo accanto al muro e vi si sedette con gli occhi fissi sul tappeto. Non guardava in direzione del salone, ma di tanto in tanto gli sembrava di sentire lo sguardo della ragazza sfiorargli bruscamente il viso.

Gli ospiti si muovevano intorno a lui, scambiandosi di posto, alterando il tono di voce a seconda dell’interlocutore. Stoner li guardava attraverso un velo come uno spettatore estraneo.

Dopo un po’ entrò nella stanza Gordon Finch e Stoner si alzò dalla sedia per andargli incontro. Un po’ bruscamente lo interruppe mentre conversava con un uomo anziano. Tirandolo da parte senza abbassare la voce, gli chiese di presentargli la ragazza che versava il tè.

Finch lo guardò per un momento e l’espressione irritata che aveva cominciato a corrugargli la fronte si distese via via che gli si spalancavano gli occhi: «Che hai detto?», disse. Pur essendo più piccolo di Stoner, pareva che lo guardasse dall’alto in basso.

«Voglio che mi presenti quella ragazza», ripeté Stoner. «La conosci?».

«Certo», disse Finch. Un ghigno cominciò a disegnarsi sulle sue labbra: «È una lontana cugina del decano. È venuta da St Louis per far visita a una zia». Il ghigno si allargò. «Caro, vecchio Bill. Ma che ne vuoi sapere. Certo che te la presento. Andiamo».

Si chiamava Edith Elaine Bostwick e viveva con i genitori a St Louis, dove la primavera precedente aveva completato un corso di due anni presso un seminario femminile privato. Era venuta a Columbia per qualche settimana, in visita alla sorella maggiore di sua madre, e con la bella stagione sarebbero partite insieme per il Gran Tour d’Europa: un viaggio di nuovo possibile, ora che la guerra era terminata. Suo padre, direttore di una delle banche più piccole di St Louis, veniva dal New England. Si era trasferito a ovest negli anni Settanta e aveva sposato la figlia maggiore di una famiglia benestante del Missouri centrale. Edith era vissuta sempre a St Louis. Qualche anno prima, d’estate, era andata a Boston con i genitori, era stata all’Opera di New York e ne aveva visitato i musei. Aveva vent’anni, suonava il piano e aveva una predisposizione per l’arte che sua madre cercava di incoraggiare.

In seguito, Stoner cercò inutilmente di ricordarsi come avesse scoperto queste cose durante quel primo pomeriggio trascorso fino all’imbrunire in casa di Josiah Claremont. Perché nella sua mente tutto appariva rigido e confuso, come i disegni della tappezzeria sul muro della scala del foyer. Ricordava di aver parlato con la ragazza e che lei di tanto in tanto lo aveva guardato, restandogli accanto e concedendogli il piacere di ascoltare la sua voce fine e delicata, mentre rispondeva alle sue domande e ne poneva altre in modo meccanico.

Gli ospiti iniziarono a congedarsi. Qualche arrivederci, uno sbattere di porte, e le stanze rimasero vuote. Stoner si trattenne finché non se ne furono andati quasi tutti, e quando arrivò il calesse di Edith, la seguì nel foyer aiutandola a infilarsi il soprabito. Un istante prima che uscisse, le chiese se poteva farle visita la sera dopo.

Come se non l’avesse sentito, lei aprì la porta e rimase immobile per un lungo istante: l’aria gelida sferzava l’ingresso, lambendo il volto accaldato di Stoner. Alla fine si voltò a guardarlo, battendo più volte le palpebre. I suoi occhi chiari erano molto lucidi, quasi sfrontati. Alla fine annuì e disse: «Sì. Potete farmi visita». Ma non sorrise.

E così andò a farle visita a casa della zia, attraversando a piedi la città, in una gelida serata d’inverno del Midwest. Non c’erano nubi nel cielo. Una mezza luna brillava sul leggero strato di neve che era caduto nel primo pomeriggio. Le strade erano deserte e il silenzio ovattato era rotto solo dal rumore della neve che gli scricchiolava sotto ai piedi lungo il cammino. Una volta arrivato, si fermò a lungo davanti alla grande casa, ad ascoltare il silenzio. Il freddo gli intorpidiva i piedi, ma rimase immobile. Dalle tende delle finestre filtrava una luce fioca, che si posava sulla neve biancazzurra come un fumo giallo. Gli parve di vedere un movimento all’interno, ma non ne era sicuro. Deliberatamente, come se avesse preso un impegno con se stesso, s’incamminò lungo il viale che portava alla veranda e bussò alla porta d’ingresso.

La zia di Edith (il suo nome, come Stoner apprese in seguito, era Emma Darley, ed era vedova da molti anni) venne ad aprirgli e lo invitò a entrare. Era una donna piccola e rotonda, con dei sottili capelli bianchi che le incorniciavano il volto. Aveva gli occhi neri, umidi e brillanti, e parlava sottovoce, con il fiato sospeso, come se dovesse sempre rivelare un segreto. Stoner la seguì in soggiorno e si sedette, di fronte a lei, su un lungo divano di noce, con la seduta e lo schienale foderati da un velluto blu molto spesso. La neve gli era rimasta sotto le scarpe; la guardò sciogliersi e formare delle chiazze umide sotto ai suoi piedi, sul morbido tappeto a fiori.

«Edith mi ha detto che insegna all’università, Mr Stoner», disse Mrs Darley.

«Sì, signora», rispose, e si schiarì la voce.

«È così bello tornare a parlare con un giovane docente», disse allegramente Mrs Darley. «Il mio povero marito, Mr Darley, ha fatto parte del consiglio d’amministrazione dell’università per qualche anno... Ma immagino che lei lo sappia».

«No, signora», disse Stoner.

«Oh», disse Mrs Darley. «Be’, avevamo l’abitudine di invitare i docenti più giovani a prendere il tè nel pomeriggio. Ma questo succedeva molti anni fa, prima della guerra. Lei è stato in guerra, professor Stoner?».

«No, signora», fece lui. «Sono rimasto all’università».

«Già», disse Mrs Darley e annuì allegra. «E lei insegna...?».

«Inglese», rispose Stoner. «E non sono un professore. Sono solo un lettore». Si rese conto che la sua voce era severa ma non riusciva a controllarla. Cercò di sorridere.

«Ah, certo», disse lei. «Shakespeare... Browning...».

Poi tra i due scese il silenzio. Stoner serrò le mani e guardò il pavimento.

Mrs Darley disse: «Vado a vedere se Edith è pronta. Vuole scusarmi?».

Stoner annuì e si alzò in piedi, mentre Mrs Darley si allontanava. Sentì un veemente sussurrio provenire dal retro. Rimase immobile per vari minuti.

All’improvviso Edith comparve sulla grande porta, pallida e seria. Si guardarono l’un l’altra in maniera inespressiva. Lei fece un passo indietro e poi avanzò, le labbra strette e nervose. Si strinsero la mano con aria grave e si sedettero insieme sul divano. Senza parlare.

Era più alta di come la ricordava, e più fragile. Aveva il viso lungo e affusolato, e le labbra racchiudevano una solida dentatura. La pelle aveva quella tipica trasparenza che si scalda e si tinge di colore a ogni minima sollecitazione. I capelli erano d’un biondo rossiccio molto chiaro e li portava raccolti in grosse trecce sul capo. Ma furono soprattutto i suoi occhi a rapirlo e a trattenerlo, come già era accaduto il giorno prima. Erano grandissimi e del celeste più chiaro che si potesse immaginare. Quando li guardava, gli sembrava d’esser trascinato fuori da se stesso, in un mistero che non riusciva a comprendere. Trovava che fosse la donna più bella che avesse mai visto, e d’impulso disse: «Io... io... voglio conoscervi». Lei indietreggiò un poco. Stoner aggiunse in fretta: «Intendo dire che ieri, alla festa, non abbiamo avuto modo di parlare. Io avrei voluto, ma c’era così tanta gente. La gente a volte si insinua...».

«È stata una bella festa», disse debolmente Edith. «Mi sono sembrati tutti molto gentili».

«Oh sì, naturalmente», disse Stoner. «Volevo solo dire che...». Si interruppe. Edith restò in silenzio.

Stoner riprese: «Dunque andrete in Europa con vostra zia, tra breve».

«Sì», fece lei.

«L’Europa...», ripeté Stoner, scuotendo la testa. «Dovete essere molto eccitata».

Lei annuì, riluttante.

«E dove andrete? Voglio dire... in che posti?».

«In Inghilterra», disse lei. «In Francia, in Italia».

«E partirete... in primavera?».

«In aprile», rispose.

«Cinque mesi», disse Stoner. «Non è molto. Spero che nel frattempo potremo...».

«Resterò qui solo tre settimane», disse svelta lei. «Poi tornerò a St Louis. Per Natale».

«Tre settimane sono davvero poco», disse Stoner sorridendo. Poi aggiunse imbarazzato: «Allora cercherò di vedervi più spesso possibile, così potremo conoscerci meglio».

Lei lo guardò quasi con orrore. «Non volevo dir questo», disse. «Vi prego...».

Stoner restò in silenzio per un momento. «Mi dispiace, io... però vorrei davvero tornare a farvi visita, tutte le volte che me lo consentirete. Posso?».

«Oh», disse lei, «bene». Teneva le dita intrecciate in grembo e le nocche erano bianche nei punti in cui la pelle era tesa. Aveva delle lentiggini chiarissime sul dorso delle mani.

Lui le domandò: «Sta andando male, vero? Dovete perdonarmi. Non avevo mai conosciuto una persona come voi, e sto dicendo cose molto sciocche. Dovete perdonarmi se vi ho messo in imbarazzo».

«Oh no», disse lei. Si voltò a guardarlo e tirò le labbra in quello che gli parve un sorriso. «Nient’affatto. Mi trovo molto bene. Davvero».

Stoner non sapeva più che dire. Fece riferimento al tempo e si scusò per aver sporcato di neve il tappeto. Lei mormorò qualcosa. Parlò delle lezioni che doveva tenere all’università, e lei annuì, disorientata. Poi rimasero in silenzio. Alla fine lui si alzò, muovendosi in modo lento e pesante, come se fosse stanco. Edith lo guardò inespressiva.

«Bene», disse Stoner, schiarendosi la voce. «Si è fatto tardi, e io... Be’, scusatemi. Posso tornare a farvi visita tra qualche giorno? Forse...».

Le sue parole caddero nel vuoto. Fece un cenno col capo, disse: «Buonasera», e si voltò per andarsene.

Edith Bostwick con voce alta e stridula, priva di qualunque inflessione, esclamò: «Quand’ero bambina a circa sei anni suonavo il piano e mi piaceva dipingere ed ero molto timida così mia madre mi mandò alla Scuola per Ragazze di Miss Thorndyke a St Louis. Lì ero la più piccola, ma era giusto così perché papà era nel consiglio di amministrazione e aveva organizzato lui la cosa. All’inizio non mi piaceva ma poi ci sono stata benissimo. Le altre ragazze erano tutte molto gentili e ben educate, e con alcune siamo rimaste molto amiche e...».

Stoner s’era voltato appena l’aveva sentita parlare e ora la osservava con uno stupore che non traspariva affatto dal suo volto. Lei guardava dritto davanti a sé, col viso privo di espressione e le labbra che si muovevano come se leggesse da un libro invisibile, senza capirne il contenuto. Stoner attraversò lentamente la stanza e le si sedette accanto. Edith parve non accorgersene: i suoi occhi rimasero fissi nel vuoto mentre continuava a parlargli di sé, come lui le aveva chiesto di fare. Stoner avrebbe voluto dirle di fermarsi, consolarla, accarezzarla. Invece non si mosse e non parlò.

Edith andò avanti, e dopo un po’ lui cominciò a sentire quello che stava dicendo. Anni dopo gli capitò di pensare che durante quel primo, lungo incontro con lei, in quell’ora e mezza di una fredda sera di dicembre, Edith gli aveva parlato di sé più di quanto avesse mai fatto in seguito. Quando si congedarono, sentì che erano estranei in un modo per lui impensabile, e capì di essersi innamorato.

Edith Elaine Bostwick probabilmente non era consapevole di ciò che aveva detto a William Stoner quella sera: e anche se lo fosse stata, non ne avrebbe compreso il significato. Stoner invece l’aveva capito, e non lo dimenticò mai. Ciò che aveva sentito era una specie di confessione, che interpretò come una richiesta di aiuto.

Approfondendo la conoscenza di Edith, apprese molte altre cose sulla sua infanzia e la riconobbe simile a quella di tante altre ragazze della sua stessa età e condizione. La sua educazione era fondata sul presupposto che qualcuno l’avrebbe sempre protetta dalle grandi difficoltà della vita e che in cambio di tale protezione il suo unico dovere sarebbe stato quello di comportarsi come un grazioso e raffinato accessorio – poiché per le ragazze della sua estrazione sociale ed economica la protezione era quasi un obbligo sacro. Aveva dunque frequentato delle scuole private dove le avevano insegnato a leggere, a scrivere e a far di conto. Nel tempo libero era stata incoraggiata a cucire, a suonare il piano, a dipingere acquerelli e ad argomentare sui libri più delicati. Era stata istruita anche in materia di abiti, carrozze, dizione e moralità.

Il suo apprendistato morale, sia a scuola che a casa, era stato censorio nei modi e coercitivo negli intenti e quasi interamente mancante riguardo il sesso. Le allusioni alla sessualità, tuttavia, erano state sempre indirette e inconfessate. Per questo essa pervadeva ogni aspetto della sua educazione, che riceveva il grosso della sua energia proprio da quella forza morale tacita e regressiva. Edith sapeva solo che avrebbe avuto dei doveri verso il marito e la famiglia, e che vi avrebbe dovuto adempiere.

La sua infanzia era stata eccessivamente formale, perfino nei momenti più intimi e quotidiani. I suoi genitori si comportavano tra loro in modo cortese e distante. Edith non li aveva mai visti scambiarsi un gesto di affetto spontaneo, né esprimere rabbia, o amore. La rabbia si traduceva in giorni e giorni di cortese silenzio, e l’amore in una cortese espressione d’affetto. Da bambina era stata sempre molto sola, e la solitudine era una delle condizioni che aveva sperimentato fin dall’inizio.

Era cresciuta dunque con un fragile talento per le arti più delicate e senza alcuna conoscenza delle necessità che la vita impone di giorno in giorno.

Ricamava trame delicate e inutili, dipingeva paesaggi evanescenti con acquarelli finissimi, e suonava il piano con tocco debole ma preciso. Era però totalmente all’oscuro delle proprie funzioni fisiologiche, non si era mai gestita in solitudine, e non aveva mai immaginato di potersi prendere cura di qualcun altro. La sua vita era immutabile, come un mormorio sommesso e a custodirla c’era sua madre, che, quando Edith era piccola, le restava seduta accanto per ore a guardarla dipingere o suonare il piano, come se entrambe non potessero fare altrimenti.

A tredici anni Edith subì la normale trasformazione sessuale, ma subì anche una più insolita metamorfosi fisica. Nel giro di pochi mesi crebbe di quasi trenta centimetri, facendosi alta come una persona adulta. E l’associazione tra la goffaggine fisica e la nuova, imbarazzante condizione sessuale le provocò un trauma da cui non si riprese mai del tutto. Tali cambiamenti accrebbero la sua naturale timidezza: diffidando dei compagni di scuola e non avendo nessuno con cui parlare a casa, cominciò a chiudersi sempre più in se stessa.

Ora William Stoner s’era intromesso in quella profondissima intimità e qualcosa d’insospettato in lei, come una specie d’istinto, l’aveva indotta a richiamarlo prima che uscisse dalla porta. E a parlare in modo così rapido e disperato, come non aveva mai fatto prima, e come non avrebbe fatto mai più.

Durante le due settimane che seguirono la vide quasi ogni sera. Andarono a un concerto sostenuto dal nuovo dipartimento di Musica dell’università. Quando non faceva troppo freddo, si concedevano delle lunghe, solenni passeggiate per le vie di Columbia, ma il più delle volte se ne stavano seduti nel soggiorno di Mrs Darley. A volte parlavano e Edith suonava il piano per lui. Stoner ascoltava e osservava le sue mani muoversi senza vigore su quei tasti. Dopo quella prima sera insieme, le loro conversazioni si fecero curiosamente impersonali: Stoner non riusciva a vincere la riservatezza di Edith, e quando si accorgeva che i suoi sforzi la imbarazzavano, non insisteva. Eppure si trovavano abbastanza a loro agio, e gli sembrava che ci fosse una certa intesa. Quando mancava meno di una settimana al suo ritorno a St Louis, le dichiarò il suo amore e le chiese di sposarlo.

Pur non sapendo bene che reazione aspettarsi, rimase stupito dalla sua equanimità. Dopo averlo ascoltato, Edith gli rivolse un lungo sguardo, riflessivo e stranamente audace, e Stoner si ricordò di quel primo pomeriggio in cui le aveva chiesto il permesso di farle visita e lei l’aveva guardato restando ferma sulla porta, da cui spirava un vento gelido su entrambi. Poi Edith abbassò gli occhi e lo stupore che le si dipinse in volto gli parve irreale. Disse che non aveva mai pensato a lui in quel modo, che non aveva mai immaginato, che non sapeva.

«Ma avrai capito che ti amo», disse lui, «non vedo come avrei potuto nasconderlo...».

Lei rispose con una punta d’eccitazione: «No. Non ne sapevo niente».

«Allora bisogna che te lo ripeta», disse gentilmente Stoner, «e bisogna che ti abitui all’idea. Ti amo, e non posso immaginare di vivere senza di te».

Lei scosse la testa, come confusa. «Il mio viaggio in Europa», disse debolmente: «La zia Emma...».

Stoner sentì una risata salirgli in gola, e disse con tono allegro e confidenziale: «Ah, l’Europa. Ti ci porto io, in Europa. Un giorno ci andremo insieme».

Lei si staccò da lui, portandosi le dita alla fronte. «Dovete darmi il tempo di pensare. E dovrò parlare con mamma e papà, prima di considerare anche lontanamente...».

Quello fu il massimo che gli concesse. Non l’avrebbe più rivisto prima della sua partenza per St Louis, che sarebbe avvenuta di lì a pochi giorni, e da lì gli avrebbe scritto solo dopo aver parlato con i genitori ed essersi chiarita le idee. Quel giorno, prima di andarsene, Stoner si chinò su di lei per baciarla ma Edith voltò la testa e le sue labbra le sfiorarono una guancia. Lei gli diede una fugace stretta di mano e lo fece uscire dalla porta d’ingresso, senza più guardarlo.

Dieci giorni dopo, Stoner ricevette la sua lettera. Era un appunto stranamente formale, che non faceva alcun riferimento a ciò che era accaduto tra loro. Edith diceva solo che le sarebbe piaciuto fargli incontrare i suoi genitori e che tutti speravano di vederlo presto a St Louis, anche il fine settimana successivo, se possibile.

I genitori di Edith lo accolsero con la gelida cortesia che aveva previsto, impedendogli in ogni modo di sentirsi a suo agio. Ogni volta che gli rivolgeva una domanda, Mrs Bostwick attendeva la risposta e poi diceva «S... sì», con grande scetticismo, quindi lo guardava incuriosita, come se avesse il viso sporco o del sangue che gli colava dal naso. Era alta e magra come Edith e sulle prime Stoner si stupì di quella somiglianza, che non aveva immaginato. Ma il viso di Mrs Bostwick era grave e letargico, completamente privo di forza e delicatezza, e mostrava i segni profondi di una sorta di perenne insoddisfazione.

Anche Horace Bostwick era alto, ma era d’una pesantezza strana e irreale, quasi corpulento. Un riporto di capelli grigi si avviluppava intorno a un cranio altrimenti calvo e delle pieghe di pelle floscia gli pendevano dalle mandibole. Quando si rivolgeva a Stoner guardava al di sopra della sua testa, come se stesse osservando qualcosa dietro di lui; e quando Stoner gli rispondeva, tamburellava con le grosse dita sul cordoncino al centro del panciotto.

Edith accolse Stoner come fosse un estraneo e poi si allontanò con noncuranza, immergendosi in qualche banale occupazione. Stoner la seguiva continuamente con gli occhi, ma non trovava il modo di farsi guardare.

Era la casa più grande ed elegante in cui fosse mai entrato. Le stanze erano alte e buie, e pullulavano di vasi d’ogni dimensione e foggia, di argenterie baluginanti su tavoli coperti di marmo e cassettoni e cassepanche, e ricche tappezzerie su mobili dalle linee delicate. Vagarono attraverso molte stanze fino a un grande soggiorno dove, sussurrò Mrs Bostwick, lei e suo marito avevano l’abitudine di sedersi a conversare con gli amici in modo informale. Stoner si sedette su una sedia così fragile che ebbe paura di romperla. La sentiva dondolare sotto il suo peso.

Edith intanto era scomparsa. Stoner la cercava con lo sguardo in modo frenetico. Ma lei non rientrò nel soggiorno per quasi due ore, finché Stoner e i suoi genitori non ebbero finito la loro “conversazione”.

La “conversazione” fu indiretta, allusiva e posata, e interrotta da lunghi silenzi. Horace Bostwick parlò di sé con frasi concise, guardando sempre molti centimetri al di sopra della testa di Stoner. Stoner scoprì che Bostwick era di Boston e che suo padre, già avanti negli anni, aveva distrutto la sua carriera e il futuro di suo figlio nel New England attraverso una serie di investimenti improvvidi che avevano portato la sua banca al fallimento. «Tradito», sentenziò Bostwick rivolto al soffitto, «da falsi amici». Così, poco dopo la guerra civile, suo figlio era venuto nel Missouri, con l’intenzione di spostarsi a ovest, ma non si era mai spinto oltre Kansas City, dove talvolta andava in viaggio d’affari. Memore del fallimento – o del tradimento – di suo padre, aveva mantenuto il suo primo lavoro in una piccola banca di St Louis. E alle soglie dei quarant’anni, forte della sua posizione di vicepresidente, aveva sposato una ragazza del posto, di buona famiglia. Da lei aveva avuto solo un figlio: avrebbe voluto un maschio e invece era nata una bambina, e questa era un’ulteriore delusione che non si preoccupava troppo di nascondere. Come molti uomini che ritengono di aver avuto solo in parte il successo che meritavano, era straordinariamente vanesio e roso dall’affermazione della propria importanza. Ogni dieci o quindici minuti sfilava dal taschino del panciotto un grande orologio d’oro, lo guardava e annuiva tra sé.

Mrs Bostwick parlava meno spesso e meno direttamente di sé, ma Stoner la inquadrò rapidamente. Era una signora del Sud di un certo tipo. Appartenente a un’antica famiglia ormai discretamente impoverita, era cresciuta con la presunzione che le difficoltà in cui versavano i suoi fossero inadeguate alla loro estrazione. Le era stato insegnato ad aspettarsi un miglioramento di tale condizione, ma di natura non meglio specificata. Così aveva sposato Horace Bostwick con quell’insoddisfazione per lei così consueta da essersi fatta parte della sua persona. E col passare degli anni l’insoddisfazione e l’amarezza erano cresciute, diventando così diffuse e pervasive che nessun rimedio ormai poteva sopirle. La sua voce era sottile e acuta, e recava in sé una nota di disperazione che dava un valore speciale a ogni parola che pronunciava.

Passò quasi tutto il pomeriggio prima che uno di loro menzionasse il tema che li aveva fatti incontrare.

I Bostwick gli spiegarono quanto avessero a cuore Edith e quanto fossero preoccupati per la sua felicità futura, visti i conforti cui era abituata. Stoner restò seduto in angoscioso imbarazzo, cercando di rispondere nel modo più appropriato.

«Una ragazza straordinaria», disse Mrs Bostwick, «così sensibile». Le rughe sul suo viso si fecero più profonde, mentre aggiungeva con un’amarezza atavica: «Nessuno, nessuno può comprendere a pieno la delicatezza di... di...».

«Sì», tagliò corto Bostwick. E cominciò a indagare intorno a quelle che definì le “prospettive” di Stoner. Stoner rispose come meglio poté. Non aveva mai pensato alle sue “prospettive” prima di allora e si stupì di quanto apparissero misere.

Bostwick disse: «E non avete altri... mezzi... oltre alla vostra professione?».

«No, signore», replicò Stoner.

Mr Bostwick scosse tristemente la testa. «Sapete, Edith ha avuto dei... privilegi. Una bella casa, ottima servitù, le scuole migliori. Mi chiedo se... Ho paura che un abbassamento del suo tenore di vita, che sarebbe inevitabile data la vostra... ehm, condizione... non...». La sua voce si affievolì.

Stoner sentì la nausea crescere in lui, assieme a una gran rabbia. Aspettò qualche momento prima di rispondere, cercando di mantenere la voce il più possibile piatta e priva di espressione.

«Devo dirvi, signore, che non avevo considerato tali questioni materiali prima di adesso. La felicità di Edith è, naturalmente, anche la mia. Ma se ritenete che potrebbe essere infelice, allora devo...». Si fermò, cercando le parole. Voleva dichiarare al padre tutto il suo amore per Edith, ribadirgli la sua certezza che insieme sarebbero stati felici, spiegargli che genere di vita avrebbero fatto. Ma non proseguì. Colse sul viso di Horace Bostwick un’espressione così tesa, sgomenta, quasi spaventata, che lo stupore lo ridusse al silenzio.

«No», disse affrettatamente Bostwick, chiarendo le sue intenzioni: «Voi mi fraintendete. Stavo solo cercando di sottoporvi alcune... difficoltà... che potrebbero sorgere in futuro. Ma sono certo che voi ragazzi ne avete già parlato e avete le idee ben chiare. Rispetto il vostro giudizio e...».

E la faccenda fu risolta. Si scambiarono qualche altra parola, dopo di che Mrs Bostwick si domandò ad alta voce dove fosse finita Edith per tutto quel tempo. La chiamò con la sua voce alta e sottile e dopo qualche istante Edith entrò nella stanza, dove la aspettavano tutti. Non guardò Stoner.

Horace Bostwick le disse che aveva fatto una bella chiacchierata con il suo “giovanotto” e che avevano la sua benedizione. Edith annuì.

«Bene», disse sua madre, «dobbiamo pianificare un po’ di cose. Matrimonio in primavera. Forse giugno».

«No», disse Edith.

«Come dici, cara?», domandò sua madre, affabile.

«Se bisogna farlo», disse Edith, «voglio farlo in fretta».

«L’impazienza dei giovani», disse Mr Bostwick schiarendosi la gola. «Forse però tua madre ha ragione, cara. Bisogna pianificare alcune cose. C’è bisogno di tempo».

«No», disse di nuovo Edith, con una fermezza che li indusse tutti a guardarla. «Dev’essere prima».

Vi fu un silenzio. Poi suo padre disse, con tono sorprendentemente mite: «Molto bene, mia cara. Come vuoi tu. Deciderete voi ragazzi».

Edith annuì, mormorò qualcosa in merito a un’incombenza da adempiere e sgattaiolò fuori dalla stanza. Stoner non la rivide prima della cena, che Horace Bostwick presiedette in regale silenzio. Dopo mangiato Edith suonò il piano per loro, ma suonò malamente e in modo troppo rigido, facendo molti errori. Poi disse che si sentiva poco bene e si ritirò in camera sua.

Quella notte, nella stanza degli ospiti, William Stoner non riuscì a dormire. Restò a guardare il soffitto interrogandosi sulla strana piega che stava prendendo la sua vita, e per la prima volta mise in questione l’opportunità della sua scelta. Poi pensò a Edith e si rassicurò un poco. Immaginò che tutti gli uomini avessero le stesse incertezze, e gli stessi dubbi, che all’improvviso lo avevano assalito.

La mattina dopo doveva prendere il treno per Columbia di buon’ora, così non ebbe molto tempo dopo colazione. Voleva noleggiare un calesse fino alla stazione, ma Mr Bostwick insistette perché uno dei suoi servi lo accompagnasse in landò. Edith gli avrebbe scritto nel giro di pochi giorni in merito al matrimonio. Ringraziò e salutò i Bostwick che lo accompagnarono fino alla porta insieme a Edith. Aveva quasi raggiunto il cancello d’ingresso quando sentì dei passi affrettati alle sue spalle. Si voltò. Era Edith. Si fermò immobile davanti a lui, rigidissima, pallida in viso, e lo guardò dritto negli occhi.

«Cercherò di essere una buona moglie per te, William», disse. «Cercherò».

Stoner realizzò che da quando era arrivato era la prima volta che qualcuno lo chiamava per nome.