“Che lucina sarà? Chi l’accenderà?” mi domando mentre cammino per le strade di pietra di questo piccolo borgo dove non è rimasto nessuno. “Che sia una luce che filtra da qualche casina isolata nei boschi? Che sia la luce di un lampione rimasto lassù, in un altro piccolo borgo disabitato come questo, ma ancora evidentemente collegato alla rete elettrica, che si accende sempre alla stessa ora per un semplice impulso?”

Si sente solo il rumore dei miei passi rimbombare nelle stradine, scorgo i gradini di pietra di qualche scaletta dissestata, la porta sfasciata di qualche stalla, i ruderi dai tetti di ardesia sfondati e ricoperti di rampicanti, da cui erompono cime di alberi di fico o di alloro cresciuti tra le macerie, due vasche di pietra colme d’acqua, portoni dalla vernice abbagliante e scrostata.

“Dove mi trovo?” mi chiedo. “Cosa sto vedendo? Esiste davvero questo posto fuori dal mondo che i miei occhi stanno vedendo? Anche se nessuno oltre a me, in tutto l’universo, sa che esiste, sa che in questo momento c’è un uomo assolutamente solo che muove il suo corpo tra queste spoglie di pietra su cui non cessa un solo istante, giorno e notte, il tormento vegetale dei rampicanti.”

Imbocco una stradina in discesa che porta a un piccolo cimitero. Quando c’è la luna si vedono distintamente, illuminati a giorno da quella sua luce spettrale, il ciglio della piccola strada invaso dalla vegetazione, i precipizi da cui sale un rumore d’acqua che si scava il suo letto negli anfratti sonori delle montagne impregnate di pioggia e nelle gole, le grandi sagome degli alberi che si stagliano contro il cielo. È solo di notte, nella luce lunare, che si capisce veramente cosa sono gli alberi, queste colonne di legno e di schiuma che si protendono verso lo spazio vuoto del cielo.

Se non c’è la luna, bisogna andare a tentoni nel buio, sotto la sconvolgente volta celeste crivellata di miriadi di stelle disabitate e di altre bave di luce.

Una notte, mentre scendevo lungo questa stessa stradina, subito dopo una curva dove il buio è ancora più fitto, ho sentito un leggero rumore tra il fogliame. Mi sono girato a guardare. Erano due tassi. Mi fissavano con i loro occhi cerchiati di bianco, quasi catarifrangenti nell’oscurità. Mi sono fermato per lo stupore. Uno dei due tassi ha attraversato velocemente la piccola strada, completando un gesto che probabilmente aveva già cominciato prima di vedermi apparire. L’altro è rimasto immobile e continuava a fissarmi, terrorizzato da quella presenza umana sul suo territorio.

Sono rimasto fermo anch’io, per dargli il tempo di attraversare a sua volta e di raggiungere il primo tasso che era già dall’altra parte. Ma non si muoveva. Continuava a fissarmi con i suoi grandi occhi cerchiati di bianco, sempre sul ciglio della strada, allo scoperto, così terrorizzato da non riuscire neanche a nascondersi tra il fogliame.

«Forza!» l’ho esortato a bassa voce. «Attraversa anche tu! C’è qualcuno che ti aspetta dall’altra parte. Io sto fermo qui, non avere paura, non ti faccio del male.»

Ma il tasso non si muoveva. Continuavo a vedere quei due cerchi bianchi nel buio. Allora ho fatto qualche passo all’indietro per allungare la distanza tra noi e rassicurarlo. Ma sembrava inchiodato. Sono arretrato ancora di più. Non è bastato. Sono tornato indietro fino a prima della curva, perché non mi vedesse più e si decidesse ad attraversare. Mi sporgevo a guardare, ogni tanto, per vedere se si era finalmente deciso. Ma c’erano sempre quei due grandi cerchi bianchi e, in mezzo ai cerchi, due occhi lucenti che guardavano fisso verso di me, indovinando la mia presenza nel buio.

Quella notte sono dovuto ritornare indietro fino al borgo, perché il tasso, sentendo il rumore dei miei passi che si allontanavano sempre più, si decidesse finalmente a raggiungere l’altro tasso, che lo aspettava acquattato in mezzo al fogliame.

Stanotte è tutto nero, non c’è la luna. Cammino lungo questa stradina in discesa, fino a un’ultima curva dietro la quale si vedono improvvisamente i lumini di un cimitero. Scendo ancora di più, guardo da lontano questa piccola galassia di luci nel buio. Arrivo fin davanti al cancello chiuso. Guardo da vicino i lumini accesi di fronte ai forni, dall’indefinibile colore tra l’arancione e il rosso, che palpitano intensamente nell’oscurità di questa notte senza luna. “Partirà da qualche parte un impulso che accende anche questi lumini...” mi dico. “Ma come mai c’è un cimitero proprio vicino a questo borgo disabitato? Chi saranno le persone sepolte qui dentro, nella terra e nei forni? Da dove verranno? Uomini, donne, persino bambini, mi pare, da quei cumuli di terra più corti degli altri e dalle piccole fotografie illuminate appena da quei lumini...”

Ritorno nella mia casa, lungo la stradina nera, sotto quel finimondo di stelle. A fianco delle vasche di pietra, forse uscito da una vecchia griglia di ferro sotto la quale si sente gorgogliare dell’acqua, scorgo la sagoma tozza e scura di un rospo, che fugge a pesanti balzi sentendo i miei passi.

Entro in casa. Chiudo il cancelletto, anche se non c’è nessuno. Bevo due bicchieri d’acqua in cucina. Salgo la breve rampa di legno. Entro nella mia cameretta. Mi spoglio, mi metto il pigiama. Entro nel piccolo letto, che cigola un po’ quando mi distendo. Mi fischiano le orecchie in questa assoluta assenza di suoni. Resto per un po’ di tempo così, con gli occhi spalancati nel buio. Non saprei dire per quanto. Forse sono già tra la veglia e il sonno quando mi sembra di avvertire degli scricchiolii provenienti da sotto: rumorini secchi, improvvisi, forse il legno dei mobili e dei cassetti che si contrae e si distende nel buio.

Mi alzo. Imbocco la piccola scala, mi aggiro per un po’ al piano di sotto, accendo la luce per controllare che sia tutto a posto e che non sia entrato qualcuno, anche se so che non c’è nessuno. Vado a guardare anche nel gabinetto. Tiro lo sciacquone, perché c’è un piccolo sgocciolio causato dal galleggiante non perfettamente richiuso, che nel silenzio e nel buio della notte appare amplificato.

Torno a letto. Sto per riaddormentarmi. Ma ci sono altri rumorini, che provengono dall’alto, stavolta, dall’intercapedine che c’è tra il soffitto e il tetto. Perché attraverso le tegole o lungo il camino si insinuano degli animali anche abbastanza grandi, non solo uccelli ma anche bestie a quattro zampe che poi camminano là sopra nel buio, sulla mia testa.

Accendo la luce. Scendo di nuovo dal letto. Prendo la torcia. Appoggio al muro la scala a pioli. Salgo. Apro la botola, tossendo per la polvere che viene giù. Osservo dal basso quella zona buia piena di cose immobili, pezzi d’assi, fogli di cellophane quasi pietrificati sotto un velo di calce.

Punto qua e là la torcia. Ma non si vede niente, non ci sono occhi che mi fissino abbagliati dal buio.

Torno di nuovo a letto. Spengo la luce sul comodino. Ma subito dopo mi alzo un’altra volta, perché non mi ricordo se ho chiuso l’anta di legno della finestrella. Muovo qualche passo, a piedi nudi sulle assi del pavimento. Mi affaccio per un istante su queste montagne nere ricoperte di boschi. Guardo un’ultima volta quella lucina accesa dall’altra parte della gola, nel buio.

“Che cosa sarà quella lucina?” mi domando ancora.

Chiudo la finestrella. Torno a letto. Dopo un po’ mi addormento.