Ci sono andato. Questa mattina ho preso di nuovo la macchina e ho raggiunto il paese che l’uomo con la vanga mi aveva indicato.
Non è molto lontano da qui, una ventina di minuti lungo strade strette, a tornanti, asfaltate qua e là e spaccate a fondo per l’erosione. In qualche punto i rami delle piante e le lunghe braccia piene di spine dei rovi sbattono contro i finestrini e il parabrezza. Ma poi la stradina si allarga, arriva fino a un piccolo borgo dove c’è ancora qualche abitante. Prima di entrare in una minuscola piazza, dove erano parcheggiate un paio di macchine e un camioncino con dentro sacchi di calce, un’impastatrice e altri attrezzi, davanti a una piccola casa sopra un pendio, in una zona appena falciata, ho visto una donna araba con la testa e il volto velati, che ammucchiava il fieno con un forcone.
Mi è capitato di vederne altre, nei paesi ancora abitati che ci sono più in basso. Donne e uomini venuti da lontani posti del mondo, in questi paesi e in questi borghi ormai spopolati dove case e ruderi costano poco.
Sono sceso dalla macchina, mi sono guardato attorno. C’erano due vecchie sedute su una panca di legno, con le facce cotte dal sole e piene di rughe, le teste rasate, che mi fissavano immobili.
Mi sono avvicinato, ho detto che cercavo un uomo che si occupava di presenze aliene.
All’inizio non hanno capito. Ho dovuto ripeterlo due o tre volte, aiutandomi con le mani e le braccia.
Una delle due scuoteva ininterrottamente la testa, come per il Parkinson.
«Ma sì... gli extraterrestri, quelli che vengono da altri mondi, le luci nel cielo...» insistevo.
Hanno finalmente capito. Mi hanno indicato dove potevo trovarlo, parlando concitatamente e interrompendosi l’un l’altra nel loro dialetto aspro, gridato.
Mi sono messo a cercare quel posto. Bisognava uscire dal borgo e imboccare un tornante in salita. Si vedevano ogni tanto, stampate sopra l’asfalto, le sagome di qualche rana o di qualche biscia schiacciate, perché potevano passare ancora le macchine, per quella strada, e c’era un altro piccolo borgo finale, più in alto. Nelle lingue di terra comprese tra le strette curve dei tornanti, si cominciava a vedere qualche mucca isolata che brucava, qualche capra.
Sono arrivato fino a uno spiazzo, scavato qualche metro sotto il livello della strada, dove un uomo in stivaloni di gomma stava sbadilando una montagna di letame.
“No, non può essere quello lì!” mi sono detto.
L’uomo ha alzato la testa, quando mi ha visto. È rimasto con il badile a mezz’aria, ancora pieno del letame che stava caricando su una carriola lì a fianco, dopo averlo staccato dalla montagna.
Ho cercato di fargli capire chi stavo cercando. Ma non sentiva. Gliel’ho gridato più forte, perché eravamo a una certa distanza.
L’uomo ha scaricato la badilata nella carriola. Ha conficcato la vanga nella parte viva del letame intaccato, mentre il resto della montagna era tutta ricoperta di erba e anche di vegetazione più alta.
Mi ha fatto un gesto brusco con la mano, per dire di avvicinarmi.
Ho cominciato a scendere verso lo spiazzo. Un cane è sbucato improvvisamente, da qualche parte, mi è corso incontro cominciando a saltarmi contro le gambe, come per impedirmi di proseguire. Mentre l’uomo, ancora fermo vicino al mucchio di letame, mi ripeteva quel gesto brusco.
Continuavo a scendere, col cane avvinghiato a una gamba. Quando sono arrivato giù, l’uomo ha preso da terra un rametto, ha frustato due o tre volte il cane, che si è staccato di colpo.
C’era un gran tanfo, di letame e di piscio, e un nugolo di mosche e tafani che bisognava allontanare continuamente, con tutte e due le mani.
Ho guardato l’uomo. Stava fermo di fronte a me. Anche lui mi guardava. Aveva i calzoni induriti per il letame e una maglietta sporca, strappata sul petto. Era più giovane di quanto mi era sembrato da lontano, completamente calvo ma con una corona di capelli biondicci lunghi fino alle spalle, le orecchie a sventola, il mento aguzzo, la bocca a taglio, dagli angoli girati verso l’alto.
Ho provato a dire ancora qualcosa: perché mi trovavo lì, se era lui la persona che si occupava di presenze aliene. Gli ho accennato anche a quella lucina.
L’uomo continuava a guardarmi e non rispondeva, non sembrava neppure in grado di rispondere. Solo, di tanto in tanto, emetteva dei versi rauchi, oppure improvvisamente acuti, che non sembravano neppure umani, mentre il cane continuava a fissarci a distanza, muovendo la testa per guardare prima me e poi il suo padrone.
“Cosa ci faccio qui?” mi passava intanto per la testa.. “Questo non sa neanche parlare!”
D’un tratto l’uomo mi ha fatto cenno di seguirlo, si è avviato verso il varco di una costruzione di pietra e di legno che doveva essere una stalla.
Lo seguivo, camminando su quel terreno ricoperto di letame fradicio, continuando a scacciare mosche e tafani con la mano, e intanto vedevo di fronte a me la sua magra schiena e le sue gambe che ballavano in quei larghi calzoni legati alla cintura con una corda, rigidi come un’armatura, la sua nuca calva da cui spiovevano i lunghi capelli unti e diritti.
Siamo entrati nella stalla. Tre o quattro mucche hanno girato contemporaneamente le grosse teste verso di noi, per guardarci. Ci hanno osservato per un po’ prima di voltarsi di nuovo e di riprendere a masticare.
L’uomo si è fermato di fronte a un tavolaccio ingombro di corde sfilacciate e di secchi. Ha sollevato una spessa coperta lacera e sporca che ricopriva qualcosa. Un secondo dopo, con enorme stupore, ho visto di fronte a me il video di un computer. Di quelli al plasma, ultrapiatti.
L’uomo ha cercato la tastiera, che era finita sotto il groviglio di corde. Si è seduto su un piccolo sgabello per la mungitura, con una sola gamba. Ha acceso il computer.
Lo guardavo trattenendo il respiro, in piedi dietro di lui, dietro l’uovo della sua giovane testa calva che vibrava un po’ perché le sue mani sporche di letame avevano già cominciato a digitare sulla tastiera.
«Dove ha detto che la vede, quella lucina?» mi ha chiesto improvvisamente, senza girarsi, senza smettere di digitare.
Sono rimasto sbalordito, perché fino a un secondo prima quell’uomo si era espresso soltanto a versi, sembrava incapace di parlare, e invece adesso, arrivato di fronte al suo computer, stava esprimendosi con scioltezza, soltanto con uno strano accento che non mi sembrava di queste parti, come di uno che venisse dall’Albania, dai Balcani.
“Ce ne sono...” pensavo confusamente “che arrivano qui anche dai paesi slavi, dalla Romania, dall’Ucraina, oppure dalla Macedonia, dal Montenegro, dall’Albania, in queste zone spopolate dove fanno i pastori o tengono le stalle. Qualche volta bruciano i boschi per allargare i pascoli, e allora li cacciano via a bastonate e loro si spostano con le greggi in una zona vicina...”
L’uomo adesso si era girato verso di me. Aveva aperto una videata piena di puntini luminosi che palpitavano sullo schermo buio. Me la stava indicando con la mano perché la guardassi.
«È la mappa di tutti gli avvistamenti in questa zona» mi ha detto con la sua lingua improvvisamente fluente, con quel suo accento straniero. «La tengo aggiornata. Ho monitorato tutto il territorio. Qui ci sono avvistamenti continui, presenze aliene...»
«Mah... non lo so...» ho provato a dire. «Non è detto che si tratti di questo... Ho solo parlato di una lucina che si accende in un posto dove non dovrebbe esserci nessuno...»
L’uomo mi guardava con la testa girata, sempre seduto sul suo sgabellino mobile, coi suoi occhi chiari, quasi bianchi, e intanto la sua bocca era sempre girata all’insù, come in un sorriso fisso, stampato.
«Com’è questa luce?» mi ha chiesto.
«È difficile dire... Non è proprio una luce, è una lucina... Però certe volte mi sembra brillare più intensamente nel buio, si allarga un po’, si dilata. Ma forse è solo un effetto ottico, qualcosa che avviene solo sulla retina, se si continua a fissarla nel buio profondo che c’è di notte...»
Mi ha mostrato con un dito la mappa della zona con i puntini luminosi degli avvistamenti, mi ha chiesto di indicargli il punto esatto dove vedo quella lucina.
Ho fatto un po’ di fatica a trovarlo. Ma poi, aiutandomi con i nomi di alcune montagne e dei paesi, e seguendo le linee tratteggiate di alcune creste più alte a ridosso della piccola gola, ci sono riuscito.
Ha ripreso a parlare, mentre continuava a digitare sulla tastiera muovendo rapidamente il mouse su quel tavolaccio ingombro di ogni cosa, per inserire all’interno del reticolo anche quel nuovo punto luminoso, nel posto esatto che gli avevo indicato.
«Eccolo, è qui!» ha concluso con una specie di sospiro di gioia, posando il dito sporco su quella zona buia del video dove adesso c’era quel punto di luce.
Si è girato verso di me, mi ha guardato con emozione.
«Qui non c’era mai stato nessun contatto!» mi ha detto. «È la prima volta che succede!»
«Non lo so se si tratta di questo...» ho provato ancora a dirgli.
Ma quello non mi dava retta, continuava ad andare per la sua strada.
«Tutti gli altri punti luminosi sono avvistamenti, anche ripetuti, contatti. Questa è una zona molto visitata dagli extraterrestri. Non ci sono basi militari, trasmettitori. Scendono qui perché sono zone disabitate, possono stare tranquilli, non gli danno la caccia coi loro magnetometri, fotocamere, radar, gravitometri, laser, microfoni parabolici, analizzatori di spettro... Quando c’è un nuovo avvistamento vengono subito da me. Contadini, cacciatori, pastori, uomini che stavano spaccando la legna davanti alla loro casa, di notte, vecchie che vivono sole e passano il tempo in piedi dietro le ringhiere dei loro balconi o delle loro finestre, anche quando viene buio, e ispezionano tutto, vedono tutto. Sono le mie sentinelle dislocate sul territorio. E anch’io qui, che vado in giro di notte a raccogliere le bestie per riportarle nella stalla...»
Si è interrotto, perché la mucca più vicina ha sbattuto un paio di volte la coda contro il video del computer cercando di cacciare via i tafani. L’uomo ha colpito la coda con una mano per allontanarla, perché non danneggiasse lo schermo.
«Venga con me!» mi ha detto improvvisamente.
Si è alzato dallo sgabello. Ha ricoperto lo schermo con la vecchia coperta. È uscito dalla stalla. Si è ficcato due dita in bocca e ha fischiato. Il cane è arrivato correndo, con la lingua fuori. Saltava sulle zampe di dietro, si staccava molto da terra, abbaiava.
«Venga! Venga!» continuava a dirmi l’uomo, il ragazzo, difficile dargli un’età precisa.
Si è inerpicato su una salita. I suoi piedi ballavano negli stivaloni di gomma.
Ho cominciato a seguirlo, mentre il cane si era slanciato in avanti, aveva già raggiunto un gregge di capre che stava pascolando a poca distanza.
L’uomo continuava a parlare, o meglio a gridare, perché per l’agitazione aveva ripreso a emettere quei versi incomprensibili, che non sembravano umani.
Siamo arrivati in mezzo al gregge. Il cane ha cominciato a correre ai bordi, abbaiando forte e balzando contro qualcuna delle capre e mordendola sulla zampa, per rendere più compatto il branco. Si sentivano i rumori dei campanacci che suonavano a distesa, mentre tutto il gregge sbandava qua e là per sfuggire alla gioiosa furia del cane.
C’era anche, isolato, un caprone dalle lunghe corna ricurve, che stava brucando le foglioline basse di un albero, in piedi sulle zampe di dietro.
L’uomo si è fermato.
«Anche loro hanno visto!» mi ha detto improvvisamente, in un linguaggio di nuovo comprensibile, umano.
«Hanno visto che cosa?» gli ho chiesto.
«Loro.»
«Loro chi?»
«Gli extraterrestri! Gli alieni!»
L’ho guardato. Anche lui mi guardava, con i suoi occhi grigio chiaro, quasi bianchi, la bocca dagli angoli rialzati.
«Anch’io li ho visti!» mi ha detto ancora.
Lo guardavo senza parlare, tra quell’abbaiare del cane e i rumori dei campanacci, mentre il caprone continuava a brucare le foglioline, con le zampe davanti appoggiate al tronco della pianta.
«Anche loro...» mi ha detto di nuovo indicandomi il gregge, e sembrava incapace di parlare per l’emozione.
«Loro cosa?» gli ho chiesto ancora, perché non capivo cosa stava cercando di dirmi.
Ha deglutito due o tre volte. Si è sbloccato.
«Una notte...» ha ripreso a dire con voce improvvisamente fluida «mentre stavo venendo giù da un sentiero con le capre, per riportarle dentro la stalla, ho visto salire su da un vallone una luce come non ne avevo mai viste. “Che luce sarà?” mi sono chiesto, perché qui siamo in una zona di faglia e si possono verificare fenomeni di geoluminescenza determinati da energia emessa dalla superficie terrestre. Le capre si sono messe a correre giù dal vallone, attirate da quella luce nel buio. Quando sono arrivato anch’io ad affacciarmi al rialzo del precipizio, ho visto sotto di me un globo accecante di luce. Ho chiuso gli occhi, perché avevo paura di diventare cieco. Era enorme. Stava sospeso appena al di sopra del suolo come un immenso uovo di luce senza guscio. Mi sono coperto gli occhi con la mano, ma ci vedevo lo stesso. Mi sembrava che quella luce accecante si riaccendesse continuamente anche se era già accesa, come se si aprisse qualcosa dentro tutta quella luce, da cui veniva fuori altra luce. Le capre correvano sempre più forte lungo lo strapiombo, verso quella porta di luce che si era aperta dentro la luce. Ci sono entrate di corsa, una dopo l’altra. È entrato anche il cane che le inseguiva, anche il caprone. Il rumore dei campanacci non si sentiva più. Mi sono messo a correre anch’io dietro il mio gregge, per cercare di riprendermelo. Ma, quando sono arrivato più vicino, quella porta di luce si è chiusa improvvisamente. L’uovo si è sollevato nell’aria, con tutta quella luce che non si poteva guardare. Poi è scomparso, ma non piano piano, di colpo, come risucchiato dentro qualcosa che non si vedeva, che c’era ma che non si vedeva.»
«Cosa può essere successo? Dove può essere andato?» ho provato a dire, perché l’uomo aveva smesso di parlare, e mi guardava in attesa che dicessi qualcosa anch’io.
«Mah... chi lo sa... uno spostamento nell’iperspazio, una finestra, teletrasporto...»
Lo guardavo con gli occhi sbarrati, guardavo quell’uomo giovane e calvo che parlava con un forte accento straniero, che un momento prima emetteva dei versi e un momento dopo, quando parlava di presenze aliene, ricominciava a esprimersi in modo fluido, come se fosse una persona completamente diversa da quella di un secondo prima.
«Adesso cosa farò? mi disperavo tornando verso la stalla» ha ripreso a dire. «Senza più il gregge, senza più il caprone, senza più il cane... La notte dopo sono tornato là... Non c’era più quell’uovo di luce, però il mio gregge e il mio cane erano là ad aspettarmi. Il cane abbaiava di gioia quando mi ha visto arrivare. Le capre mi correvano incontro con i loro campanacci che suonavano a distesa. Si sa, sono bestie stupide, le capre. Se poi sono stupide, se poi sono bestie...»
E intanto mi indicava con la mano il gregge, che continuava a correre zigzagando qua e là sotto gli assalti del cane, che voleva mostrare la sua bravura al padrone, e forse anche a me, mentre il caprone, indifferente, un po’ staccato, continuava a brucare sollevandosi sempre più sulle zampe posteriori e allungando il corpo e il collo per raggiungere le foglie più in alto.
«Cosa sarà successo? Perché me le hanno restituite?» si stava domandando l’uomo. «Dove le avranno portate? Saranno ancora le stesse capre di prima?»
Ci siamo guardati senza parlare. Il caprone ha smesso improvvisamente di brucare, è ritornato su quattro zampe e ha cominciato a correre lungo il sentiero, a balzi incredibilmente alti, leggeri, sui suoi zoccoletti spaccati, sollevando molto il dorso e inarcando il corpo, e non sembrava possibile che un animale così grande e così pesante potesse muoversi con una simile leggerezza.
Quando me ne sono andato, l’uomo mi ha salutato da lontano con i suoi soliti versi.
“Non c’è niente! Non c’è niente!” mi dicevo tornando con la macchina lungo quei tornanti sempre più stretti e deserti man mano che mi avvicinavo al luogo dove vivo. “C’è solo, da ogni parte, questo disperato pullulare di vita e morte attraverso il tempo, lo spazio, questo disperato fantasticare...”
Adesso sono qui. È molto buio. È notte fonda. Sto guardando quella lucina.
“Andrò là!” mi dico improvvisamente. “Andrò a vedere che cosa c’è in quel punto!”
Mi alzo dalla seggiola di ferro, vado a chiudere le ante, le sento scricchiolare sui loro cardini arrugginiti, in questo posto deserto dove non c’è anima viva. Mi spoglio. Mi corico sul letto che cigola un po’ a ogni mio movimento. Resto con gli occhi spalancati nel buio, in attesa del sonno.