È passato un giorno. Durante la notte il vento ha portato via le nuvole nere che gravavano da tutte le parti e il cielo si è aperto.

Sono andato a prendere la macchina. L’ho portata fuori da quella stretta stalla dai muri e dalle travi ancora impregnati dell’odore delle bestie che ci vivevano dentro.

“Come farò a trovare quel posto?” mi dicevo scendendo verso il fondo della gola, lungo quella stradina asfaltata, e poi risalendo per un po’ dall’altra parte, in cerca di qualche altra piccola strada, o almeno di un sentiero che mi potesse avvicinare al possibile punto del crinale dove di notte vedo brillare quella lucina.

Salivo piano. C’erano continui tornanti, così stretti che davano un leggero senso di vertigine. Guardavo verso l’angolo in alto del parabrezza, per non perdere di vista il possibile punto del crinale e dei boschi da dove di notte filtra fino a me quella piccola luce. Alcuni uccelli attraversavano di tanto in tanto la strada, volando basso, quasi all’altezza del parabrezza, per osservare chi stava penetrando nel loro regno.

D’un tratto, dopo una serie di tornanti ancora più stretti e dall’asfalto tutto tagliato e franato, mi è parso di scorgere l’imboccatura di una stradina, poco più che un sentiero. Ma me ne sono accorto troppo tardi, tanto era stretta e seminascosta dalla vegetazione, e così l’ho superata.

Ho frenato. Sono tornato indietro per una decina di metri. Ho imboccato il sentiero e, subito dopo, mi sono fermato.

Sono sceso, per cercare di capire se potevo proseguire in macchina o se dovevo andare a piedi.

Mi sono guardato attorno. Il sentiero era chiuso da ogni lato dalla vegetazione, che aveva invaso gran parte della carreggiata. Però il fondo era abbastanza largo e c’erano persino piccole porzioni di asfalto qua e là, invase dall’erba e dai rovi, segno che un tempo era una piccola strada. Venivano dall’alto i brevi urli allarmati degli scoiattoli.

Sono risalito in macchina. Ho guardato per un po’, attraverso i vetri del parabrezza, quel mondo sconosciuto dove mi stavo addentrando, senza sapere che cosa fare, se avviare il motore o se proseguire a piedi, tanto più che non sapevo neppure se quel sentiero portava davvero fino al punto del crinale da dove veniva quella lucina.

Ho riacceso il motore, ho ingranato la marcia. La macchina ha cominciato a muoversi piano su quella strisciolina di strada. Si sentivano, in quell’assoluto silenzio vegetale, piccoli versi venire dall’alto, dalle cime degli alberi e anche dal cielo, il rumore di qualche ramo che si spezzava sotto le ruote, di qualche cespuglio basso o di qualche rovo pieno di spine che si allungava fino ad attraversare raso terra il sentiero.

Sono andato avanti così, per un po’, a passo d’uomo. Ogni tanto il viottolo si allargava leggermente, passando sotto qualche albero più grande dove non cresceva l’erba, e poi riprendeva a risalire in mezzo alle due branchie di bosco che si stringevano di nuovo attorno al cofano della macchina.

Ho acceso i fari, anche se era giorno, perché in alcuni punti il buio era così fitto che quasi non ci vedevo.

Una volpe ha attraversato il sentiero, con la sua lunga coda abbassata nella corsa. Ha girato per un istante la testa, abbagliata, prima di scomparire di nuovo in mezzo al fogliame.

Il sentiero continuava a salire verso il crinale. C’erano momenti in cui la vegetazione si apriva e il sole filtrava. Ho visto d’un tratto di fronte a me un piccolo ponte d’assi gettato sopra un torrente che correva pieno di schiuma tra le pietre, fischiando. L’ho oltrepassato piano, con le ruote quasi ai suoi bordi. Ho ripreso a salire, anche se non sapevo dove stavo andando, se si poteva tornare indietro attraverso quello stretto sentiero, se c’era da qualche parte un punto dove fare manovra e invertire la marcia.

Poi il sentiero si è interrotto di colpo. Alcuni grandi alberi spezzati erano piombati giù e tagliavano in diagonale la strada. Non era più possibile proseguire in macchina.

Mi sono fermato. Sono sceso. Mi sono guardato attorno, nel piccolo slargo attraversato da quelle grandi forme ormai scortecciate. Lunghe schegge acuminate si levavano dai punti dove erano state spezzate, forse da un fulmine, forse dal vento, forse dal loro stesso peso.

Le ho scavalcate. Ho proseguito a piedi, per il sentiero ancora più stretto che continuava subito dopo. Mi sembrava di non essere molto lontano dal crinale, se poi era lo stesso che vedevo dalla mia casa, se non mi trovavo in un posto completamente diverso, in mezzo a quelle montagne tutte piene di canaloni e di precipizi e di gole.

Non ero lontano, infatti, ero già sulla cima del crinale, perché il sentiero non saliva più. Adesso camminavo in piano, ma il paesaggio non si vedeva, non si vedeva niente, solo alberi, vegetazione e rovi che premevano da ogni parte attraversando il sentiero con i loro tentacoli vegetali, i loro uncini, le loro radichette e le loro pinze.

Però c’era ancora un accenno di sentiero che conduceva da qualche parte. Scorgevo persino segmenti di filo spinato abbattuti e sprofondati dentro il terreno, qualche mattone scolorito e spaccato e qualche pietra, segno che lì doveva esserci stata un tempo una casa o un rudere per le bestie.

Continuavo a camminare. La luce del mondo non si apriva, il cielo non si vedeva tanto il crinale era sovrastato dal bosco.

D’un tratto, ancora nel fitto della vegetazione, è apparsa all’improvviso di fronte a me una casina di pietra.

Mi sono arrestato.

“È qui! L’ho trovata!” mi sono detto col cuore in gola. “Sarà da qui che filtra quella lucina che vedo di notte dalla mia casa, quando mi siedo sulla seggiola di ferro e guardo dall’altra parte della gola. Da una lampada di fronte alla porta, da qualcuna delle sue finestrelle...”

Ma non c’erano né finestre né porte. Solo muri ciechi di pietra che la chiudevano da ogni parte.

“Com’è possibile! Che casa è questa?” ho pensato.

Subito dopo ho capito che mi trovavo sul retro, che dovevo girarci attorno per raggiungere l’entrata.

L’ho costeggiata, sono arrivato davanti.

La porta c’era, ed era anche aperta.

C’era dentro un bambino in calzoncini corti, con la testa rasata, in una cucina. Teneva sollevata con le piccole braccia una nuvola di lenzuola, che stava andando a mettere in un mastello.

Mi sono arrestato per l’enorme stupore.

Anche lui si è arrestato, con la nuvola di lenzuola tra le piccole braccia.

Ci siamo guardati senza parlare. Il bambino aveva gli occhi spalancati, grandi, rotondi. La bocca aperta da cui spuntava un dentino rotto.

«E tu chi sei?» ho provato a dire.

Non mi ha risposto.

Mi continuava a guardare con i suoi grandi occhi spalancati, rotondi. La piccola testa rasata spuntava appena dalla nuvola delle lenzuola.

«Cosa stai facendo? Il bucato?» ho balbettato ancora, perché non sapevo che cosa dire.

«Sì» mi ha risposto dopo un attimo di esitazione, con la sua vocina.

«Perché fai il bucato?»

È arrossito improvvisamente.

«Faccio la pipì a letto!» ha detto abbassando la testa per la vergogna. «Devo sempre lavare le lenzuola perché se no puzzano.»

Lo continuavo a guardare senza fiatare.

«Ma le lavi tu?»

«Sì.»

«Non le lava la tua mamma?» gli ho chiesto.

«Non c’è la mamma.»

«E il papà?»

«Non c’è neanche lui.»

«Vivi qui da solo, in mezzo al bosco?» gli ho chiesto sbalordito. «Non ci sono i tuoi genitori?»

«No.»

Ero fermo in piedi, impalato, davanti alla porta.

«Sei tu che tieni accesa la luce, di notte?» gli ho chiesto.

È rimasto per qualche istante in silenzio.

«Sì!» ha detto abbassando la testa.

«E perché?»

«Ho paura del buio.»

Continuavo a stare impalato davanti alla porta, mentre il bambino aveva ripreso a guardarmi con la nuvola di lenzuola premuta contro la guancia.

«Vuoi che ti aiuti?» ho provato a dire.

«No, ti ringrazio» ha risposto, con la sua piccola voce.

Non sapevo più cosa dire. Il bambino stava tutto inclinato di fronte a me, un po’ sbilanciato dal peso delle lenzuola.

«Posso fare qualcosa per te?» mi è venuto di chiedergli ancora.

«No» mi ha risposto.

Avrei voluto domandargli se potevo entrare, ma capivo che era meglio di no, tanto più che il bambino si era mosso, mi aveva già girato la schiena, aveva già lasciato cadere la nuvola di lenzuola nel mastello pieno di acqua insaponata, affondandocela dentro più volte con le sue piccole mani.

«Scusami, ma in questo momento ho molto da fare...» mi ha congedato con gentilezza.

Mi sono girato. Ho cominciato a camminare verso il punto dove avevo lasciato la macchina, girando intorno alla casa e poi imboccando quel sentiero invaso dal bosco, e intanto sentivo le pietre e i piccoli rami scricchiolare sotto i miei passi.

Sono arrivato fin dove c’erano quei tronchi spezzati. Li ho scavalcati. Sono salito in macchina. Ho acceso il motore.

“Ma sì, l’ho trovata!” mi dicevo riprendendo a spostarmi piano lungo quel sentiero stretto attraversato dai rovi che colpivano parabrezza e portiere con i loro lunghi rami pieni di spine, come fruste. “È da lì che viene quella lucina! Da quella finestrella che c’è in alto, al primo piano, sopra la cucina... Riesce evidentemente a filtrare attraverso gli alberi, da qualche punto dove i rami sono più distanti tra loro, il fogliame più rado. L’accende dall’altra parte della gola quel bambino che vive da solo in mezzo al bosco, in calzoncini corti da cui spuntano quelle magre gambette. Però che strano... Non li mettono più i calzoncini corti, da un bel po’ di tempo, i bambini!”