Non mi ero sbagliato. Sta succedendo qualcosa di enorme nel cielo, dentro quei piccoli cervelli di pochi grammi che attraversano lo spazio come frecce, in tutto quel brulicare di ali che scompigliano l’atmosfera.

Le rondini si stanno preparando a migrare.

In apparenza continuano a fare la loro solita vita. Volano all’impazzata, come sempre, lanciando grida. Solcano il cielo a becco spalancato per inghiottire badilate di insetti. Sbucano come sempre dai loro mille nidi invisibili, aerei, nelle grondaie arrugginite e bucate, nei fori tra le pietre e sui tetti sfondati di questo borgo fuori dal mondo di cui hanno preso possesso. Piombano a volo radente, come sempre, sul filo d’acqua delle vasche, rischiando di sfracellarsi sui loro spigoli di pietra, le rondini adulte e quelle altre nate da poco che stanno imparando i loro primi, piccoli e folli voli. Eppure, eppure... c’è una frenesia nuova, una concitazione nuova, un impazzimento più grande nel loro comportamento. Si incrociano in punti molto alti del cielo, stridono ancora più forte. Chissà che cosa si stanno dicendo? Chissà cosa sta succedendo tra quelle nuvole di corpicini in volo? Qual è la scintilla che ha dato inizio a tutto quanto? Come si creano le prime aggregazioni lassù nello spazio, nei primi voli sempre più gremiti che cominciano a ruotare su questi ruderi deserti che stanno per essere abbandonati, senza che forse neppure loro ancora lo sappiano? Scendono in picchiata sempre più numerose sopra le vasche, come se stessero facendo riserva d’acqua prima del lunghissimo viaggio verso chissà dove, sbucando dal voltone basso e dalla curva della stradina come frecce e tuffandosi sul filo dell’acqua a becco spalancato, stridendo, sbattendo sulla sua superficie immobile con la punta delle loro lunghe ali impazzite. Chissà se lo sanno dove andranno? Se almeno qualcuna di loro lo sa e riesce a comunicarlo alle altre, oppure se si inventano il viaggio mentre sono già in viaggio, in quei primi cerchi sterminati pieni di miriadi di cervellini di pochi grammi che attraversano da ogni parte il cielo del mondo, così fitti che non si capisce come fanno a muovere là dentro tutte quelle ali?

Si fermano sempre più numerose sugli spigoli delle vecchie case diroccate, sui bordi dei tetti, su qualche vecchio filo rimasto. Poi si alzano di nuovo in volo. Sembra che stiano riprendendo la vita di tutti i giorni, sembra che niente sia cambiato, che non sia in vista nessuna partenza, che chissà per quale ragione sia stata rimandata, per qualche impercettibile modificazione della temperatura e della composizione dell’aria che solo loro hanno percepito immediatamente, vivendo così in alto, nel cielo. Sembrerebbe ancora presto per partire. È ancora estate. Invece, il giorno dopo, tutto questo incredibile impazzimento riprende. Si riformano nuovi stormi più grandi, ricominciano a volare sfrangiati nel cielo, per attirare a sé le altre rondini ancora isolate. Ma subito dopo si sciolgono di nuovo, in pochi istanti ognuna prende una direzione diversa. Però più in alto, ancora più in alto, si stanno riformando altri stormi. E poi altri ancora. Finché si vedono all’improvviso le prime grandi nuvole sterminate brulicanti di rondini urlanti che si lanciano verso quel folle viaggio di cui non conoscono neanche la meta.

Lo hanno capito prima di tutti gli altri, là in alto, che qualcosa sulla terra è cambiato, che sta succedendo qualcosa di enorme, che l’estate sta finendo, che fra un po’ il cielo e la terra non saranno più gli stessi, comincerà l’autunno, l’inverno.

Questa mattina, quando sono andato a prendere la macchina nella stalla, ho visto uno strato di rondini nereggiare su tutto, sui pochi fili e sui tetti, sulle punte delle canne secche ancora conficcate nei terreni dove un tempo c’erano gli orti, come se fossero tutte là per salutarmi prima di prendere il volo.

Sono sceso, piano, per guardarle ancora un po’. Sono arrivato fino al paese. Ho camminato lungo le sue stradine, senza pensare a niente. Sono arrivato fino al negozio. Non c’era nessuno, stavolta. Solo quella vecchia che stava spostando dei sacchi di sementi. Ho preso della pasta, un po’ di patate, qualche scatoletta, scegliendo tra quelle col tappo meno arrugginito. Mi coprivo di tanto in tanto il naso con la mano, per il fetore. Grassi gatti, ingozzati di cibo dalla vecchia, erano usciti da chissà dove sentendo il rumore dei miei passi nel negozio vuoto. Hanno cominciato a strofinarsi contro le mie gambe con le loro pance gonfie come palloni. Al momento di pagare e di mettere quello che avevo comperato in un sacchetto di plastica che mi ero portato da casa, ho provato a domandare alla vecchia se per caso in quel paese c’era una scuola.

«Sì, la scuola c’è!» mi ha risposto, in dialetto.

«Una scuola serale...» ho aggiunto dopo un po’, mentre mettevo via le monete di resto.

Si è stupita.

«Che cos’è una scuola serale?» mi ha chiesto.

«Ma sì... dove i bambini vanno di sera invece che di giorno!»

«Mai saputo!» ha risposto. «Sono sempre vissuta qui e non l’ho mai saputo! Io ho sempre visto i bambini uscire di giorno.»

Doveva avere molto prurito alla testa, perché ha cominciato a grattarsela con la punta di un ferro da calza.

«Mi può indicare dov’è questa scuola?» le ho chiesto ancora.

È uscita in ciabatte dal negozio. Mi ha mostrato la strada per arrivarci.

L’ho raggiunta in poco tempo. È una costruzione bassa e lunga, ad angolo, pianterreno e primo piano soltanto, stretta tra le altre case, quasi tutte di pietra. Un edificio di una certa importanza rispetto al resto, coi muri intonacati, costruito probabilmente un secolo fa, quando il paese era più popolato e c’erano più bambini. Sembra paracadutato qui da chissà dove.

Mi sono fermato davanti al portone e ho guardato in su. Le grandi finestre del primo piano erano tutte aperte, ma non si riusciva a vedere se dentro c’erano delle aule.

D’un tratto, da una piccola forma scura che ho visto sfrecciare, ho capito che un bambino col grembiulino nero era passato di corsa davanti a uno dei finestroni.

Ho smesso di respirare per l’emozione.