Ieri notte c’è stato di nuovo il terremoto. Non una sola scossa, più scosse, una di seguito all’altra, della durata di una decina di secondi l’una, ondulatorie.

Mi ero appena addormentato, dopo essere rimasto sveglio per molto tempo nel buio, con gli occhi chiusi, senza pensare a niente. Ma il sonno non arrivava. Almeno così mi pareva, perché non si sa mai bene cosa succede nella nostra mente in quegli stati che precedono il sonno, quando si cade per qualche istante in una specie di catalessi e subito dopo si è di nuovo completamente presenti a se stessi, tornando da qualche parte dove eravamo finiti, anche se non sappiamo quale. Chissà se esistono degli esploratori che si spingono così a fondo in territori sconosciuti che poi, quando tornano indietro, non si ricordano più dove sono stati?

Pochi secondi dopo che mi ero finalmente addormentato, o almeno così mi è parso, perché il tempo non c’è più quando si sta là in mezzo, in quello stato, il letto ha cominciato a tremare sotto di me. Si è sentito quel leggero, impressionante boato che non si sa poi se si sente davvero o se è solo una percezione dell’enorme fragore di rocce e di terre che avviene nello stesso istante nella litosfera.

Ho spalancato gli occhi, se non li tenevo già spalancati. Le scosse continuavano senza sosta, una di seguito all’altra, in quell’enorme silenzio. Non grida concitate di persone svegliate nel sonno, nessuna luce che si accendeva improvvisamente, nessun rumore di passi, di gente che fuggiva nella notte, seminuda, in vestaglia, con le coperte gettate sopra le spalle. Solo io, invisibile, a luce spenta, con gli occhi spalancati nel buio, in questo posto deserto, a sentire contro la schiena le vibrazioni della bestia che si stava muovendo sotto la crosta terrestre, con quel leggero senso di vertigine e nausea e perdita di conoscenza.

Mi sono girato, mi sono rannicchiato su un fianco, perché così mi sembrava di sentire meno le scosse. Mi sono tirato il lenzuolo sopra la testa. Le scosse si sono interrotte per un po’, qualche secondo, qualche minuto, forse di più, non saprei dire, non avevo la nozione del tempo. Poi sono riprese. Ce n’è stata una più lunga delle altre, a un certo punto, e si sentivano il letto e il comodino scricchiolare. Veniva da sotto, dalla cucina, una vibrazione sonora sempre più forte, forse i piatti e i bicchieri che stavano tintinnando scontrandosi nello scolapiatti.

“Adesso viene giù tutto!” ho pensato rannicchiandomi ancora di più sul fianco e coprendomi istintivamente la testa con un braccio ripiegato.

Presentivo i primi boati della casa che si squarciava, le pietre quasi senza più calce che si separavano le une dalle altre e si disarticolavano, le tegole del tetto che si staccavano e cadevano, i primi pezzi di travi che cominciavano a piombare giù e a colpirmi la testa, a spaccarmi le costole, le ossa del bacino, delle gambe, le gengive, la chiostra dei denti, a sfondarmi il cranio con dentro quella povera materia cerebrale che continuava a pensare e a soffrire nella sua disperata prigione di ossa rotte e di pietre. Non riuscivo quasi più a respirare per la polvere e per i polmoni schiacciati sotto le costole rotte. Morivo da solo, in quel sarcofago di calcinacci, lontano da tutti, invisibile, dimenticato, senza riuscire più a muovermi sotto il peso della casa franata, chissà per quanto tempo, senza che nessuno ne sapesse nulla, nelle città del mondo, lontane, illuminate nella notte a perdita d’occhio, respirando sempre più a fatica, col cervello per metà schiacciato, là sotto, chissà per quanto tempo, senza neppure potermi bagnare le labbra in quella terribile disidratazione e in quell’arsura.

Invece, a poco a poco, le scosse sono diminuite. Sono cessate del tutto.

Ho aspettato ancora un po’, perché certe volte sembra tutto finito e poi invece ne arriva un’altra ancora più forte, definitiva. Quando ho capito che erano veramente finite, mi sono girato di nuovo sulla schiena, ho provato a respirare più profondamente, con gli occhi spalancati nel buio.

Mi sono alzato dal letto. Ho camminato a piedi nudi verso la finestrella, e sentivo nell’oscurità i rumori delle ossicine che scricchiolavano posandosi sulle assi del pavimento. L’ho aperta. Ho aperto anche la piccola anta di legno che c’è all’esterno. Ho guardato per un po’ le cime delle montagne e i boschi neri che ci sono tutt’intorno. Anche il cielo era tutto nero. Non un verso di animali notturni. Silenzio totale. Tutto il mondo attonito, dopo quelle violente scosse che avevano sentito anche là, tra quel nero fogliame, gli animali acquattati nelle loro tane, anche quelli minuscoli, ciechi, e anche gli alberi, anche le radici che sono le prime a sostenere quello spaventoso smottamento di faglia, con le loro terminazioni sempre più sottili che arrivano molto in fondo e sentono prima di ogni altro con quelle invisibili criniere cerebrali capovolte tutto il mondo che sta venendo giù all’incontrario.

Ho girato gli occhi verso l’altro crinale.

Quella lucina era ancora là, come se niente fosse successo. Filtrava tra il bosco, nella notte, nel buio.

“Chissà se avrà sentito anche lui il terremoto!” mi sono chiesto.