Oggi il bambino, per la prima volta, mi ha fatto entrare.

Sono arrivato là all’inizio del pomeriggio. Prima di scendere dalla macchina ho tirato su i finestrini, perché la volta precedente li avevo lasciati aperti e, quando ero tornato per ripartire, avevo visto un animale abbastanza grande, probabilmente una volpe, in piedi sulle zampe di dietro, col corpo allungato, per cercare di arrivare col muso aguzzo all’altezza del finestrino e guardare dentro.

È scappata via in un lampo, quando mi ha sentito arrivare, con la sua lunga coda in mezzo al fogliame.

Mi sono avvicinato alla casa. Sono arrivato alla porta. Ho guardato dentro.

Il bambino non c’era.

Non sapevo che cosa fare. Non potevo chiamarlo, perché non conoscevo neppure il suo nome.

La porta era aperta, ma non me la sentivo di entrare senza averne avuto il permesso.

Così mi sono seduto sulla panca rotta che c’è lì a fianco e ho aspettato.

Dopo un po’ ho sentito un leggero rumore di passi che scendevano dalla scala di legno, molto distanziati perché i gradini erano alti per le sue piccole gambe.

Mi sono alzato in piedi, mi sono girato verso la porta.

Il bambino, passo dopo passo, è arrivato fino in fondo alla scala. Quando mi ha visto, ha spalancato gli occhi, è venuto quasi di corsa verso di me. È arrivato fin quasi alla porta. Poi si è fermato.

Mi guardava. Aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto.

«Cosa succede?» gli ho chiesto.

È rimasto in silenzio. Ma tremava un po’, combattuto tra l’impulso di dirmi qualcosa e quello di tacere.

Poi si è girato. È andato a prendere una spugnetta abrasiva nel secchiaio, ci ha versato sopra qualche goccia di detersivo liquido e si è messo a pulire l’interno del forno.

Lavorava là dentro con tutte e due le mani, si sentiva che stava sfregando forte con la parte abrasiva della spugnetta e che poi, con l’altro lato, portava via il sapone.

«Usi anche il forno?» gli ho chiesto stupito, in piedi dietro la porta aperta.

«Sì, certo!» ha risposto, a quattro zampe di fronte al forno, con la testa dentro la portella spalancata.

«E cosa fai?»

«Oh, tante cose...»

La sua vocina mi arrivava un po’ sfalsata dall’interno.

«Non è possibile!» mi è sfuggito.

Il bambino ha tirato fuori la testa dal forno.

Sembrava offeso.

«E cosa fai, per esempio?» gli ho chiesto ancora.

«Oggi ho fatto una torta di patate!» ha esclamato.

«Non ci posso credere!» mi è sfuggito di nuovo.

Il bambino si è alzato. È andato verso la credenza. Ha sollevato un tovagliolo aperto su un piatto.

C’era dentro una torta.

Ha preso il piatto. È venuto verso di me reggendolo tra le sue piccole mani.

«Vuoi assaggiarla?» mi ha chiesto.

È così che sono entrato.

Ho fatto un passo all’interno, trattenendo il respiro. Mi sono guardato attorno, in quella cucina dove tutto era in ordine: la tavola sparecchiata, i piatti lavati e tutti ben allineati nello scolapiatti, le posate in piedi nel portaposate, perché si asciugassero bene, uno strofinaccio ripiegato sullo schienale di una delle seggiole di legno, un altro appeso a un piccolo chiodo, vicino al secchiaio.

Ha appoggiato sul bordo del tavolo il piatto con la torta.

«Senti com’è buona!» mi ha detto ancora.

Mi sono chinato a guardarla. Ne mancava una fettina, che doveva aver mangiato il bambino.

Ho preso il coltello che c’era vicino, ne ho tagliata una fetta e me la sono portata alla bocca.

Ho cominciato a masticarla piano, con enorme emozione. Sentivo all’interno della mia bocca la sua consistenza che si sbriciolava sotto i denti, contro il palato e la lingua.

«È molto buona!» gli ho detto alla fine.

«Hai visto?» mi ha risposto, contento.

Mi sono guardato di nuovo attorno, nella cucina. C’era anche un camino, dietro l’angolo di una parete, che da fuori non si poteva vedere, dei pezzi di legna ammucchiati vicino e una cassetta piena di fascine spezzate.

«Hai anche il camino!» gli ho detto. «E lo accendi?»

«Certo!» ha risposto. «Quando c’è freddo.»

Rispondeva a tono, però capivo che aveva in mente tutt’altro, era preso da qualche preoccupazione da cui lo avevo distolto arrivando.

«Mi fai vedere la tua casa?» gli ho chiesto.

È rimasto in silenzio per qualche istante.

«Va bene...» ha detto alla fine, con un sospiro.

Si è girato. Ha cominciato a salire le scale di legno, sollevando molto in alto a ogni passo le sue piccole gambe che spuntavano dai calzoncini corti, per riuscire ad arrivare ai gradini.

Lo seguivo senza fiatare, vedevo davanti a me la sua schiena e la sua testolina rasata che avanzavano in silenzio lungo le scale.

Siamo arrivati al piano di sopra.

C’era un unico stanzone che si abbassava ai lati, dove il tetto spioveva, un lettino di ferro dalle lenzuola ben ripiegate, con due ciabattine vicino, un pavimento d’assi, un comodino di legno. Nient’altro.

«Una sola stanza...» ho mormorato. «Forse era un fienile, una volta...»

«Un uomo ci teneva le castagne, mi hanno detto.»

Ho guardato improvvisamente il bambino.

«Chi te l’ha detto?»

Non mi ha risposto.

Mi guardavo attorno, in quella grande stanza nuda.

«Non c’è neanche il gabinetto!»

Il bambino ha fatto un gesto con la mano.

«Vado nel bosco» ha risposto.

Sentivo il rumore dei miei passi sopra le assi, mentre mi spostavo verso l’unica finestrella dello stanzone.

Ho guardato fuori. Si vedeva solo quella vastità vegetale disabitata e coperta di boschi. Il mio borgo non si vedeva. Però, a guardare bene dall’altra parte della gola, si scorgeva uno spigolo della mia piccola casa che spuntava dalla vegetazione.

Mi sono girato verso il bambino.

«La vedi anche tu, quando c’è buio, la lucina di quella casa che c’è là in fondo?»

Ha esitato un po’ prima di rispondere.

«Sì» ha detto infine, in un soffio.

Tremavo un po’, in quello stanzone vuoto, di fronte al bambino che mi guardava in silenzio, dal basso, con i suoi occhi gonfi, rotondi.

«Ecco, adesso hai visto tutto!» mi ha detto sottovoce, prima di girarsi e di cominciare a camminare verso la scala.

L’ho seguito. Abbiamo imboccato la rampa, lui davanti, io dietro. Scendeva molto piano, per la sproporzione tra le sue gambine e i gradini, un po’ di sbieco, puntellandosi alla parete con la piccola mano.

Quando siamo stati di nuovo in cucina, il bambino, senza dirmi niente, ha tirato fuori i quaderni dalla cartella, li ha aperti sul tavolo, ci si è seduto davanti.

Non sapevo che cosa fare, se potevo restare ancora lì o se quello era il segnale che me ne dovevo andare.

Lo guardavo mentre, a capo chino, con gli occhi ancora un po’ rossi e un po’ gonfi, spalancava bene il quaderno, passandoci e ripassandoci sopra più volte, dal basso verso l’alto, col palmo della manina.

«Sei sempre solo!» non ho potuto impedirmi di esclamare ancora.

«Ci sono abituato» ha risposto senza alzare la testa.

Ha cominciato a temperare una matita, sempre più piano, sempre più piano, e intanto si morsicava le labbra.

«Ieri mi hanno messo dietro la lavagna!» ha esclamato d’un tratto, incontrollabilmente.

Ero in piedi, impietrito.

“Allora è per quello che, quando sono arrivato, ci ha messo così tanto a scendere!” pensavo. “Stava piangendo per l’umiliazione, là sopra nello stanzone, da solo...”

Mi sono lasciato cadere sopra l’altra sedia, lì vicino.

«E perché ti hanno messo dietro la lavagna?»

È rimasto per un po’ in silenzio. Tremava.

«Non capisco niente! Non imparo niente!» ha esclamato di nuovo, e si vedeva che stava stringendo i denti e si mordeva con forza le labbra per non scoppiare a piangere di fronte a me. «Non riesco a fare i compiti!»

«Ma allora lascia che ti aiuti!»

Ha scosso due o tre volte la testa, senza guardarmi.

«No, non serve a niente! Il maestro lo capisce se non li ho fatti da solo!»

Lo guardavo, lo guardavo, mentre stringeva i denti e si disperava.

C’è stato un lungo silenzio.

«In paese mi hanno detto che c’è solo la scuola di giorno...» ho balbettato, sottovoce, d’un tratto.

Il bambino ha alzato la faccia verso di me.

«Quella è per gli altri bambini...» ha risposto, guardandomi con i suoi occhi spalancati, rotondi.

«Gli altri bambini? Quali bambini?»

Ha esitato un po’ prima di rispondermi.

«I bambini vivi.»