Sta venendo più freddo. L’aria si comincia a sentire di più, contro il volto. Anche la luce è più fredda, più limpida e fredda. Sta succedendo qualcosa anche tra gli animali grandi e piccoli della terra e dell’aria. Me ne accorgo quando sto seduto di sera o di notte su questo strapiombo, oppure quando cammino per i sentieri tra i boschi. Mi sembra di cogliere dei suoni diversi, una specie di lavorìo, tra le foglie degli alberi sulla mia testa che cominciano a perdere un po’ del loro verde e a disidratarsi, dietro le siepi di rovi da cui provengono rumorini di zoccoli o di piedini felpati che fuggono via al suono dei miei passi, ma all’ultimo momento, come se fossero così occupati in altre operazioni, così assorti con la mente, da accorgersi solo in ritardo della mia presenza. Anche grugniti lenti, irreali, da punti molto vicini.

Continuo ad andare ogni due o tre giorni da quel bambino. Fermo la macchina nel solito posto, vicino a quei tronchi spezzati. Entro senza fiatare nella sua casa. Certe volte gli porto un po’ di spesa, in un sacchetto che poi lui utilizza per le immondizie. Questa cosa non l’ha rifiutata.

«Vuoi fermarti a mangiare con me?» mi ha chiesto inaspettatamente questa mattina, quando sono arrivato.

Ero andato là un po’ più presto del solito, perché non riuscivo a fare nient’altro, non riuscivo a stare da nessun’altra parte.

Ho esitato io, questa volta. Stavo per rispondere di no, ma poi ho visto che il bambino, per la prima volta, mi sorrideva.

Dalle sue labbra, che stavano sempre un po’ aperte forse perché non respirava bene col naso a causa delle adenoidi, spuntava ancora di più quel dentino rotto.

«Come te lo sei rotto quel dentino?» mi è venuto in mente di chiedergli all’improvviso, anche se non c’entrava niente.

«In combattimento!» mi ha risposto, sollevando la piccola faccia in segno di fierezza.

Sono rimasto lì fermo, impalato, senza ancora rispondere al suo invito.

Non sapevo che cosa dire. Rimanevo in silenzio. Anche il bambino mi guardava in silenzio, con i suoi occhi rotondi, serio, allarmato.

«Chi cucina?» gli ho chiesto allora, sorridendo, per rompere quel lungo silenzio.

«Io! Io!» ha esclamato il bambino, correndo verso il piano del fornello e il secchiaio.

Ha cominciato a tirare fuori dal sacchetto le verdure che avevo portato, le ha lavate sotto il rubinetto, in piedi sulla cassetta rovesciata, si è messo immediatamente a tagliarle, velocemente, tenendole ferme con la manina che non maneggiava il coltello.

Mi sono seduto sulla seggiola, girato da quella parte, senza parlare. Guardavo sbalordito le sue manine e le sue piccole unghie che si ritraevano fulmineamente di fronte all’avanzare del coltello che tagliava sempre nuove porzioni di verdura. E poi mentre riempiva la pentola sotto il rubinetto, reggendola sempre più con fatica man mano che si riempiva d’acqua e il suo peso cresceva, in piedi sulla cassetta rovesciata per riuscire ad arrivare al piano del secchiaio, e poi mentre ci buttava dentro la pasta quando l’acqua ha cominciato a bollire, un bel po’ di tempo dopo, perché qui l’acqua ci mette di più a bollire.

«Come ti chiami?» gli ho chiesto d’un tratto.

È diventato improvvisamente serio.

«Non lo so» ha risposto scuotendo la piccola testa rasata.

«Com’è possibile?»

Si è girato a guardarmi, smarrito.

«Si vede che non me lo ricordo.»

«Ma ce l’avrai pure un nome!»

«Non lo so.»

Però capivo che ci stava ancora pensando, che il discorso non era caduto.

Ha girato di nuovo la testa verso di me, dopo un po’.

«I miei compagni di scuola mi chiamano Stucco» mi ha detto, d’un tratto.

«E perché?»

Ha scosso ancora la testa.

«Non lo so.»

Poi, per un po’, mi sono limitato a guardarlo mentre preparava da mangiare di fronte al secchiaio e ai fornelli, in piedi sulla sua cassetta, girato di schiena.

Mi sono alzato, perché era quasi pronto ed era venuto il momento di apparecchiare.

«La tovaglia è là!» mi ha detto indicandomi uno dei cassetti. «L’ho appena lavata e stirata.»

«Perché? Stiri anche?»

«Certo!»

«Con che cosa?»

«Ho trovato qui un vecchio ferro.»

Ho preso la tovaglia dal cassetto, anche dei tovaglioli, tutti ben ripiegati e stirati. Ho aperto la tovaglia, l’ho distesa bene sul tavolo, ho messo i tovaglioli davanti ai due posti. Ho preso i piatti, le posate, i bicchieri, passando con le mani sulla testa del bambino che stava condendo l’insalata in una zuppiera di plastica, per arrivare allo scolapiatti.

«Senti anche tu se la pasta è cotta!» mi ha detto, mentre addentava uno spaghetto tirato fuori dalla pentola con la forchetta.

Ne ho preso uno anch’io. L’ho masticato.

«Sì, è cotta!» gli ho detto.

Ha spento il fuoco, ha sollevato la pentola piena, con fatica, tenendo il manico con tutte e due le mani sopra la testa. Si è girato verso il secchiaio, dove c’era già lo scolapasta.

Mi sono avvicinato a lui. Ho preso lo scolapasta, l’ho sollevato, ci ho rovesciato dentro l’ammasso di spaghetti fumanti, reggendo la pentola anche con la mia mano, li ho fatti cadere in un’altra zuppiera che era già sul piano del fornello.

Il bambino ci ha messo dentro un bel pezzo di burro, staccato con una forchetta da una forma tirata fuori dal frigorifero. Ha cominciato a grattarci sopra il formaggio, con una grattugina piccola e stretta, di quelle che in genere si usano per la noce moscata.

Ho mescolato la pasta, per far sciogliere il burro e il formaggio. Poi ho messo la zuppiera in mezzo alla tavola.

Ci siamo seduti. Abbiamo cominciato a servirci con una forchetta grande e dai denti molto lunghi e distanti, che il bambino aveva tirato fuori dal cassetto delle posate.

Ha finito di mettere la pasta nel suo piatto, io nel mio. Ne è rimasta ancora un po’ dentro la zuppiera.

«Prendila tu!» mi ha detto. «Per me è troppa. Io sono piccolo.»

Abbiamo cominciato ad arrotolare gli spaghetti con le forchette.

Nessuno dei due parlava. Si sentiva solo, nel silenzio, il leggero rumore della masticazione. Scorgevo appena la testa del bambino intento a mangiare. Con emozione, mi pareva.

«È buona!» gli ho detto alla fine.

Ha abbassato un po’ la testa, è arrossito.

Si sentiva di tanto in tanto il rumore dell’acqua che ci versavamo nei bicchieri, da una bottiglia di vetro che il bambino aveva riempito con l’acqua del rubinetto e messo in mezzo alla tavola prima di sederci.

Siamo rimasti un po’ così, con i piatti di pasta vuoti davanti. Poi il bambino li ha portati nel secchiaio. Ci siamo messi un po’ di insalata nei piatti piani. Abbiamo cominciato a mangiarla.

Guardavo il bambino che masticava l’insalata e si rimetteva dentro la bocca con le dita le striscioline che ogni tanto gli sfuggivano dalle labbra. Anche lui mi guardava ogni tanto, senza girare la testa.

Si sentiva il rumore del vecchio frigorifero, ancora di quelli con la maniglia, che ogni tanto si spegneva e si riaccendeva di soprassalto, tremando un po’, come per un piccolo brivido.

«Come sei morto?» gli ho domandato d’un tratto, a bassa voce, in un soffio.

Il bambino ha abbassato la testa. Ha emesso un sospiro.

«Mi sono ucciso» ha risposto, anche lui a bassa voce, in un soffio.

«Perché?» ho provato a chiedergli ancora.

«Mi hanno fatto del male» ha detto soltanto, corrugando la piccola fronte, senza alzare la testa.

Sono rimasto in assoluto silenzio, impietrito, per un po’.

«Sì, lo so, questo è un brutto mondo, per viverci...» ho sentito che la mia voce stava dicendo.

La notte è nera. Il cielo è ancora pieno di nuvole nere. Non si vedono le stelle, non si vede il cielo, mentre scendo lungo quella piccola strada a tornanti che passa vicino al cimitero. Neanche le lucciole ci sono più, la loro breve stagione è finita. Si distinguono appena le enormi sagome nere degli alberi che si stampano contro il cielo. Non si sentono rumori di animali notturni, di quei piccoli rapaci che se ne stanno acquattati in mezzo al fogliame e lanciano chissà perché quel loro grido quando sentono il rumore dei miei passi nel buio. A uno dei lati, oltre una piccola barriera di ferro che hanno messo lì chissà quando, c’è un precipizio su cui corrono dei cavi elettrici che portano la luce ai paesi che ci sono più in basso, facendo un’ansa tra un traliccio e l’altro, sopra una striscia di boschi abbattuti.

Cammino, cammino, per questo movimento di ossa e muscoli che continua ad avvenire nel buio. E di nervi e tendini e di tessuti connettivi e di vertebre e di materia cerebrale che manda gli impulsi per attivare questo movimento che a me sembra involontario, come se avvenisse da un’altra parte. Come se andasse avanti da solo, senza bisogno di ricevere impulsi, mentre il cervello si trova altrove, irraggiungibile, solo, infinitamente lontano, e si limitasse a registrare altri impulsi che ci sono stati chissà perché, chissà quando, su un tracciato di memoria separata, ormai oltrepassata oppure non ancora attivata.

Giro a un altro tornante che esce da una zona più fitta del bosco. Mi appare all’improvviso davanti agli occhi quella piccola colonia di lumini che palpitano nella notte.

Mi avvicino ancora di più. Arrivo fino al cancelletto chiuso con un semplice filo di ferro attorcigliato che si può facilmente srotolare. Mi fermo davanti, guardo per un po’ i lumini sui forni, il piccolo spazio che c’è in mezzo, con quei mucchi di terra senza lapidi e senza nomi.

Apro il fermaglio di filo di ferro. Entro nel piccolo cimitero. Muovo alcuni passi tra quei cumuli di terra circondati dai lumini.

“Che sia sepolto anche lui qui, quel bambino?” mi sorprendo improvvisamente a pensare. “Che tutti quelli sepolti qui siano dei suicidi?”