È uscito un po’ di sole. Se mi affaccio alla finestrella della camera dove dormo, vedo sotto di me il bosco di castagni che sta perdendo le foglie, quella lunga punta che svetta livida, pietrificata, innalzandosi sugli altri rami ancora vivi e sul mantello delle foglie che si accartocciano sempre più. Adesso è lei a correre avanti e il resto della pianta a inseguirla. Anche in altre zone del bosco, dove all’inizio della primavera si stagliavano sempre più quelle parti livide e scortecciate mentre, tutt’intorno, sugli altri rami, cominciavano a spuntare le foglie di quel verde tenero. Ci sono interi tronchi o enormi basi di tronchi abbattuti e tagliati, ai bordi di alcuni sentieri, con le radici spezzate e marmorizzate, simili a blocchi pietrificati.

Qualcosa, quando la luce del sole la colpisce da una certa angolazione, luccica in modo insostenibile in un punto del sentiero che si vede da qui, così forte che fa male agli occhi guardarla. So cos’è. È la rete metallica di una branda fissata al resto di una staccionata con due rudimentali cerniere e usata come cancello d’ingresso in un punto dove un tempo doveva esserci un orto. Si vede che il suo telaio d’acciaio non è stato ancora intaccato dalla ruggine. A una certa ora del giorno, a una certa inclinazione del sole, manda dei barbagli lancinanti di luce, così forti che bisogna distogliere gli occhi.

“Chissà chi si sarà coricato su quella rete?” mi sorprendo a pensare. “Quando questo borgo era ancora abitato, quando stava ancora sospesa sopra un telaio di metallo o di legno, e sosteneva un materasso di lana sempre più infittito che magari cardavano di tanto in tanto, o magari no, perché il cardatore non arrivava fin qui, ci stavano troppo poche persone per giustificare il viaggio, con quel suo macchinario pieno di chiodi girati in direzioni opposte che straziavano i fiocchi di lana infittiti... Qualche persona sola che si coricava ogni notte sulla suola sempre più appiattita del materasso, nei mesi freddi dell’inverno, al piano di sopra di una di queste case che adesso sono diventate dei ruderi invasi dalla vegetazione dove vanno in letargo i pipistrelli, appesi alle travi, dove un tempo tenevano il fieno per le bestie che stavano al piano di sotto, nella stalla, con quei tre gradini di pietra spaccati dove le mucche salivano scivolando sugli zoccoli, incitate dalle grida di qualcuno che stava di dietro e batteva una mano sulle loro groppe e le spingeva forte per farle entrare. Case non riscaldate perché il camino era al piano di sotto, ed era spento, c’erano dentro ormai poche braci nere e fredde. Oppure qualche vecchia rimasta sola. O, prima ancora, qualche coppia più giovane. E l’uomo si coricava sopra la donna, su quella stessa rete, entrava dentro il suo corpo semiaddormentato e intontito per il freddo, neppure lavato perché di notte l’acqua gelava, con la mantellina di lana sopra la camicia da notte sollevata all’altezza dei fianchi, lui col maglione da lavoro bucato che teneva anche di notte, sempre più velocemente dentro il corpo della donna che continuava a dormire, col respiro che ogni tanto diventava più pesante, più rauco, non si capiva se era per il peso dell’uomo sopra il suo corpo o perché russava, e allora la branda cigolava un po’ più forte, alla fine, tutti e due con le coperte tirate su fino all’altezza della testa per non prendere freddo. E così ogni notte, ogni notte, mentre qualcosa cresceva al buio dentro la pancia di quella donna semiaddormentata e intontita, su queste reti che adesso ci sono qua e là a fare da cancelli agli orti abbandonati, qualche disperato esserino con la sua piccola coda risaliva il suo canale vaginale per essere il primo a spaccare la membrana di uno degli ovuli che pullulavano ciechi dentro la materia cieca della sua carne, per dare vita a nuovi corpi e a nuovi esserini caudati e a nuovi ovuli in mezzo a tutta quella disperazione vegetale e a quel freddo. Per quale ragione? Perché? Come quei polloni che ci sono dappertutto e che si innalzano a fianco degli alberi fin quasi a soffocarli, sempre più in alto, più in alto, che arrivano quasi con le loro foglie alla cima della pianta attorno alla quale sono cresciuti fino a imprigionarla. La stessa cosa che succede anche agli esseri della nostra specie. Tutte queste vite che si imprigionano le une con le altre, questa creazione continua di colonie per occupare sempre più grandi porzioni di territorio e sottrarlo agli altri. Perché? Perché? Per perpetuare il proprio DNA? Ma se poi, dopo quattro o cinque generazioni soltanto, un battito di ciglia nel tempo, non resta più niente del patrimonio cromosomico e del DNA originario nei nuovi esseri che hanno preso vita, i quali a loro volta, dopo quattro o cinque generazioni, non perpetueranno nulla dei loro DNA nei nuovi esseri cui avranno dato vita! Non so gli alberi, i rovi, le feroci parietarie che invadono tutto, e che sembrano sempre uguali a se stesse, sempre le stesse identiche foglie, gli stessi gambi dallo strano colore rossiccio che si spezzano subito quando li strappi, e intanto il resto della piccola pianta continua inarrestabilmente a germogliare, e più in là sempre le stesse colonne di legno che si innalzano verso la luce. Mentre gli individui della nostra specie appaiono diversi gli uni dagli altri, o hanno solo una parvenza diversa, o è così che noi fantastichiamo che siano mentre li guardiamo attraverso il diaframma deformante dell’atmosfera, dietro il velo denso e nero e increspato dal vento, e cerchiamo di interpretare dalle configurazioni dei loro volti ciò che avviene nell’imbuto buio delle loro vite, come quando vediamo trasalire quella schiuma improvvisa che si leva vicino a riva dalle onde del mare nero, di notte...”