Oggi il bambino mi ha invitato di nuovo a mangiare con lui.

Sono partito presto, ma sono arrivato là tardi, perché ha ripreso a nevicare e la strada che porta sull’altro crinale era ricoperta da un velo bianco e bisognava avanzare piano, con precauzione, in modo che le ruote non scivolassero lungo le discese e nei solchi, e ancora di più in quel sentiero che passa in mezzo al bosco e su quel ponticello d’assi reso scivoloso dal leggero strato di neve.

Quando sono arrivato, il bambino era sulla porta e guardava fuori, come se mi aspettasse.

Prima di entrare mi sono abbassato il cappuccio della giacca a vento, mi sono scosso la neve dalle spalle, con una mano, per non portargliela in casa.

È corso dentro, contento, così almeno mi è parso.

È andato verso lo scolapiatti, è salito sulla cassetta, ha tirato giù una pentola.

«Vuoi fermarti a mangiare?» mi ha chiesto, quando sono entrato, e mi sono tolto la giacca a vento e l’ho scossa un po’, vicino alla porta.

«Sì, però stavolta cucino io!»

Non si è opposto.

«Va bene!» ha detto, tranquillamente.

Mi ha lasciato il posto vicino al fornello. Si è andato a sedere su un gradino della scala di legno.

L’ho guardato.

«Hai le ginocchia rosse. Sei sicuro di non avere freddo con quei calzoncini corti?»

«No, no» mi ha risposto. «Ci sono abituato.»

Ho posato il sacchetto della spesa sul piano del lavandino.

Il bambino, sempre seduto sul primo gradino della scala, mi guardava senza parlare con i suoi occhi rotondi, mentre tiravo fuori dal sacchetto le cose comperate in paese.

Anch’io lo guardavo, ogni tanto, facendo ruotare la testa, in piedi di fronte al fornello.

Giravo il riso col cucchiaio perché non si attaccasse alla pentola, prima di aggiungere l’acqua e il condimento che avevo comperato.

Il bambino continuava a stare in silenzio e a guardarmi, seduto sul suo gradino.

«Ti piacciono le uova?» gli ho chiesto.

«Sì, molto!» ha risposto.

Ne ho spaccate quattro, due per me e due per lui, sul bordo della pentola dove il burro si stava già sciogliendo.

Il bambino si è alzato. Ha preso una tovaglia lavata e stirata. Ha cominciato ad apparecchiare il tavolo, salendo sulla cassetta per prendere piatti e posate.

Ho spento il riso, l’ho fatto cadere ancora fumante dentro la zuppierina. Gli ho grattugiato sopra il formaggio. Ho cominciato a mescolarlo con un cucchiaio. Fumava ancora, mentre lo mettevo nei piatti. Il bambino lo guardava con gli occhi spalancati, facendo il gesto di leccarsi le labbra.

Abbiamo cominciato a mangiare, prima il riso, poi le uova. Il bambino le tagliava in mezzo con la forchetta, per vedere il tuorlo che si riversava nel piatto. Ho tirato fuori le arance dal sacchetto, alla fine, per fargli una sorpresa.

«Come sono buone le arance!» ha esclamato il bambino quando le ha viste.

Lo guardavo mentre le sbucciava, con le sue piccole dita e aiutandosi con le unghie.

«Che cos’hai fatto alle mani?» gli ho chiesto, perché mi sembravano rovinate.

Le piccole unghie erano scheggiate, le palme erano tutte piene di vesciche e piccoli tagli, i polpastrelli spellati.

«Sto facendo un lavoro» ha risposto.

«Che lavoro?»

Ha abbassato la testa. Ha sorriso, così almeno mi è parso, ma forse ha solo tirato indietro le labbra.

«Sto mettendo a posto quella casina che c’è lì davanti...» ha risposto dopo un po’.

C’era un buon odore di arance, nella cucina.

«Butto fuori i calcinacci, le pietre» ha continuato a dire. «Lavo le assi del pavimento...»

«Ma perché lo fai?» gli ho chiesto, trattenendo il respiro.

È arrossito un po’, non mi ha risposto.

I vetri della porta-finestra si erano coperti di un fitto velo di gocce d’acqua, per la differenza tra la temperatura esterna e quella interna.

Nessuno dei due parlava.

«Accendo il camino!» ha esclamato d’un tratto, saltando giù dalla sedia.

Mi sono alzato anch’io. Ho cominciato a sparecchiare. Ho piegato tovaglioli e tovaglia e li ho messi dentro il cassetto. Ho buttato le immondizie dentro il sacchetto che c’è sotto il secchiaio. Ho cominciato a lavare i pochi piatti, le due pentole e le posate.

Intanto il bambino stava tirando via con una paletta la cenere e le braci carbonizzate dal fondo del camino, prendeva i rametti delle fascine e li disponeva a piramide, ci spingeva sotto due o tre sacchetti di carta appallottolati.

Quando ho finito di lavare i piatti, sono andato là anch’io. Stava mettendo due ciocchi un po’ più grossi in cima alla catasta.

Prima di dare fuoco alla carta con il fiammifero, è corso a prendere le due seggiole che erano rimaste vicino al tavolo, una dopo l’altra, tenendole sollevate con la forza delle sue piccole braccia. Le ha messe di fronte al camino.

Mi ha fatto sedere su una delle due. Poi ha acceso.

La fiamma si è alzata di colpo dai sacchetti di carta appallottolati ai primi rametti spezzati delle fascine che cominciavano già a crepitare. Poi ancora più in alto, fino a lambire i due ciocchi pieni di filamenti staccati e di schegge, portandosi dietro un po’ di fumo che scompariva dentro la cappa.

Si è seduto anche lui, sull’altra seggiola.

«Guardiamo il fuoco!» mi ha detto.

Per non so quanto tempo siamo rimasti seduti di fronte al camino, uno vicino all’altro, perché il fuoco si può guardare per ore e ore senza mai stancarsi. Non sta mai fermo. I rametti crepitano, si spezzano, si vede per un istante il loro piccolo scheletro incandescente mentre la fiamma sale verso l’alto, comincia a mordere le zone interne dei pezzi di legno più grandi, con quel rumore che sembra un sospiro, cambia continuamente colore, diventa azzurra, persino verde, si salda in un torciglione più grande alle altre piccole fiamme che si levano qua e là dalla catasta, partendo da sotto, fischiando, partono di colpo quei nugoli di scintille scagliate lontano come da un’esplosione.

Ci tiravamo indietro con la testa, ogni tanto, perché le scintille non ci arrivassero in faccia. Adesso il fuoco emetteva un rumore forte. Aveva già avvolto l’intera catasta, sembrava che volesse sradicarla. Le fiamme si gettavano dentro la via di fuga della cappa. Intanto all’esterno, più in alto, c’era un comignolo che stava fumando da solo, sulla cima del crinale deserto, in mezzo al bosco.

Ci alzavamo senza dire niente, quando un ciocco franava sulla sua base e soffocava la fiamma, prendendolo con due dita nel punto dove il legno non era stato ancora intaccato, oppure con le molle, per rifare la catasta e creare dei vuoti in cui il fuoco potesse trovare ossigeno e alimentarsi di nuovo. Aggiungevamo altri ciocchi man mano che i primi si consumavano e le fiamme avevano bisogno di nuova esca. Il bambino in un modo, io in un altro, perché ognuno ha un modo diverso di parlare col fuoco. Poi tornavamo a sederci sulle seggiole e a guardare in silenzio quel piccolo incendio.

C’era un buon tepore. I vetri gocciolavano per la condensa. Scorgevo vicino a me la testa leggermente spinta in avanti del bambino, la sua faccia rischiarata dal bagliore che proveniva dal camino, intenta a fissare con i suoi grandi occhi la fiamma.

Siamo rimasti ancora per molto uno vicino all’altro, senza parlare, mentre il tepore cresceva sempre più in quella piccola stanza. Il tempo passava. Cominciava a diventare buio. Mi sembrava persino, ogni tanto, di addormentarmi per qualche istante di fronte al fuoco che continuava a bruciare sempre nuove porzioni della legna e del mondo, sopra le grandi braci che palpitavano nella penombra.

«Perché stai mettendo a posto quella casina?» mi sono ricordato di domandargli un’altra volta, d’un tratto, svegliandomi da un breve assopimento durante il quale continuavo a vedere ogni cosa.

È rimasto in silenzio, a guardare il fuoco.

«Per chi è quella casina che stai mettendo a posto?» gli ho chiesto ancora, rabbrividendo.

«Per te» mi ha risposto.