Il triste lamento di James e Christy Heartsock
alla vigilia della loro rinascita

Il municipio

 

Il nostro secondo giorno in Ohio andammo a fare domanda per una licenza di matrimonio. Mi sentivo le ginocchia ronzare di elettricità come se fosse il primo giorno di scuola. Mentre me ne stavo lì nel municipio a guardare tutte le altre coppie pallide e nervose mi resi conto che la sala d’attesa era tutta arredata in diversi toni di marrone: pareti marroncine, pannelli di legno, pavimento di linoleum beige, cordoni dorati sbiaditi a separare una fila dall’altra. Alle pareti non c’erano quadri o decorazioni, solo targhe rosse con su scritto LICENZA DI MATRIMONIO $30 ed elenchi di norme e dei documenti di identità richiesti. Sembrava di essere in fila alla biglietteria di una stazione subito dopo Natale: facce depresse, sporcizia a terra e uno strano odore pungente di corpi umani. Le altre coppie non avevano affatto l’aria eccitata come noi – cioè, quanto me, almeno. Christy era molto composta. Io non riuscivo a smettere di muovermi e fare battute, sorridere a tutti, darle pizzicotti sul sedere. L’intera procedura mi pareva comica. A me piace fare le cose più normali, aspettare in fila, chiedere dov’è il bagno, ordinare un caffè, parlare di sport o del tempo. Quel tipo di conversazioni non le trovo banali, mi piacciono.

In fila dietro di noi c’era un’altra coppia della nostra età. Erano latinoamericani, e lui portava un berretto da baseball col logo di una ditta di falciatrici. Mi chiesi se anche la sua ragazza era incinta.

«Ci rivediamo qui fra cinquant’anni» gli dissi, «e chi dei due non si porta la moglie compra all’altro una cassa di birra».

Il tipo mi sorrise, ma Chris si voltò dall’altra parte con un misto di imbarazzo e irritazione. In quel posto erano tutti serissimi, come fosse una biblioteca o qualcosa del genere. C’erano due agenti di sicurezza armati fermi in piedi da una parte con uno sguardo di disapprovazione, il che non contribuiva a rallegrare l’atmosfera. Mi chiesi perché li avessero messi lì. Scoppiavano spesso delle risse o cosa? Comunque sia, niente avrebbe potuto deprimermi. Ero al settimo cielo. L’idea di trovarmi in mano una licenza di matrimonio mi faceva sentire molto «normale», costruttivo, saldo, in regola. Firmare le carte, fornire i propri dati, documentare le proprie azioni: tutto questo mi piace. Mettere a verbale il proprio amore.

Era strano che tutti gli altri avessero l’aria così tetra, specialmente l’impiegato cinese dietro il vetro antiproiettile dello sportello. Quando gli diedi i trenta dollari, dissi: «Senta un po’, ma quando divorziamo ce li restituite?»

Lui mi guardò senza nessuna espressione, come un albero. Chri­sty mi diede un pizzicotto torcendomi la pelle della schiena. Quando la gente intorno a me è iperseria non riesco a evitare di diventare irrequieto e mettermi a fare il buffone. Alle superiori, durante le partite di football più importanti, il coach ci radunava tutti e snocciolava una zelante filippica sull’etica del lavoro e la sopportazione del dolore, il tipico discorso sul «cuore del vero campione» e io mi mettevo a fischiettare l’inno nazionale. Mi feci sbattere fuori dalla squadra a forza di pagliacciate del genere – be’, a forza di pagliacciate e per essermi fatto beccare a sniffare due piste di coca sul sedile posteriore della Oldsmobile di Deke Hammerle nel parcheggio della palestra. A Deke andò anche peggio: come giocatore di football aveva rimediato una borsa di studio per la Ohio State University, che in quel modo se ne andò a puttane. Non mi ha più rivolto la parola; non capisco perché, visto che la roba era sua.

Comunque sia: mentre facevo la fila per la licenza non riuscivo a tenere ferme le gambe. Facevo letteralmente i salti di gioia, continuavo a pensare a Jackie Robinson e Branch Rickey. Branch Rickey era il manager dei Brooklyn Dodgers e stava cercando il giocatore ideale per rompere la barriera razziale nel campionato di baseball. Sapeva che quello che gli serviva non era solo un giocatore da Hall of Fame, ma anche un vero uomo: un uomo che riuscisse a giocare nonostante le minacce di morte; un uomo che riuscisse a tenere testa a un seconda base di fama nazionale che gli sussurrava all’orecchio orrendi insulti razzisti; un uomo che sapesse affrontare i riflettori del mondo, sorridere, stare a testa alta, farsi prendere per il culo, ridicolizzare e arrivare comunque in prima base. Rickey scartò immediatamente i single. Un uomo non sposato non poteva sapere cos’era il sacrificio. Un uomo non sposato non avrebbe mai capito fino in fondo il concetto di «bene superiore» di gratificazione posticipata, di fine ultimo rispetto ai risultati immediati. L’uomo di famiglia invece questi valori li comprendeva. L’uomo di famiglia aveva ben precise ragioni personali per non massacrare a calci quel tipo in seconda base: aveva una moglie e un figlio ed era responsabile di fronte a loro prima che di fronte al baseball. Un uomo di famiglia «con una fede tranquilla» sarebbe stato l’unico abbastanza forte da resistere a quel clima infuocato.

E ora toccava a me. Non riuscivo a crederci. Come facevo a stare fermo? Riempii il modulo con tutti i miei dati e le informazioni richieste e poi guardai Christy compilare il suo.

Si era appoggiata a un ripiano contro la parete in fondo alla stanza, e scribacchiava rapidamente. Aveva il sedere ancora più bello adesso che stava mettendo su qualche chilo. Solo la pelle era troppo pallida, e gli occhi da qualche tempo sembravano stanchi. Tutto quel viaggiare le stava costando parecchio. Sentì che la osservavo e si voltò, alzando gli occhi. Aveva un brufoletto rosso ciliegia all’angolo del mento, e vidi che cercava di nasconderlo sollevando una mano.

E poi boom, come se mi avessero colpito allo stomaco con una mazza da baseball, fui lì lì per vomitare. Mi si svuotarono i polmoni. Sul suo foglio, proprio sotto il mio nome, c’era il nome di quel ciucciacazzi, Alexander Shelberger: il suo primo marito.

Pezzo di merda.

«Ah, che cazzo, ma perché ci hai dovuto scrivere il nome di quello?» chiesi, imbronciato. Tutti gli elettroni, i neuroni o come cavolo si chiamano dei miei quattro arti erano rimasti paralizzati.

«Che vuoi dire?» Mi guardò, nervosa e spaventata. Come tutte le donne incinte era diventata estremamente emotiva.

«Voglio dire che è proprio brutto». Stavo cercando di non essere troppo cattivo. «Sai com’è... rovina l’atmosfera. Non mi piace». Per certi versi sono molto possessivo, e il pensiero di quell’uomo, unito all’idea che Christy potesse aver fatto una fila identica a quella con un’altra persona, mi costrinse a tenermi la pancia come se avessi dovuto letteralmente dare di stomaco da un momento all’altro. Sapevo chi era: un ragazzetto ricco della città natale di Christy chiamato Alex ma soprannominato da tutti Tripp (perché era Alexander Shelberger Terzo), ma la totale rimozione sembrava il modo migliore di affrontare la sua presenza. Era lui il motivo principale per cui Christy non voleva un matrimonio civile: perché loro si erano sposati così. Era anche, per come la vedevo io, l’origine della sua iniziale riluttanza a sposarsi.

«Ma che stai dicendo?» chiese di nuovo, col viso del tutto privo di colore.

«Mi ero scordato che sei già stata sposata». Feci una pausa, non ero sicuro di quanto convenisse calcare la mano sulla questione. «È che mi fa girare le palle, sai com’è...»

«Sì, lo so» disse lei, immobile come una statua. Ci fu un lungo silenzio prima che ricominciasse a parlare. «Non l’ho mai amato, questo lo sai. Non era un matrimonio: stavo solo cercando di convincerlo a disintossicarsi. È stato un errore e lo rimpiango: era una persona meschina e schifosa. Ma quello è il mio passato, ok?»

Una volta, mentre aiutavo Christy a traslocare, trovammo un sacco di sue foto con Tripp, foto sgranate e artistiche scattate da lui. Ci rimase malissimo: sembrava che una nuvola nera le fosse calata tutto intorno, e che le braccia e le gambe le pesassero cento tonnellate.

«Vecchie foto di gente che non fa più parte della tua vita... è così triste» mi ricordo che disse. «Momenti che ti sembravano tanto importanti, su cui avevi investito, e adesso ti lasciano indifferente». Mi guardò senza espressione. «Ti viene da chiederti se anche con il momento che vivi ora succederà lo stesso». Poi gettò una scatola da scarpe piena di foto in una grossa busta dell’immondizia verde.

«Che cosa dirai di me fra dieci anni?» le chiesi ora, a voce bassa e sincera, guardandomi i lacci degli anfibi mentre strascicavo i piedi sul pavimento di linoleum beige del municipio. «Che eri incinta e fuori di te?»

«Spero di no» disse lei semplicemente, senza girare lo sguardo. Aveva i capelli corti tenuti indietro da un fermaglio argentato. «Non voglio sposarmi, Jimmy. Non è una cosa che muoio dalla voglia di fare. Non mi interessa il matrimonio in quanto tale. Voglio una famiglia, credo in noi due, mi piacerebbe sposare te, ma se a te non va, allora lasciamo perdere tutto».

Stava partendo all’attacco. È una cosa che le riesce benissimo. Quando si arrabbia con me io comincio sempre a chiedere scusa, ma quando sono io che mi arrabbio con lei, bum, bum, mi sferra due diretti alla mascella. Non si scherza mica, con Christy.

«Ho sposato Tripp» il nome lo pronunciò in un sussurro «perché quella merda mi ha detto che altrimenti si sarebbe ammazzato, ed ero così giovane e stupida che gli ho creduto. Ho divorziato prima di compiere vent’anni, ok? Ogni volta che diceva la parola moglie era come se qualcuno mi desse una forchettata nella spalla, ma se tu trovi che questo rovina l’atmosfera» mi guardò torva «mi dispiace, non so che farci».

«Lo so, lo so, è solo che mi fa un po’ cascare le palle» buttai lì, facendo spallucce.

«Be’, allora cresci. Che altro vuoi che faccia?» chiese lei, esasperata.

«Non lo rifare mai più con nessun altro» dissi, con un falso sorriso.

«Jimmy...» Si capiva quanto era tesa dal modo triste in cui stringeva le labbra. «Guarda che il concetto è proprio quello».

Quando ero entrato nel municipio mi sentivo alto dieci metri, potente come un dio, grosso e tuonante, ma adesso ero disorientato, piccolo, piagnucoloso e fragile. L’idea mi colpì con una ferocia inaudita, e forse per la prima volta: E se lei non mi ama come la amo io? Oh Cristo. E se non fosse sincera? Girai lo sguardo su quell’adunata di promessi sposi dalla faccia cupa che avevamo intorno. Certo, niente dura per sempre.

Ci sedemmo a una piccola scrivania su delle sedie girevoli beige di fronte a una giovane impiegata statale sovrappeso che cominciò a esaminare la nostra pratica. Christy non aveva con sé i documenti del divorzio, quindi ci vollero delle ridicole telefonate di verifica all’anagrafe dello Stato di New York. Era come trovarsi alla cassa del supermercato e sentire la commessa che chiede all’altoparlante da una parte all’altra della sala il prezzo della tua pomata per l’herpes.

«E vuole prendere il nome di suo marito?» chiese la donna a Chris, con un accento piatto del Midwest.

Io non dissi nulla, non ci riuscivo.

«Sì» disse lei, e glielo dettò lettera per lettera: «H-E-A-R-T-S-O-C-K. Ma tengo Walker come secondo nome».

So che non è poi così importante, e che se la faccio troppo lunga mi prenderete per un coglione maschilista, però mi si gonfiò il petto di orgoglio, ragazzi, non posso negarlo. Christy Heartsock. Suonava troppo bene.

«Io e te stiamo per diventare una famiglia» disse lei, senza guardarmi. «Non fare il coglione tirando fuori la storia che sono già stata sposata. Purtroppo il passato sta lì e non si cambia. Ma sono pronta a fare ogni sforzo possibile per portare avanti questo rapporto su una base solida. Capito?»

Annuii, cercando di ostentare disinvoltura.

«Non ci costringe nessuno: è una cosa che faccio perché la voglio fare. Questo vale anche per te?»

«Sì» dissi semplicemente io.

«Solo un’ultima cosa». La ragazza grassa si chinò in avanti sulla scrivania e parlò a bassa voce. «È solo una formalità. Voi due non siete parenti, vero?»

Ero tornato quello di prima: trenta metri di altezza e un sorriso in faccia.

 

 

Inviti

 

Dal letto della nostra camera nel Millstream Motor Inn, lo feci: invitai mio padre al matrimonio. Un sole splendente e caldissimo filtrava dalle impeccabili tende marroni, erano solo le otto e mezza di mattina, ma ora o mai più. Avevo pensato di chiamarlo da quando due mesi prima sul mio test di gravidanza era apparsa una riga azzurrina, e alla fine lì su due piedi infilai una mano nella borsa, presi l’agendina rossa, cercai sotto la P di Papà e lo chiamai. Ogni volta che telefono a mio padre mi tremano le mani. A stento riuscii a pigiare tutti i tasti sul telefono del motel. «Buongiorno, paura» dissi fra me e me, «vecchia amica mia».

Dentro la mia agenda, insieme con un mucchio di ricevute e altre cianfrusaglie, ripiegato otto volte fino a diventare un quadratino di carta, c’era un biglietto che mi aveva dato mio padre quando avevo dieci anni.

 

Sette Regole per una Principessa

per il decimo anniversario della nascita di mia figlia

Christy «Zanzarina» Walker

 

1. Non annunciare mai a nessuno che sei una principessa. L’importante è che tu sai di esserlo, e se ti comporti da principessa, prima o poi lo capiscono anche gli altri.

2. Non fare mai finta di non essere una principessa nel tentativo di sminuirti, pensando così di mettere gli altri più a loro agio. È offrendo il meglio di te stessa che mostri rispetto verso gli altri.

3. Una principessa sa che il successo si misura soprattutto da come si affrontano le delusioni.

4. Una principessa non è mai tanto arrogante da credere di non avere più niente da imparare. Agli altri piace essere ascoltati e capiti tanto quanto piace a te. Più impari, più diventi intelligente. È semplice.

5. Non esistono occasioni che capitano una volta sola nella vita, riguardo alle cose veramente importanti. Fa’ del tempo un tuo alleato. Una principessa capisce il valore della pazienza.

6. Una principessa non è frivola. Ricerca ciò che è giusto, umano e saggio. Quando lo trova se lo tiene caro. Non è mai una cattiva idea ammirare se stessi.

7. Soprattutto, una principessa ama l’onestà. Nascondere, oscurare, manipolare o controllare la verità è una perdita di tempo per tutti. La verità esiste a prescindere dal fatto che la riconosciamo. Se la verità non è chiara, spesso conviene usare il silenzio.

 

Quello che mi ha sempre dato fastidio della lettera di mio padre è che queste regole della principessa erano basate sul presupposto che lui fosse un re. Se conosceste mio padre, la cosa darebbe fastidio anche a voi.

Frank Steven Walker aveva due passioni: la politica e il baseball. Da giovane aveva giocato per cinque anni nelle minor leagues di baseball e poi era stato per tre anni il manager dei Forth Worth Cats, posizione che l’aveva condotto alla carriera politica regionale. Vinse senza difficoltà la sua prima elezione al Parlamento statale, dove continuò a prestare servizio per diciotto anni, prima di passare a fare il vicesindaco. Alla gente piaceva molto mio padre: specie alle donne. È un uomo alto, con le spalle grosse e larghe e gli incisivi separati da un’ampia fessura, ma soprattutto è di una sicurezza disarmante. Non ha mai toccato un goccio d’alcol o una sigaretta in vita sua; il suo unico vizio, diceva sempre, erano le donne fuori di testa. Aveva conosciuto Lyndon Johnson e stretto la mano a John Kennedy il giorno che gli avevano sparato, e nella mia limitata esperienza di bambina mi sembrava uno degli uomini più importanti del mondo.

Il telefono squillò tre volte prima che rispondesse.

«Ciao papà» dissi, tenendomi la cornetta così appiccicata alla testa da farmi male all’orecchio, «sono io».

Riuscii quasi a vederlo mentre si sedeva.

«Sta per succedere una cosa grossa, papà» sussurrai. «Una cosa bellissima».

 

 

Padre Matthew

 

La porta era aperta, ma bussai comunque. Bisogna sempre bussare.

Il progetto che avevo in mente era di far celebrare il matrimonio a padre Matthew. Era il prete che mi aveva cresimato e di sicuro la persona più vicina alla santità che avessi mai conosciuto. L’ultima volta che l’avevo visto era stato quando aveva seppellito mio padre, un gesto che tutti avevano apprezzato molto. Il suicidio mette in imbarazzo tanta gente. Padre Matthew aveva il viso serio e severo ma non era difficile farlo ridere. Bastava sparare un rumore di scorreggia da sotto l’ascella e lui si piegava in due dalle risate. Era il responsabile del gruppo giovanile della parrocchia, ma ci lasciava fumare e fare le cose più assurde a patto che non ci mancassimo di rispetto. Christy non era cattolica ma le andava bene che fosse lui a sposarci. L’unica condizione che aveva posto era che la cerimonia si tenesse di notte, a lume di candela, ma immaginavo che padre Matthew non avrebbe avuto niente in contrario.

Andai a trovare il vecchio sacerdote negli uffici parrocchiali, che erano proprio sotto la chiesa. L’odore freddo, di pietra bagnata di quel seminterrato mi riportò alla mente diecimila ricordi. Mi fermai nel corridoio davanti al suo studio, notando quanto poco era cambiato. La stanza era aperta e ariosa, con il sole che scendeva da una finestrella in alto. Era quel genere di stanza dove si vedono il pulviscolo e la lanugine punteggiare i raggi di luce come polvere di stelle. A muoversi troppo in fretta ci si sentiva a disagio, goffi. C’erano libri dappertutto, pile su pile, registri accumulati in un angolo che avranno avuto quaranta o cinquant’anni. Qua e là c’erano ammassi di vecchie lettere, e padre Matthew stava seduto alla sua pesante scrivania di legno a guardare nel nulla.

Era ancora grande e grosso come me lo ricordavo. Certe cose quando uno cresce diventano più piccole, tipo la collina su Pecan Avenue dove andavo sempre da bambino. Mi ricordo che facevo una fatica immane ad arrivare in bicicletta fino in cima, mentre adesso quando ci passo in macchina non è neanche una collina, è a malapena un pendio. Ma il vecchio sacerdote era seduto lì con la testa piegata verso l’alto come se stesse cercando qualcosa sul soffitto, e le spalle e le braccia erano gigantesche proprio come nei miei ricordi. Padre Matthew Allen era alto poco meno di due metri. Aveva i palmi delle mani grossi più della mia faccia. Non sto scherzando, era, come dire, un essere umano di prima grandezza.

«Vieni avanti» disse a voce alta, con un aspro accento di Boston. Eravamo nel sud dell’Ohio e scommetto che quell’uomo non aveva più messo piede in Massachusetts da cinquant’anni, ma sembrava ancora di sentir parlare Robert Kennedy.

Entrai. Al centro del pavimento c’era uno spesso tappeto ovale fatto di una specie di corda ritorta che girava in spirali sempre più strette. Quel tappeto era più vecchio di qualunque mio parente ancora in vita. Era ruvido e coperto di peli dall’aria poco familiare. Ci passai sopra e mi fermai in piedi di fronte a lui. Quando avevo tredici anni pensavo che lui ne avesse novanta, quindi non sapevo immaginare che età potesse avere ora, però era vecchio sul serio.

Si diceva che fosse stato intimo amico di parecchi personaggi famosi: personaggi famosi nell’ambito religioso, intendo, non celebrità. I suoi occhi erano gli enormi occhi celesti della morte. Quando ero piccolo avevo questa idea veramente puerile, che Dio usasse gli occhi di padre Matthew a mo’ di spioncino, o di punto di vedetta, come se il Signore scegliesse una persona ogni cento chilometri o giù di lì da utilizzare per la ricognizione visiva del Creato. Comunque sia, era stato lui a cresimarmi. Chi teneva le lezioni di catechismo e tutto il resto era il diacono Smith, ma a darmi il sacramento vero e proprio era stato lui. Quel giorno ero strafatto di erba: per me e il mio amico Deke era un punto d’onore. Ci eravamo messi in testa che dovevamo andare a fare la cresima fumati, e così facemmo. E fu lo stesso agli esami finali delle superiori. Un altro momento luminoso nella storia della mia vita. Quando reciti il Credo strafatto di erba e guardi negli occhi celesti di padre Matthew, senti che il vecchio prete sta facendo scempio di ogni singolo pensiero impuro che ti abbia mai intralciato il cervello.

«Mi dispiace disturbarla» dissi, tenendo le mani dietro la schiena per non apparire scomposto.

«Davvero ti dispiace?» disse, a voce molto alta. Doveva essere diventato duro d’orecchi.

«No, be’, in fondo non mi dispiace poi così tanto» sorrisi. ­Christy era fuori in macchina insieme al gatto. Ascoltavano la radio e mi aspettavano.

«Presentati, giovanotto!» gridò lui.

«Vuole sapere come mi chiamo?» chiesi, abbastanza sconvolto dal fatto che non mi riconoscesse. Uno pensa sempre di essere indimenticabile.

«Da dove vieni?» Parlava a voce così alta che ero certo che negli uffici parrocchiali adiacenti ci stessero sentendo tutti.

«Dove sono nato, intende? O dove sono stato fino a poco tempo fa?» chiesi sottovoce, sperando che la nostra conversazione potesse assumere un tono più riservato.

«Tutte e due le cose!» sbraitò, facendo tremare i vecchi vetri della finestra.

«Be’, sono nato qui».

«Ecco perché dovrei ricordarmi di te».

«Sì, pensavo che magari mi avrebbe riconosciuto».

«Hmm». Tacque e giocherellò con un lembo flaccido di pelle che gli penzolava dal polso. «E dov’eri fino a poco tempo fa

«Sono arrivato l’altroieri da Albany».

«Come sei arrivato?»

«Prego?» dissi. Mi stava venendo il latte alle ginocchia. Mi rendevo conto di quanto fosse vecchio ormai quell’uomo. Probabilmente non si sarebbe ricordato di me neanche dopo che gli avessi detto chi ero. La chiesa di San Patrizio a Cincinnati era una parrocchia molto grande.

«Che mezzo di trasporto hai usato per spostarti da Albany, nello Stato di New York, a Cincinnati, nell’Ohio?»

«Sono venuto in macchina».

«Sei venuto in macchina?» ribatté, con una rapidità che mi colse di sorpresa. «Che macchina?»

«Una Chevrolet Nova».

«Di che anno?»

«Del sessantanove».

«E in che anno sei nato, tu?»

«Nel sessantanove».

«A-ha» disse schioccando le labbra, come se la simmetria di questi dati nascondesse un significato particolare. Non potevo dire con certezza se mi stesse guardando o meno. Aveva un occhio strabico che gli dava un’aria leggermente confusa. Sulla scrivania c’era un fermacarte a forma di cavallo, un grosso stallone al galoppo. Padre Matthew si chinò in avanti, sollevò il pesante soprammobile e lo mosse da una parte all’altra del ripiano con un gesto infantile, come se il cavallo stesse trottando sopra le carte e le penne e scalando le montagne di libri.

«E cosa fai nella vita?» chiese, osservando il fermacarte.

«Di mestiere?» Nemmeno io riuscivo a staccare gli occhi dal cavallo.

Lui annuì.

«Sono un sergente delle forze armate».

«Marine?» Alzò gli occhi speranzoso.

«No, esercito».

«A-ha». Abbassò di nuovo lo sguardo e mise da parte il cavallo. «È un mestiere difficile, quello del soldato».

«Be’, io non mi posso lamentare» dissi, spostando il peso da una gamba all’altra, sperando che mi invitasse a sedermi ma non osando presumere di poterlo fare spontaneamente.

«Ah sì?» disse lui, piegando la testa da un lato con sospetto. «Non ti puoi lamentare, eh?»

«No» risposi.

«Be’, allora sia lodato il Signore» disse in tono pacato, ma con un’intensità che mi fece venire voglia di scusarmi.

«Allora» si schiarì la gola, «tu ti chiami Jimmy Heartsock junior, hai quasi trent’anni, sei nell’esercito, non ti puoi lamentare ma trovi comunque necessario salire su una Chevrolet Nova del 1969 e farti tutto il viaggio fino a casa per venire a trovare il prete che ti ha cresimato».

«Mi ha riconosciuto!» Ero commosso. Quell’uomo era con ogni probabilità la figura più autorevole di tutta la mia vita. Mi ricordo come se fosse ieri di quando ascoltavo le sue prediche e lo guardavo spezzare il pane durante l’eucarestia. Era potente, maestoso, regale. D’altra parte, però, a cantare non valeva una sega. C’è una parte della messa in cui l’officiante deve salmodiare tutte le professioni di fede e le preghiere in latino. Alcuni dei diaconi e degli altri preti lo sapevano fare con un tono formale e riverente, ma padre Matthew col suo accento di Boston era atroce. Ci metteva dei secoli a finire un solo brano, anche corto.

«Sì, ti riconosco: puzzavi sempre di fumo. E puzzi ancora di fumo. Dovresti smettere di fumare!» gracchiò, con voce roca e profonda.

«Lo so, è vero». Risi. Ero così felice che mi avesse riconosciuto.

«È un’abitudine. Se non ci stai attento, il novantotto per cento della tua vita diventerà un’abitudine. Questi pretini giovani vanno in giro a farsi il segno della croce e a ringraziare il Signore ventiquattr’ore su ventiquattro per abitudine. Sarebbe meglio che lo facessero una volta sola, se volessero esprimere davvero la gratitudine».

«Ha perfettamente ragione. L’abitudine ti ammazza».

«Siediti» disse, indicandomi una vecchia sedia di legno nell’angolo. Sollevando la sedia per avvicinarla alla scrivania feci cadere per sbaglio un calendario appeso al muro. Era una cosetta da quattro soldi, di quelle che danno in omaggio con l’acquisto di qualcos’altro. Per ogni mese aveva la foto di una diversa specie di fiore. Lo rimisi al mese di febbraio. Non sapevo come si chiamava il fiore raffigurato su quella pagina, ma era un bel fiore giallo.

«Allora, come mai sei venuto, per vedere come stavo?» continuò sarcastico. «Per accertarti che non me ne fossi ancora andato all’altro mondo?»

«No. Be’» sorrisi, «insomma, in parte anche per questo».

«Certo, come no». Sorrise fra sé.

«Voglio sposarmi» dissi con chiarezza, guardandolo in quello che ero abbastanza sicuro fosse l’occhio buono.

«Ci credi in Dio?» mi chiese subito, con voce risonante e gutturale.

Non gli risposi. Non ci riuscii. La domanda era talmente inaspettata.

«Voglio dire, come mai vuoi sposarti in chiesa? La fede fa parte integrante della tua vita? Fa parte della vostra relazione?»

«No, non in maniera esplicita; ma lei è incinta, sa com’è...» Non so perché la misi in quei termini: a dirla così sembravamo più patetici di quello che eravamo.

«No, non lo so com’è, ma la faccenda mi interessa comunque. Vai avanti».

«Be’, abbiamo intenzione di mettere su famiglia e vogliamo una benedizione, sa com’è... E abbiamo pensato che contrassegnare questo momento con una qualche specie di cerimonia ci avrebbe potuto dare coraggio, sa com’è...»

«La vuoi smettere per favore di dire sa com’è? Mi dà sui nervi. Supponi che io non sappia un bel niente e vai avanti col discorso». Fece un poderoso colpo di tosse. Riusciva ancora a intimidirmi come un tempo. «Se la benedizione non è radicata in un sistema di fede» continuò, «non so quanto coraggio vi potrà dare».

«Ancora non è che l’abbiamo chiarita bene questa faccenda della religione, però questo non significa che da qualche parte nel profondo di noi stessi non vogliamo farlo». Stavo balbettando. Era orribile pensare che potesse rifiutare di sposarci. «Cioè, quello che voglio dire è che la parte migliore di me ci pensa a certe cose – a Dio, intendo – però se le dicessi che sono un cattolico devoto e praticante le direi una bugia, e non gliela voglio dire».

«Capisco che non sei un cattolico praticante. Capisco che né tu né la tua ragazza siete cattolici praticanti». Lo disse con un vero guizzo di allegria negli occhi, come se il fatto che nella vita facessi continuamente cazzate lo divertisse. Ricambiai il sorriso.

«Preghi qualche volta?» mi chiese.

«In genere no, a meno che non ci sia qualcosa che desidero con tutte le mie forze, sa com’è...» Lo dissi per scherzo, ma per come mi uscì di bocca la frase mi fece sembrare un coglione. «L’ultima volta che ho pregato è stato per i Knicks». Sorrisi.

«Chi?»

«I New York Knickerboxers, la squadra di basket». Mi dimenai per il nervosismo. Avevo le dita dei piedi ancora scorticate per aver giocato a basket con gli anfibi un paio di giorni prima. Le vesciche ai piedi ci mettono un sacco di tempo a guarire.

«A-ha» disse lui, con grande lentezza e decisione, come se tutt’a un tratto mi avesse scoperto ancora meno intelligente di quanto immaginava.

«Sto scherzando, ovviamente». Sorrisi di nuovo, ma capivo che le mie stronzate non se le beveva. «Ecco, il problema è questo» continuai, strusciando i piedi, senza sapere bene dove stavo andando a parare. «Per vari aspetti – per molti degli aspetti più importanti – sono insoddisfatto di me stesso. La mia vita non è mai stata al servizio di niente se non della caccia alle emozioni facili, sa com’è...» Lo guardai sperando in un cenno di approvazione.

«No, non lo so». Scosse la testa.

«E questo non mi ha portato assolutamente da nessuna parte» dissi, e in quel preciso momento cominciai a provare degli spasmi irrefrenabili, come se stessi per scoppiare a piangere. «Non ho concluso granché, e per dire la verità avrei voluto fare molto di più: non è stato per mancanza di desiderio o di ambizione, ma per mancanza di doti, in realtà, o di talento. Sa com’è...» Mi morsi il labbro. «A quanto pare non sono particolarmente bravo a fare niente. E mi costa una gran fatica accettarlo. Ma so che “non è importante quello che fai, ma come lo fai”. Giusto?» Era una frase su cui mio padre faceva sempre affidamento. «E poi questa ragazza la amo sul serio, e la vedo come un’opportunità, una finestra su nuove prospettive, sa com’è...» Mi morsi di nuovo il labbro. «Un’occasione per dimostrare che valgo qualcosa. Anche se è un obiettivo molto umile, se non altro è un obiettivo che forse sono in grado di raggiungere».

«Da quanto tempo è che non ti confessi?» chiese con tono pacato.

«Oh, Cristo santo!» Me lo lasciai sfuggire a voce alta. Non volevo che il discorso prendesse quella piega. Tutt’a un tratto fui sicuro che quel colloquio si sarebbe trascinato troppo a lungo. Christy era ancora fuori nel parcheggio ad aspettarmi.

«Un bel pezzo» risposi, cercando di riderci su. Ora volevo andarmene da quella stanza. Già solo il fatto di tornarci era stata un’idea melensa. A volte sono un vero idiota.

«La gente crede che le cerimonie come il matrimonio, la confessione, la cresima, il battesimo» spostò il peso, disaccavallando una gamba e accavallando l’altra, con dolorosi rumori di ossa «siano solo riti tradizionali, e può anche essere vero. Anzi, questo è vero nella maggior parte dei casi. Ma» e qui si avvicinò un pugno al viso, mentre gli occhi gli si facevano umidi e intensi «in realtà dovrebbero essere qualcosa di più ricco: un orientamento, un ritorno verso il centro, un riassestamento della prospettiva, una purificazione. E il sacramento più travisato è la confessione. Il peccato in quanto tale non è una cosa di cui ci si dovrebbe sentire in colpa: per il peccato non c’è punizione, né disapprovazione. È il peccato in sé a essere una punizione. Mi segui?» Mi costrinse a guardarlo negli occhi. «Se rifuggi dalla luce, la punizione sono le tenebre».

Alzò le spalle come un bambino e poi si ficcò l’indice dentro i mocassini per alleviare un prurito.

«Se uno mente» continuò, grattandosi, «vive la sua vita nella menzogna, e dopo un po’ si rende conto che non ha bisogno di altre punizioni oltre a quelle che si è creato da solo. La confessione non serve per alleviare il senso di colpa; la confessione indica semplicemente il desiderio di rimettersi in riga. Capisci cosa intendo?»

Annuii senza aprire bocca.

«Riconoscere il proprio desiderio di luce e di onestà, è questo il punto. A volte è utile mettere in chiaro le cose con se stessi. Capisci cosa intendo?» Disse capisci cosa intendo velocemente, come se fosse una parola sola. Mi pareva che non ci fosse poi una gran differenza fra quello e il mio sa com’è.

«Lei vuole che mi confessi ora, è questo che mi sta dicendo?» chiesi, con la pelle d’oca per il nervosismo.

«Io per la verità voglio andarmene a pranzo» disse sarcastico, «ma sono ben contento di restare qui ancora un attimo a parlare della tua vita spirituale. Che credo sia il motivo per cui sei venuto da me».

Ci fu un lungo silenzio. Era quello il motivo per cui ero lì? Mi guardai i piedi. I cerotti che mi ero messo sulle vesciche si erano tutti arricciati e staccati. Me li sentivo appallottolati qua e là dentro gli anfibi.

«Mi piacerebbe molto celebrare il tuo matrimonio, James» disse lui alla fine. «Ne sarei onorato. Ma voglio sapere con chi sto parlando adesso. Ti conoscevo da ragazzo, e mi eri molto simpatico, ma non ti conosco come uomo».

«Ho messo incinte tre ragazze in vita mia e poi ci sono stati – sa com’è – altrettanti aborti» dissi rapidamente, più a mo’ di sfida che di confessione.

«A-ha» borbottò lui. Mi sembrava che nella stanza ci fosse una quantità smodata di luce, per una conversazione di quel tipo. Preferivo le piccole cabine buie. «Come si chiamavano?» mi chiese.

«Uhm... Ah, Lisa, Juliet e... be’, sa com’è...»

Scosse la testa.

«Susan Morse» mi affrettai a concludere.

«È stato piuttosto irresponsabile da parte tua» si limitò a osservare padre Matthew. Non l’aveva detto con cattiveria, questo lo capivo benissimo.

«Lo so» dissi. «E sono anche andato a letto con una marea di prostitute» aggiunsi sorprendendomi io stesso.

«Quante?» mi chiese senza scomporsi.

Sono andato a letto con spogliarelliste, prostitute, donne sposate, donne divorziate, una cazzo di diciassettenne, due e tre ragazze alla volta, madri coi figli nella stanza accanto. Voglio dire, sul serio, sono stato in certe situazioni dove se mi aveste visto vi avrei fatto una pessima impressione. Sono andato a ficcare le dita dove non andrebbero ficcate. Questa è la verità, e a ripensarci mi sento uno schifo. Il problema è che uno vive le cose come vengono, e a volte mentre le fa non sembrano così brutte come appaiono in seguito se ci si trova a doverle raccontare a qualcuno.

«Cinque o dieci» dissi calmo; ma ovviamente mi ricordavo perfettamente il numero. «Dodici» aggiunsi, «ma i nomi non li so». Cercai di sorridere.

«E ti sei pentito di averlo fatto?» Fece una pausa, sistemandosi meglio sulla sedia.

Mi domandai se mi ero pentito, ma non potevo fingere che là per là non fosse stato un gran divertimento. Chiamare le puttane e aspettare che arrivassero era la parte più eccitante di tutta la faccenda. Mi ricordo che coi miei amici ci pisciavamo sotto dalle risate a scambiarci i resoconti dei nostri exploit.

«Non lo so» dissi. «Adesso guardarla in faccia e parlarne a voce alta mi mette un po’ di vergogna».

«Senti che dovrebbe dispiacerti».

Annuii e guardai a terra. Ripensai alla mia prima volta con una puttana. Era una ragazza della Virginia e durante il giorno faceva l’assistente in uno studio dentistico. Non so se era vero, ma lei mi disse così. Dopo aver finito non riuscii a guardarla in faccia: rimasi fermo in piedi, in mutande, con gli occhi incollati alla moquette dell’albergo mentre le consegnavo i cento dollari. Lei si rimise i suoi minuscoli vestiti, andò in bagno, fece una telefonata, sniffò una striscia di coca e aprì la porta, e io guardai le sue scarpe andar via. Non ci dicemmo una sola parola. Corsi immediatamente allo specchio e mi guardai in faccia per vedere se si notava qualche differenza. Tutta la faccenda mi fece sentire una merda, ma appena il mio amico entrò in camera scoppiai a ridere. La sera dopo lo rifacemmo un’altra volta.

«Mi sono anche fatto un sacco di droghe» ammisi spontaneamente. «Ho sniffato una montagna di cocaina, ho preso metanfetamine, un paio di volte ho fumato l’eroina... Proprio l’altro giorno sono entrato in servizio strafatto, e ho dovuto informare una madre della morte del figlio. Mi ci sono sentito malissimo».

«Come si chiamava questa signora?» chiese il sacerdote, senza più guardarmi negli occhi, alitandosi delicatamente sulle mani.

«Anderson. Qualchecosa Anderson» dissi, afferrando il ricordo.

«È importante fare caso ai nomi delle persone. Capisci cosa intendo, Jimmy?»

Annuii, ma ero abbastanza sicuro di non aver capito.

«Sei arrabbiato, James?»

«Cosa?» chiesi. «No».

«Perché io me l’immaginavo che un giorno saresti venuto da me, e credevo che quel giorno saresti stato molto arrabbiato».

«Arrabbiato per cosa?» chiesi, con sincera curiosità.

«Con tuo padre e tua madre. Eri un ragazzino in gamba, ma non hai avuto una vita facile».

«Ah no?» chiesi. Gli occhi iniziarono a bruciarmi come se li avesse punti uno scorpione.

«Se mio padre si fosse ucciso, io sarei molto arrabbiato» disse lui a bassa voce.

«Io voglio bene a mio padre» dissi, facendo di no con la testa. Mi si cominciò a gonfiare il petto e capii che se avessi fatto anche solo un altro respiro mi sarei messo a piangere. «Perché tutti se la prendono sempre con mio padre?» Mi stavo un po’ incazzando. Ogni volta che qualcuno mi fa una domanda su mio padre ha una scintilla di compassione negli occhi, come se ci fosse qualcosa che io non riesco a capire.

«Anche a me stava simpatico tuo padre, Jimmy». Ci fu un lungo silenzio: il prete stava decidendo come portare avanti il discorso. Era ancora seduto di fronte a me alla sua vecchia scrivania, mentre io mi accarezzavo i baffi sempre più nervoso. Quando ci guardammo negli occhi mi azzardai a respirare e scoppiai immediatamente a piangere. Passarono almeno due o tre minuti con me che ansimavo e singhiozzavo sulla sua scomodissima sedia di legno. Come un bambino di quattro anni, piegato in due, piansi tanto forte da farmi mancare il fiato. Padre Matthew non si mosse mai né allungò una mano per confortarmi. Rimase seduto lì in paziente attesa.

«Sai spiegarmi perché piangi, figliolo?» chiese alla fine.

Non ne avevo idea. Mi ricordavo soltanto di aver pensato a quanto ne avevo pieni i coglioni di tutte le mie cazzate. La storia della mia vita non aveva più il minimo interesse per me. Volevo sposarmi, ricominciare da capo, ma i ricordi mi appesantivano come grossi rami morti che si allungavano in tutte le direzioni.

«È solo che... è solo che...» non avevo idea di cosa stessi tentando di dire, fino a che non lo dissi. «Sono talmente vanitoso, sa com’è? Non glielo so spiegare... ma è così. Vanitoso in una maniera incredibile. Mi guardo allo specchio in continuazione e mi viene la nausea». Piansi un altro po’, nascondendomi il viso con le mani. Non avrei mai immaginato di poter singhiozzare così forte.

«E che cosa vedi?» chiese padre Matthew. «Descrivimelo».

«La debolezza» dissi, coprendomi con le mani gli occhi in fiamme.

«Io di fronte a me vedo seduto un ragazzo giovane e forte. Tutti siamo vanitosi, Jim. Concediti il permesso di piacerti».

Restammo in silenzio per un altro istante e lui incrociò le braccia. Io avevo ancora la testa fra le mani.

«Non c’è niente di male nel piangere, ragazzo mio; non significa niente di importante, è una cosa naturale». Rimase di nuovo in silenzio per un attimo. «La gente crede che piangere sia un cataclisma. Ma non è così. L’emotività non ha poi tutto questo gran significato».

Mi asciugai gli occhi, lo guardai e feci un respiro lungo e profondo.

«Se ascolti una sola cosa di quello che ti dico oggi» continuò, «spero che sia questa. Non c’è niente di male nell’essere arrabbiato: nessuno te lo proibisce. Ma ti ci vuole una quantità tremenda di energia per continuare a fare finta di non esserlo».

Dopo che mi fui ricomposto, padre Matthew mi chiese di andare a chiamare Christy per fargliela conoscere. Lei capì subito che ero sottosopra, era evidente, ma non disse nulla. Aveva i capelli tutti spettinati per aver portato il mio berretto di lana, e gli occhi gonfi, forse perché si era appisolata. Parlò un poco con padre Matthew, in maniera composta e dignitosa. Io ero sulle spine per paura che potesse dire qualcosa di offensivo, ma naturalmente dopo tre minuti il vecchio prete aveva un debole per lei più di quanto lo avesse mai avuto per me.

«Se mi sta chiedendo perché voglio sposarmi, la risposta è: Jimmy». Parlava con voce lieve, ripiegandosi i capelli dietro le orecchie e sistemandosi i bottoni del golfino. «Ogni volta che apre la bocca non ho la minima idea di quello che sta per dire. È la persona più onesta che abbia mai conosciuto. Impara in fretta e non ha quasi mai bisogno di fare lo stesso errore due volte». Disse tutto questo senza mai degnarmi neanche di uno sguardo. «Ce la mette veramente tutta per imparare, e ci riesce eccome, e poi mi fa ridere, e in definitiva il mondo è un posto più allegro quando c’è lui nei paraggi».

Accavallò le gambe. «Dovrei dirle che originariamente ci siamo messi insieme solo perché la mia amica Chance mi aveva convinta a rilassarmi e a godermi un po’ di più la vita. Ho deciso di farmi una storiella di una sera e quella sera in un pub ho conosciuto Jimmy. Che le devo dire? Mi è entrato nelle vene». Posando le mani sulla sedia e stringendola con decisione, aggiunse: «Emotivamente, è la persona più forte che abbia mai conosciuto. Di lui ci si può fidare. Affronta i problemi di petto. Mi mette in discussione e mi ascolta. Lo conosco da un anno e mezzo e mi pare di averlo visto per la prima volta martedì scorso. Oppure di conoscerlo da diecimila anni. Non so dire quale delle due».

Alla fine mi guardò, scosse le spalle e girò di nuovo gli occhi verso padre Matthew. «E oltre a tutto questo, lui mi ama. Quando sento l’amore che prova per me mi rendo conto che non credo di essere mai stata amata prima d’ora».

Sorrise e continuò quasi senza fermarsi. «Quando mi hanno tolto il dente del giudizio ho avuto la febbre per sei giorni e quasi non riuscivo a mangiare. E questo tontolone si è preso cura di me. Ha noleggiato dei film, mi ha preparato la minestra e mi ha imboccato come una bambina, si è preso una licenza, mi ha impedito di fumare, mi ha letto il giornale e fatto i massaggi ai piedi. Non sapevo che fosse in grado di comportarsi in quel modo. È stato come – non so spiegarlo – l’ho visto infilare una banana nel frullatore per farmi un frullato – ormai stavamo insieme da nove mesi – ed è stato come scoprire che il tuo migliore amico sa volare e per qualche motivo non aveva mai avuto occasione di dirtelo. E allora ho pensato: Se ho un briciolo di sale in zucca questo me lo tengo stretto, ed è quello che sto cercando di fare».

Per un attimo ci fu silenzio. Padre Matthew continuò a guardare Christy dritta in faccia, senza nessuna particolare espressione.

«A Jimmy gliel’ho già detto, è tutta la vita che cerco un punto di riferimento. E spero che io e Jimmy possiamo essere questo punto, l’uno per l’altra». Riprese fiato per quella che mi sembrò la prima volta da che aveva messo piede nella stanza. «Sa com’è...»

«Sì, capisco» disse lui. A lei non gliele scassò le palle per aver detto sa com’è. Christy riesce sempre a fare un figurone. Si guardò intorno, studiando le pile di libri e il disordine generale. Aveva gli occhi verdi e luminosi e si vedeva che quell’esperienza se la stava proprio godendo. In un certo senso le sembrava di difendermi, e questo le piaceva.

«Se devo essere del tutto sincera» aggiunse, lanciandomi un’occhiata per capire fino a che punto poteva osare, «per quanto riguarda la faccenda della chiesa, per me non farebbe nessuna differenza se fosse un matrimonio ebreo, indù o islamico, ma dato che Jimmy ha avuto un’educazione cattolica, questo mi sembra un posto...» incespicò, cercando la parola giusta «elegante come qualunque altro, per cominciare».

«Ti sei trovato una ragazza in gamba» mi disse padre Matthew. «Da quello che dice lei, cominci a starmi simpatico».

Feci un sorriso incerto.

«Quando vi volete sposare?»

«Venerdì, pensavamo» dissi io, con la voce ancora leggermente gracchiante.

«Questo venerdì?»

«Abbiamo una bambina in arrivo» aggiunse Christy.

Avevo la testa ancora un po’ intontita e palpitante per il pianto che mi ero fatto poco prima, ma ero orgoglioso della mia ragazza e piacevolmente in imbarazzo per tutti i complimenti che mi aveva fatto. Non l’avevo mai sentita parlare così. Dentro quella donna la vita scorreva fortissimo: le sentivi pulsare le vene da dieci passi di distanza. Sembrava che nel suo corpo ci vivessero quindici persone.

Il vecchio sacerdote ci congedò con un piccolo messale episcopale foderato di tela rossa. Dovevamo studiare le varie liturgie, crearne una specificamente adatta a noi e richiamarlo il giorno dopo. Lui avrebbe controllato se la cappella era disponibile. Poi ci abbracciò entrambi, cosa che mi fece un po’ ridere, e si incamminò strascicando i piedi per il corridoio della cattedrale.

 

 

Spezzare il pane

 

Arrivò in Ohio due giorni dopo. Mio padre era così: gli piacevano i gesti plateali. L’avevo richiamato per dirgli che avevamo in programma una cerimonia per pochi intimi nella cattedrale di San Patrizio a Cincinnati. «Non me la perderei per nulla al mondo» aveva risposto, subito e con fermezza. Lui e Chance furono le uniche persone che invitai. Jimmy invitò sua madre, il suo patrigno e qualche compagno d’armi di Albany, ma di quelli non poté venire nessuno perché erano impegnati in una qualche esercitazione sul campo. Non rimase tanto deluso. Disse che comunque non lo voleva un testimone. Davanti all’altare voleva esserci solo lui.

Incontrammo mio padre e la sua nuova moglie, BJ, al ristorante del Ramada Inn dove alloggiavano. Jimmy era al suo meglio: riesce a essere veramente affascinante, quando ci si mette. Parlò in maniera intelligente quando fu chiamato in causa, ma per la maggior parte del tempo rimase in silenzio, accanto a me, a guardarmi le spalle.

Mio padre e Jimmy si erano già incontrati una volta, ad Albany, quando avevo compiuto venticinque anni. Io e Jimmy uscivamo insieme solo da una settimana, ma lui fece comunque un salto alla festicciola che avevo organizzato e se ne andò presto. Mi ricordo che lo accompagnai per il vialetto e ci salutammo con un bacio appoggiati al cofano della macchina. «Sai cosa mi piace di te?» dissi, baciandolo sulla bocca. «Che mi tratti come il pezzo di fica che sono».

Poi tornai alla festa e continuai a ballare con mio padre. In seguito Jimmy mi disse che la festa gli era sembrata «deprimente» perché gli pareva che lì in mezzo non ci fosse nessuno che mi conosceva davvero, compreso mio padre.

Non sono mai riuscita a spiegare a Jimmy la cosa strana che mi capita ogni volta che vedo mio padre. Automaticamente, mi sembra di subire una strana rivoluzione interna della personalità. In genere passa talmente tanto tempo fra un incontro e l’altro che in qualche modo mi trasformo in una versione idealizzata della persona che ero l’ultima volta che siamo stati davvero vicini. In sostanza, divento l’incarnazione adulta di una bambina di otto anni. Ogni volta che ci vediamo tento di evitare questa metamorfosi, ma non ci riesco mai. A mano a mano che il giorno della visita di mio padre si avvicina, comincio a odiare la persona che sono diventata e a desiderare disperatamente di ritornare a essere quella bambina di otto anni. Il mio taglio di capelli mi irrita, e finisco per farmi la coda di cavallo. Fra tutti gli orecchini che ho nessun paio mi sembra adatto, e così non me li metto proprio. Mio padre non ha idea di chi sono, e sotto il peso del suo sguardo io non glielo voglio far capire. Desidero così tanto il suo amore e la sua approvazione che finisco per odiarlo. E io non voglio odiarlo, ma volergli bene. Ho bisogno di dirgli che è un uomo magnifico e che sono orgogliosa di lui, e quel bisogno crea un rombo così forte che non riesco a sentire nient’altro.

Dal momento in cui mio padre entrò in quel ristorante dell’Ohio mi ricordai la cosa che mi piace meno di lui: il modo in cui si veste. Arrivò con un completo che sembrava comprato ai grandi magazzini J.C. Penney nel 1983. Non è mica un poveraccio, mio padre. È riuscito a mettere da parte un bel po’ di soldi nel corso della sua carriera di funzionario statale. Ma insiste comunque a non volersi comprare vestiti nuovi. È più facile convincerlo a regalarti diecimila dollari che a prestarti un biglietto da cinque.

Frank Walker manda odore di virilità a venti metri di distanza. Le spalle, la mascella, la leggera calvizie sulla fronte sono maschili come le corna sulla testa di un ariete. È un uomo che sembra in grado di affrontare qualunque cosa, dalla più sottile crisi psicologica alla rissa in un bar.

Mi venne incontro dall’altro capo del ristorante a passo di carica, mi strinse in un abbraccio fortissimo e mi strofinò una mano contro la pancia gonfia. Istintivamente, mi ritrassi di scatto. Non ci vedevamo da quasi due anni, ma ogni volta lui mette da parte il passato e si comporta come se nulla fosse, ignorando del tutto il nostro allontanamento.

«Allora, hai deciso di sposarti di nuovo, eh?» fu la prima cosa che mi disse.

La tensione era evidente agli occhi di Jimmy, di BJ e di chiunque altro stesse prestando attenzione al nostro incontro, ma non a quelli di mio padre. Quando fummo tutti seduti, si lanciò subito a raccontare a BJ un vecchio noiosissimo aneddoto riguardo alla sottoscritta.

«Quando Christy aveva sette anni – sette, ti dico» – come tutti i politici, mio padre adora gli aneddoti – «un giorno arriva sgambettando nel mio studio e mi fa: “Papà, ci ho pensato un sacco ma non so decidere se voglio sposarmi una volta sola o tante volte”». Scoppiò a ridere. Trascurò di accennare all’antefatto dell’episodio, cioè che la notte prima ero scesa al pianterreno e l’avevo trovato a letto con la mia baby-sitter, Janice.

La nuova moglie, BJ, era una persona dolcissima. Mio padre sosteneva che stava sperimentando per la prima volta il matrimonio con una persona sana di mente. Era stato sposato già quattro volte e aveva avuto relazioni con molte altre donne, ma fra tutte ce n’era stata una sola con la testa sulle spalle: la mia prima matrigna, Estella. Lei è stata la migliore: aveva vent’anni e faceva la maestra d’asilo. Le volevo un gran bene. Una volta mi cucì un completino da cowboy tutto di pelle, con tanto di giacca, gilet e copripantaloni, e ovunque una frangia di perline turchesi.

Il loro matrimonio durò solo otto mesi. Il giorno che Estella se ne andò, entrò nella nostra casa in stile ranch su Norwood Avenue con le braccia piene di sacchetti della spesa. Io ero dietro di lei, portavo una pianta di azalea che avevamo appena comprato. Quando mettemmo piede in casa trovammo mio padre che parlava al telefono sussurrando. Riattaccò immediatamente e si voltò con un’aria colpevole in faccia.

«Chi era al telefono?» chiese Estella.

«Iris Harding» rispose lui.

«E chi è?» chiese Estella.

«Ah, be’, sai, fa la commessa da Montgomery Ward».

«E perché stavi parlando con lei?»

«Ecco, questa è una bella domanda» disse mio padre, cercando di trattenere un sorrisetto. Estella gettò a terra le buste della spesa e uscì dalla porta, lasciando confusa me, ma non mio padre. Tornò un mese e mezzo dopo con in mano le carte per il divorzio. Ma il suo intento non era quello di lasciarlo. Gli disse di scegliere: o firmava le carte, o le prometteva di non andare mai a letto con un’altra donna. Gli disse che sapeva che Dio avrebbe potuto perdonarlo e ripartire da zero, e lei avrebbe cercato di fare lo stesso. Mio padre disse: «Io vorrei con tutto il cuore restare tuo marito – sei la donna migliore che abbia mai conosciuto – ma in tutta sincerità, se sei irremovibile sulla questione della fedeltà matrimoniale, temo che ti renderò una persona molto infelice». Parlava sempre in quel modo, con grande formalità, usando un lessico più ampio possibile.

Mi ricordo di tutto questo perché ero seduta proprio fra loro due, sul divano azzurro. Estella scoppiò a piangere e mio padre firmò le carte sul tavolo di cucina. Meno di un anno dopo lei si risposò con un altro ed ebbero tre figli maschi, tutti e tre ciechi. Mio padre continua tuttora a ribadire che è la donna migliore che abbia mai conosciuto. «È una santa» diceva sempre, anche di fronte a una nuova moglie o fidanzata, «non so come abbia fatto a tirar su quei tre bambini ciechi. Se non fossi un bambino anch’io, avrei potuto passare una vita splendida insieme a lei».

BJ fece un sorriso educato. Era qualche anno più giovane di mio padre, ne avrà avuti quarantotto, e portava un completo grigio che la rendeva sobriamente attraente. Le donne di mio padre sembravano tutte intercambiabili. Non so come, ma anche quando ha cominciato ad avere una certà età è sempre riuscito a trovare mogli dannatamente belle. E BJ non era nemmeno un’oca: lavorava come direttrice marketing all’Alley, il più grande cinema di Houston.

«Allora, Zanzarina, che mi racconti?» disse mio padre, ancora in piedi, goffamente, fra i tavoli del ristorante.

Non sapeva mai come parlarmi. Quando ero piccola, nel tentativo di comunicare, mi faceva le domande più assurde. «Come la vedi questa storia degli ostaggi in Iran?» «Che te ne pare di Carter?» Una volta, mentre uscivamo in retromarcia dal vialetto di casa, schiacciò il gattino dei vicini e nemmeno si fermò: era troppo concentrato. E poi quando ero piccola aveva anche la strana abitudine di porgermi la mano perché la baciassi. Non so come gli fosse venuto in mente: non l’ho mai visto fare a nessun altro uomo. Gli interessava solo la vita intellettuale: quella, le donne e il baseball. Il lavoro manuale gli faceva tornare in mente la cittadina in cui era cresciuto, Sawkill, in Texas, e lui Sawkill la odiava. «Non sopporto la gente che non ha interesse o voglia di imparare cose nuove. Tutto quel cazzo di paese è pieno di gente intollerante alla tolleranza» diceva sempre. Mio padre ha le mani enormi, praticamente sproporzionate. Somigliano ai bicipiti di Braccio di Ferro. Quando uno le nota non può fare a meno di fissarle in continuazione. Sembra vecchio non perché sia fragile o malaticcio, ma perché pare l’ultimo scampolo rimasto di una stoffa più antica, più forte, più intricata di quella della mia generazione. Dentro ha nascosta una collera esplosiva. Una volta ha scardinato lo sportello di un frigo, e in qualche occasione mi ha anche picchiata, ma più che altro mi metteva semplicemente paura.

Però una cosa a Frank Walker la devo concedere: è sempre stato completamente assorbito dalle cose della sua vita, e si è assunto la mia custodia in un momento in cui, nel Texas, i padri single erano ancora più rari di quanto lo siano adesso. Certo, anche nonna mi ha dedicato tanto del suo tempo.

«Grazie per avermi invitato» disse quando si fu seduto a tavola, di fronte a me. Il suo sguardo era come un pugno in piena faccia. Negli occhi nocciola screziati di giallo aveva un’onestà terrificante.

«Grazie a te per essere venuto» farfugliai imbarazzata, cominciando immediatamente a lanciare occhiate per tutto il ristorante. In quel momento non mi ricordavo neanche più perché l’avevo chiamato: c’entrava qualcosa l’idea che per mettere su la mia nuova famiglia dovevo prima fare pace con quella vecchia.

«Te ne combinerà di tutti i colori, questa qui» disse mio padre a Jimmy. «Una volta eravamo a fare spese da Neiman Marcus, e Christy – non avrà avuto più di cinque anni – entra nel reparto abbigliamento donna, corre verso la sezione più costosa e comincia a frugare tra i vestiti appesi alle stampelle, esaminandoli uno per volta. Alla fine ne trova uno – riusciva a malapena a tenerlo in mano, quell’affare – e mi fa: “Papà, voglio questo. Mi serve”. Doveva essere il vestito più costoso di tutto quel dannato centro commerciale, e lei ci ha messo ben tre minuti per trovarlo».

«E tu me l’hai comprato, papà?» fu la mia domanda retorica.

«Col cavolo!» esclamò lui. «Ascolta, Jimmy, questa ragazzina credeva che io fossi capace di fare qualunque cosa. Mi ricordo che un’estate le avevo trovato lavoro come fattorino al palazzo del Congresso di Austin. Per tutta l’estate abitammo insieme in una stanza dell’Hilton. Fu un’estate fantastica, vero, Chris?»

«Era il Marriott» dissi, ripiegando con puntiglio il mio tovagliolo. L’unica cosa che mi ricordavo di quell’estate era il caldo micidiale e tutte le ore che avevo passato da sola a girare nell’aria condizionata dei corridoi dell’albergo.

«Be’, comunque sia. Si avvicina settembre e un giorno mentre siamo in camera, sdraiati sul letto a guardare la televisione, lei mi dice che vuole fare di nuovo il fattorino, l’anno dopo. Io le dico, cosa che ovviamente sapeva già, che ai figli dei membri del Congresso spetta soltanto un’estate a testa. Allora lei: “E dai, papà, lo sappiamo tutti e due che se tu volessi – cioè, se lo volessi veramente – un modo lo troveresti”». Fece una pausa a effetto. «Si rifiutava di credere che fossi una persona qualunque».

Avevo già sentito mio padre raccontare questa storia e mi era sempre sembrato strano che gli piacesse così tanto. Probabilmente pensava che in qualche modo lo mettesse in buona luce, ma non ho mai capito come.

Continuava a fare a Jimmy domande banali, tipo che progetti aveva per il futuro e a cosa pensava di dedicarsi una volta lasciato l’esercito. Se invece di guardarlo tenevo gli occhi fissi sulla saliera, la situazione era sopportabile: la voce di mio padre era addirittura gradevole. La semplice cadenza delle sue parole mi riportava alla mente un’infinità di ricordi, facendomi capire che il mondo non cambia poi così tanto. Quel suono mi faceva venire voglia di andarmi a sedere in braccio a lui, ma gli occhi mi facevano venire voglia di chiedere permesso e scappare in bagno.

«Ti ho portato questo libro, ho pensato che te lo saresti ricordato». Tirò su un vecchio libro verde e logoro che mi ero portata dietro quasi ininterrottamente dagli undici ai quindici anni. «Emily Dickinson. Eri fissata con Emily Dickinson. Ti ricordi?»

«Sì, certo» dissi, soppesando il volume fra le mani. Dentro ci aveva scritto: Solo per ricordarti che certe cose restano per sempre. Con amore, Papà. Si era sempre sforzato di volermi bene, questo lo sapevo, ma pur sapendolo trovavo quasi impossibile ricambiare il suo affetto. Tanti crescono senza un padre, ma crescere senza una madre è come vedersi assegnare per tutta la vita un cappello da somari. Per quanto mio padre cercasse di compensare quel vuoto, non ci riusciva.

«Sei stato carinissimo, papà» dissi.

«Che diamine, è solo che mi fa piacere essere stato invitato, stavolta». Sorrise, mettendo in mostra l’enorme fessura fra gli incisivi. Gli era bastato un attimo per farmi tornare di malumore. Lanciai a Jimmy uno sguardo di scuse.

In parte, il motivo per cui l’avevo odiato così tanto per tutta la vita era che in fondo al cuore credevo veramente che fosse capace di fare qualunque cosa si mettesse in testa, e mi faceva arrabbiare che nei miei confronti ci fossero talmente tante cose che aveva trascurato. Quando, a quindici anni, rimasi ferita in un incidente stradale a bordo di una Pontiac sportiva insieme ad alcuni ragazzi più grandi, ubriachi, dovettero farmi una trasfusione di sangue. Ero sicura al cento per cento che, se avesse voluto, lui avrebbe potuto guarirmi. Non c’era bisogno che me ne stessi in quell’ambulatorio attaccata a macchinari e monitor per il battito cardiaco. Avrebbe potuto occuparsene lui, ma per qualche motivo non aveva voluto. Inconsciamente, sentivo che ogni disavventura che mi capitava era il risultato diretto di una sua mancanza di attenzione.

Da bambina non ho mai provato vera e propria rabbia, nei confronti suoi o di chiunque altro. Il più delle volte, se le cose non andavano per il verso giusto volevo soltanto stare sola. Anche quando partii dal Texas, non me ne andai arrabbiata. Me ne andai felice di avere finalmente un po’ di pace intorno. Da quando avevo sette anni odiavo il Texas e la maggior parte della gente che conoscevo da quelle parti. Andavo a letto presto per sognare più a lungo. Mio padre mi portava in macchina su quelle grandi statali, e mi pareva che a Houston non ci fosse altro che superstrade e concessionarie di macchine. Ho desiderato la fuga fin dal primo momento in cui ho sentito nominare il concetto, non perché mi trovassi in chissà quale situazione orribile, ma perché bramavo la solitudine. Ho passato l’infanzia a cercare e aspettare una buona ragione per scappare, e quando mio padre ha sposato Marilyn l’ho trovata. Lei mi disse che alla radice delle infedeltà di mio padre c’ero io, che molti uomini si sentono sessualmente frustrati quando hanno accanto una figlia adolescente, e che quindi sarebbe stato meglio per tutti se me ne fossi andata di casa. A me stava benissimo. Avevo messo da parte tremila dollari lavorando come gelataia, e presi un aereo per New York. Ma naturalmente Tripp mi seguì, e non riuscii mai a cominciare la mia nuova vita come avrei voluto.

Incapace di guardare mio padre negli occhi mentre mangiavamo alla stessa tavola nel ristorante del Ramada Inn, mi resi conto che dovevo sviluppare delle nuove doti psicologiche per affrontare i problemi. Gli strumenti che avevo usato per cavarmela durante l’infanzia erano stati utili e proficui all’epoca, ma ormai non funzionavano più. Quasi sempre riuscivo a godermi le persone solo da lontano. Apprezzare gli altri era facile, finché non me li trovavo troppo vicini: specie mio padre. Avevo imparato ad amarlo attraverso la separazione, ma quando ce l’avevo di fronte non sapevo comunicare con lui. Mi sembrava troppo pericoloso. L’unico momento in cui respiravo senza difficoltà era quando stavo da sola. Per certi versi mi pareva di essere allergica alla mia stessa vita. Quando la gente mi parlava e si aspettava da me una reazione, la testa mi si gonfiava e mi venivano gli sfoghi sulla pelle. Sarebbe successo anche con mia figlia? Le avrei voluto bene mentre era a scuola ma mi sarei sentita distante mentre la tenevo in braccio? Mi pareva che tutti i miei ricordi più belli non comprendessero la presenza di nessun altro. Leggere, camminare per la strada, prendere l’autobus, lavarmi i vestiti: immersa in quel genere di pace silenziosa riuscivo ad assaporare e a godere la vita. La rottura con Jimmy era stata quasi un sollievo. In quel modo avrei potuto amarlo per sempre: sarebbe stato più facile. Le abitudini di cui avevo imparato a servirmi per sopravvivere sembravano tutte collegate alla fuga e alla solitudine.

«Non imparerai mai a stare seduta tranquilla, eh?» disse mio padre.

«Che intendi?» gli chiesi.

«Sembri una bambina insofferente, ti dimeni tutta».

«Senti chi parla» scattai io.

«È emozionata e nervosa, Frank» disse BJ con calore. «Lasciala in pace».

«Questa ragazza non sa stare ferma, Jimmy» disse mio padre, indicandomi. «Adesso che in qualche modo l’hai acchiappata, tienila forte, perché questa qui scappa sempre. Sono anni che cerco di raggiungerla, ma a quanto pare lei non vuole stare al passo con nessuno – quanto meno, non con me».

«Non è vero» dissi, facendo cenno al cameriere.

«Tu non sei un alcolizzato, vero Jimmy?» chiese mio padre. Il sangue mi si gelò all’istante nelle vene. Sapevo perfettamente dove voleva andare a parare.

«No, no» disse Jimmy con un sorriso. «Non mi fraintenda, di sicuro ho tante caratteristiche di cui c’è poco da andare fieri, ma problemi con l’alcol non ne ho».

«Perché la sai la storia di Tripp, vero?» chiese mio padre con l’aria più innocente del mondo.

Avrei potuto vomitare direttamente lì sul tavolo. Dal momento in cui eravamo arrivati avevo capito che mio padre era deciso a sbattermi in faccia tutto il mio passato per farmene sentire ben bene la puzza.

«So che Christy è già stata sposata» disse Jimmy, assumendo un’espressione più seria.

«Be’, però non hai mai sentito il mio punto di vista sulla questione». Mio padre ghignò. «Quel tipo era un di-sgra-zia-to. Lo posso dire chiaro e tondo, vero Chris?»

«Puoi dire quello che ti pare». Mi morsi un labbro e mi feci forza. Guardalo negli occhi, mi dissi. Guardalo negli occhi e digli che la verità non ti fa paura. Digli che hai accanto una persona che ti ama e che non hai paura di niente.

Se solo riuscissi ad alzare gli occhi e a sostenere il suo sguardo, pensai, potrei cambiare il futuro. Un giorno gli scienziati scopriranno che il nostro DNA non è un codice assoluto e inalterabile. C’è un singolo anello alla fine della catena che può torcersi o distendersi durante il corso della vita. Se fossi stata in grado di mostrare la mia parte più profonda e guardare mio padre negli occhi senza vergogna, quell’attimo sarebbe passato come un tuono fra le membrane del mio corpo e del suo, lasciando qualche microscopico frammento genetico alterato per sempre. La mia paura sarebbe svanita e al suo posto sarebbe rimasto il coraggio. Questo spostamento, il risultato di una sola piccola azione, avrebbe potuto cambiare il modo in cui sono programmata e perfino influire sulla struttura profonda di mia figlia. Capii che l’unico risultato di qualche valore che avrei potuto raggiungere in vita mia sarebbe stato la sottile crescita o il deterioramento del mio istinto. Ossia: sono in grado di guardare mio padre negli occhi mentre insiste a raccontare al mio fidanzato, il mio promesso sposo, l’uomo della mia vita, che sono una povera disgraziata?

«Ha voluto il mio permesso per sposare quel mascalzone, capito? Aveva solo diciassette anni e viveva con lui a New York: insomma, te l’immagini? Io allora prendo e vado a trovarli a New York, no? Scopro che abitano all’hotel Algonquin perché si sono messi in testa questa idea folle che diventeranno tutti e due scrittori famosi...» Si interruppe. «Chi è che ci aveva abitato, lì?»

«Dorothy Parker» risposi brusca. Dorothy Parker non mi è neanche mai piaciuta.

«Insomma, Christy è una ragazza piena di qualità. È una ragazza che anche a guardarla a cinque anni già si capiva che avrebbe potuto avere tutto dalla vita. Era una vincente. Riusciva bene in tutto quello che decideva di fare, però non le sembrava una cosa fica avere successo. Invece le sembrava fico buttare nel cesso la propria vita. E quel mascalzone di Tripp era un asso a tirare la catena. Mi segui?»

Io tenevo Jimmy per mano sotto al tavolo e osservavo la pelle del suo viso. Aveva un sacco di peli rossi sulle basette, anche se i capelli erano neri. Per lui, il fatto di guardare mio padre negli occhi non sembrava presentare la minima difficoltà.

«Salgo nella loro camera e Tripp» mio padre pronunciò il nome come se fosse una bestemmia «mi offre un bicchiere di vino. Sono le undici e mezza del mattino, per la miseria, questo qui vuole sposare mia figlia e mi offre un bicchiere di vino. L’odore che mandava era una specie di marchio di fabbrica. Lui puzza, lei se ne sta in piedi dietro di lui con l’aria di una monella scappata di casa e da come è ridotta la camera pare che ci vivano dentro due bambini di quattro anni. E quanti anni aveva lui? Almeno quattro o cinque più di te, giusto?» Si voltò verso di me.

«Era quattro anni più grande». Ce la feci. Guardai in quegli occhi screziati di giallo e gli risposi. Lui non parve accorgersene.

«Ascolta, per un padre quella stanza dell’hotel Algonquin era l’equivalente della settima bolgia dell’inferno». Mio padre proseguì senza sosta. «Insomma, mia figlia se ne va a New York per diventare Virginia Woolf o Dorothy Parker o non so chi, e dopo neanche sei mesi la sua più grande aspirazione diventa quella di fare da modella per le cazzo di sedute fotografiche di quello lì. Sì, perché il deficiente si era messo in testa la brillante idea di essere un fotografo, capito?, e adesso tutt’a un tratto si prende mia figlia come modella e io dovrei firmare delle carte per darle il permesso di lavorare come un’adulta e un’altra serie di carte per darle il permesso di sposare quello scoppiato».

«Ti avevo invitato solo perché me lo impedissi» dissi piano. Ora che lo guardavo in faccia mi rendevo conto di quanto poco lui guardasse me.

«Be’, non l’hai messa in quel modo, all’epoca». Si fece una risata, una bella risata di cuore. «Ah, ragazzi, adesso sarebbe così che è andata, eh? Jimmy, sono sicuro che mi capisci, ma guardare una figlia che si fa deliberatamente del male... è una cosa che non si può spiegare». Alzò le braccia come un Re Lear. «So che quello è stato il fine settimana in cui ti ho persa».

«Non è che mi hai persa, è che hai firmato quelle carte» dissi semplicemente. Adesso non riuscivo più a smettere di guardarlo. Gli volevo bene, era più forte di me. L’unica cosa che desideravo veramente era dargli un bacio sulle guance. Non volevo essere arrabbiata. Volevo vedere tutto il bene che aveva fatto per me. Ormai ero vissuta abbastanza a lungo per conoscere persone che portavano davvero le cicatrici del loro rapporto coi genitori. Gente che era stata stuprata e malmenata, gente che era stata del tutto dimenticata. Mio padre non aveva mai fatto niente di tutto questo. Solo, ciascuno dei due aveva dato all’altro un posto sbagliato. E adesso quando incrociavamo lo sguardo non sapevamo dove aggrapparci. Lui era quello da cui stavo scappando, ma al tempo stesso era una parte di me. Ecco, capii, perché l’avevo invitato.

«Ho firmato quei documenti per cercare di tenerti vicina a me» disse, guardandomi negli occhi. «Forse non te lo ricordi, tesoro, ma tu eri comunque intenzionata a fare di testa tua. Ho pensato che ti sarei rimasto più vicino come alleato che come nemico». Fece una pausa e girò gli occhi sugli altri occupanti del tavolo, quasi a chiedere aiuto, ma poi tornò a puntarli su di me. «Ma se mi dici che ho fatto male, ti credo. Anche da piccola, hai sempre avuto un’aria intimidatoria».

«Ah, Cristo, papà, non volevo intimidire nessuno, è solo che non mi hai mai saputa ascoltare» dissi, cercando di sorridere. «Non devi fare altro che questo». Adesso sostenevo perfettamente il suo sguardo, e lui mi ascoltava.

«Ok» disse, col sorriso che svaniva. «Ci proverò».

Sotto il tavolo strinsi forte la mano di Jimmy, come un pilota afferra la leva dell’acceleratore.

«Mia madre diceva sempre» mio padre fece un sorrisone, scoprendo di nuovo la fessura fra gli incisivi «“Frank ha avuto successo in tutto quello che ha deciso di fare nella vita, eccezion fatta per il matrimonio”. Spero in questo tu non abbia preso da me».

«Be’, non dipende mica solo da lei, sa». Erano le prime parole che Jimmy pronunciava da una ventina d’anni a quella parte, o almeno così mi sembrava. «Bisogna essere in due. Non è questa... come si dice» si interruppe e sorrise, «l’opinione comune?»

Jimmy è imprevedibile. Ora non gliene fregava più un cazzo di Tripp, né di mio padre. Sembrava solo felice che lo stessi tenendo per mano. E per la prima volta da quelli che mi sembravano secoli e secoli, stavo seduta immobile.

 

 

La benedizione

 

Avevamo preso una stanza in un piccolo motel a gestione familiare. L’insegna al neon di fronte all’entrata prometteva una piscina e la tv via cavo, con un’intensa luce azzurra che si riversava fino alla statale 28. La piscina era al centro esatto del parcheggio, completamente ricoperta da un telo di plastica per l’inverno. I proprietari erano una coppia di indiani di Delhi. Come fossero finiti nell’Ohio non lo so, ma tenevano il motel pulitissimo e sembravano abbastanza felici, molto loquaci e cordiali. Christy era nella vasca da bagno e si lavava i capelli. Ultimamente era affabile come non mai. La gravidanza aveva sollevato quel velo, quel sipario di depressione, che spesso sembrava portarsi drappeggiato addosso. Di solito Christy entra ed esce in un batter d’occhio da stati di estrema irritazione. Per esempio, se faccio cadere una buccia di banana sul tavolo o piscio sulla tavoletta del water, o se un’anta della credenza è rimasta aperta e lei ci sbatte la testa, in genere va su tutte le furie. Ma dall’inizio del secondo trimestre di gravidanza non faceva altro che grattarmi la schiena, giocherellare coi miei capelli o accarezzarmi le orecchie. Era quasi costantemente carina con me. Se succedeva qualcosa di fastidioso, tipo che sbagliavo strada a un bivio o perdevamo un paio di guanti, ci rideva su. Ogni volta che la toccavo le piaceva da morire. Scopavamo due volte al giorno. Il lato negativo è che era capace di mettersi a piangere guardando il telegiornale.

Comunque, farsi il bagno è una cosa che ha sempre adorato. Ha un beauty case apposta solo per la roba da bagno: sali, oli, schiume, minerali, non so che altro. Era lì dentro da più di un’ora. Io stavo seduto sul letto in jeans, a torso nudo, con la tv senza audio e il naso infilato in quel libro di preghiere.

Il Padre Nostro è sempre stata la mia preghiera preferita: E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Leggere tutte quelle benedizioni e quei voti mi stava facendo un certo effetto. Mi stavano riempiendo, come l’acqua che si raccoglie in una nube, e mi rendevano particolarmente emotivo. Non posso dire in tutta onestà che fosse il mistero di Dio a pervadermi, può darsi che si trattasse solo della familiarità che avevo con quelle parole o di semplice nostalgia, sta di fatto che quei brani mi facevano venire un groppo in gola. Sembravano staccarsi dalla pagina e formare un tessuto connettivo fra tutti i diversi momenti della mia vita: la mia prima comunione, le vigilie di Natale, il catechismo, la cresima. Cazzo, era stato durante un ritiro parrocchiale che avevo perso la verginità. Accorgermi che Gesù era stato presente ogni volta che mi era successo qualcosa di importante mi fece sentire vicino a lui, o quanto meno al suo nome. Era bello riavvicinarsi a quelle parole, come se ci fosse sempre stato un ordine, una presenza costante nella mia vita, benché io non fossi stato capace di vederla.

Pensai al fatto che la mia futura figlia non poteva assolutamente comprendere i rumori che di sicuro percepiva lì nel bagno, gli spostamenti del corpo della madre, gli echi delle piastrelle, lo sciacquettio dell’acqua, proprio come io non ero in grado di comprendere i movimenti e i rumori che davano forma alla mia vita. Cazzo, vi giuro, stavo leggendo quel libro seduto sul letto col rumore di Christy nell’acqua della vasca, e per un attimo mi sentii nelle braccia di Dio. Non so nemmeno cosa intendo per Dio, ma mi sentii abbracciare come non ero mai stato abbracciato prima: come se mi stessi muovendo insieme a una corrente elettrica nascosta e profonda, o a un corso d’acqua sotterraneo in piena. Mi trovavo sulla strada che ero nato per percorrere, e non me ne ero mai allontanato.

Passando dall’oscurità della camera da letto alla brusca luce fluorescente del bagno, abbassai il coperchio del water e mi ci sedetti sopra. Christy era completamente immersa sott’acqua, ma dopo un paio di secondi tornò in superficie. Si asciugò l’acqua e il sapone dagli occhi e mi fece un sorrisone scemo. Adesso nella pancia aveva un gonfiore grosso come un melone, e una sottile linea scura le risaliva l’addome. I seni erano voluminosi e sembravano galleggiare in mezzo alla schiuma.

«Posso leggerti qualche pezzo di questo?» chiesi, indicando il piccolo libro di preghiere che avevo in mano.

Lei annuì e si scostò i capelli dalla fronte infilandoseli dietro le orecchie. I giganteschi alluci giocavano con il rubinetto: fecero girare la manopola finché il getto d’acqua non si spense. Adesso non si sentiva più nessun rumore. Solo il leggero ronzio dei termosifoni e la mia voce rompevano il silenzio.

«Questa è la benedizione agli sposi, ok?» La guardai con apprensione, aspettando qualche gesto rassicurante.

Lei annuì. Coi capelli tutti bagnati e spiaccicati sulla testa, aveva gli occhioni pieni di attesa di una dodicenne.

«Dio pieno di misericordia» cominciai, con un filo di voce, inquieto, «ti ringraziamo per il tuo tenero amore, che ha mandato fra noi Gesù Cristo, lo ha fatto nascere da madre mortale e ha trasformato la via della croce in sentiero di vita».

Non alzai gli occhi. A leggere in pubblico sono un disastro, perciò mi sforzai unicamente di farle sentire bene le parole. «Ti ringraziamo anche per aver consacrato nel suo Nome l’unione dell’uomo e della donna. Con la potenza dello Spirito Santo riversa l’abbondanza della tua benedizione su quest’uomo e questa donna. Difendili da tutti i nemici. Guidali verso ogni pace. Fa’ sì che il loro amore reciproco sia un suggello apposto sui loro cuori, un mantello gettato sulle loro spalle e una corona poggiata sulla loro fronte».

Questo pezzo mi piaceva da morire; l’emozione mi filtrava in tutto il petto come acqua bollente. «Benedicili nel lavoro e nel tempo trascorso in comune, nel sonno e nella veglia, nella gioia e nel dolore, nella vita e nella morte. Infine, nella tua misericordia conducili alla mensa ove i tuoi santi banchettano in eterno nella tua dimora celeste» feci una pausa per assicurarmi di non perdere il controllo per la troppa emozione e cominciare a farfugliare; la vista mi si era annebbiata come se di fronte agli occhi avessi tre centimetri d’acqua, ma continuavo a non alzare lo sguardo dalla pagina. «Per Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, unico Dio, per tutti i secoli dei secoli».

Appena finii di leggere bum!, ricominciai a piangere. Non so spiegare bene cosa mi fosse preso, ma stavo praticamente scoppiando come un sacco troppo pieno. È che tutte quelle parole mi sembravano talmente intense e profonde: «UN SUGGELLO APPOSTO SUI LORO CUORI» «OVE I TUOI SANTI BANCHETTANO IN ETERNO». Avevo gli occhi rossi e gonfi. Quei brani mi stavano assestando vere e proprie mazzate. Io e Christy ci saremmo donati l’unica cosa che abbiamo davvero da offrire: il nostro tempo. Ci saremmo donati ogni minuto della nostra vita. Cazzo. Era chissà quanto tempo che non pensavo a Dio, e adesso ero inondato da una cascata di idee. Non sapevo cosa volesse dire «la via della croce» né avrei saputo dare una definizione di Spirito Santo, ma amavo quella ragazza, stavamo per sposarci e io mi sarei IMMERSO NELLA CELESTE MISERICORDIA DI MIO PADRE CHE AMA IN ETERNO.

«Jimmy, ti senti bene?» chiese Christy.

Io alzai gli occhi dal libro di tela rossa, a cui ormai ero aggrappato come un bambino alla sua coperta preferita, e l’espressione di Christy mi lasciò sconvolto. Era spaventata.

«Non è che hai avuto un’illuminazione mistica o qualcosa del genere, vero?» mi chiese, seria seria.

Ci pensai su per un attimo. «Be’, no, non proprio. È solo che sono parole bellissime, non ti pare?»

«A me sembrano... non lo so, mi fanno paura» disse dolcemente, muovendo piano le ginocchia di qua e di là, creando piccole onde di acqua saponata che risalivano le pareti della sottile vasca di plastica. Si alzò a sedere, con i seni che le scendevano pesanti e bagnati sul petto. «Questo genere di linguaggio» continuò sottovoce «mi fa sempre pensare che forse in un’altra vita sono stata bruciata sul rogo». Si sciacquò la faccia. «È roba che mi mette i brividi».

Mi sentii come se mi avesse mollato un cazzotto a bruciapelo. «Però in un certo senso è bella questa preghiera, no?» chiesi debolmente.

Lei scosse le spalle e tuffò di nuovo la testa sott’acqua.

Improvvisamente mi si oscurò del tutto la vista. Era come se fossi diventato cieco. Non riuscivo a vedermi la mano di fronte alla faccia. Senza dire niente mi alzai e uscii barcollando dal bagno illuminato, trovando a tentoni la strada fino al caramelloso letto matrimoniale da motel e alla luce soffusa dello schermo televisivo.

«Tutto bene?» gridò lei dal bagno. «Mi dispiace se quel brano mi mette la pelle d’oca, amore, ma è così. Parlare di Dio mi sembra talmente insensato». Ci fu una pausa, Christy cercò di mettere a fuoco il concetto. «È come scavare un pozzo proprio sulla riva di un fiume, capisci? L’acqua è già lì, non c’è bisogno di scavare per trovarla. Tutto quello che c’è di buono o di prezioso nella religione è sempre intorno a noi. Non c’è bisogno di andare in chiesa per trovarlo. A dire la verità, anche le chiese mi fanno venire la pelle d’oca. Ogni volta che entro in una chiesa, mi sembra che tutto quanto l’edificio sia fatto apposta per implorare il favore di una forza esterna, non so se rendo l’idea. Come se Dio, o qualche entità del genere, sia al di fuori di noi e si rifiuti di darci i suoi doni. Non me la bevo questa idea, che ci sia uno in cima a una montagna che distribuisce i suoi favori ma solo a chi glieli chiede con grande educazione. Io non me la bevo proprio, e tu?»

La ascoltavo guardando fisso nel vuoto, sempre più agghiacciato a ogni nuova frase.

«Io mi sa che ci credo in Dio» dissi, confuso. Non avevamo mai affrontato quel tipo di discorso. In teoria avrebbe dovuto essere una cosa importante: mi sorprendeva che l’argomento non fosse mai stato toccato. Oltre la porta socchiusa del bagno riuscivo a vedere il lavandino illuminato, ma nient’altro: solo il pavimento bagnato e lucido e il bianco accecante del lavandino. Incredibile, pensai, che da un momento all’altro potessi sentire di non conoscere affatto Christy, e di essere anche per lei quasi un perfetto estraneo.

C’è un punto in fondo al mio cuore dove mi sento in comunicazione con tutte le cose, non solo con gli alberi, con l’erba, con i cani, ma anche con i palazzi e con le scale, con i sassi e con i marciapiedi. È un posto dove regna un silenzio mortale e credo di non averci mai fatto entrare nessuno, anzi probabilmente anche volendo non ne sarei capace; un posto che è sobrio quando il mio corpo barcolla ubriaco, una coscienza alternativa che è immobile come un’antenna sintonizzata su qualche altra parte della galassia. Era questa parte di me che volevo portare al nostro matrimonio, un punto centrale di equilibrio da cui far partire i miei giuramenti. Immaginavo che quell’antenna segreta mi mettesse in comunicazione con l’eternità, qualunque cosa sia, e che fosse la parte di me che soltanto Christy percepiva e amava. Era la stessa parte senza tempo in lei che volevo sposare. Ma nell’oscurità di quella stanza di motel mi resi conto che, sposato o no, nessuno avrebbe mai potuto conoscermi del tutto: la parte più vera di me sarebbe rimasta sempre isolata e sola. Ero incapace di esprimere quella mia cazzo di fede limitata, e anche se ci fossi riuscito, l’avrei racchiusa in una definizione così melodrammatica che avrei finito per banalizzarla. Cominciai a provare la sensazione familiare di una rabbia accecante che mi si ingigantiva dentro.

«Senti» disse Christy, togliendo il tappo dalla vasca, «non mi dà fastidio se credi in Dio. Solo che mi hai messo un po’ paura, a vederti leggere quella benedizione come se fossi Mosè o qualche altro profeta».

«Mosè?» ringhiai, ascoltando il rumore dell’acqua che defluiva dallo scarico. «Che c’entra adesso Mosè?»

«Lo sai cosa intendo».

«No che non lo so». Certe volte Christy si dà l’aria di essere molto più intelligente di me. Avrei voluto spaccarle la testa contro un muro. Ero preso in un tale vortice di pensieri che avevo le vertigini. Mi faceva male lo stomaco. Le mie idee religiose erano così raffazzonate che non avrebbero resistito neanche all’esame superficiale di un bambino di cinque anni, e questo mi faceva incazzare a morte. Mi strofinai la fronte, infilandomi dolorosamente le dita nelle cavità oculari per alleviare un po’ della pressione che mi si stava accumulando nel cranio.

«Se io e te entreremo in comunione con lo Spirito Santo» disse Christy da dietro la porta, «saremo io e te a mettere in atto questa comunione, e credo che a nessun Dio degno di questo nome freghi un emerito cazzo se usiamo un rituale piuttosto che un altro, purché ci sia alla base una purezza di intenzioni, mi spiego?» Stava uscendo dalla vasca, avvolgendosi un asciugamanino del motel sottile e logoro intorno al petto e un altro intorno ai capelli. Nonostante la vista annebbiata riuscii a intravederla riflessa nello specchio, sopra il bagliore bianco del lavandino. «Quello che voglio dire è che non ho intenzione di giurare il mio amore eterno su un mucchio di frottole religiose in cui non credo. Non ce la faccio. Capito che intendo, tesoro?» Stava cercando di mantenere un tono pacato, per nulla aggressivo.

Io rimasi in silenzio, voltandomi verso lo sfarfallio azzurro della luce della tv. Sullo schermo sfilavano gli spot pubblicitari.

«Amore... ci sei? Amore?» Christy fece capolino dalla porta e mi guardò.

«Non sono frottole» dissi, sentendo il bisogno di prendere le difese di una religione a cui in definitiva non avevo prestato quasi nessuna attenzione per tutta la mia vita da adulto. Temevo che non farlo avrebbe significato tradire le mie origini e le mille piccole preghiere che recito ogni giorno in segreto. Continuavo a dimenticarmi di respirare.

«Mi dispiace di averle chiamate frottole, ok? Volevo solo fare la spiritosa» disse lei in tutta sincerità. «Però lo capisci che la fede cieca in questo tipo di cose causa le guerre e le più tremende atrocità, vero? Lo capisci?» Aveva quel suo tipico atteggiamento molto serio alla «non tollero stronzate» che io trovo quanto mai presuntuoso.

«Sì, la gente fa di queste cose» dissi io.

«Esatto, la gente che legge libretti foderati di rosso». Fece per tornarsene verso il lavandino.

«E dammi un po’ di tregua, che cazzo! A me sembravano parole molto belle. Mi vuoi mandare in galera per questo? Per dieci secondi mi hanno fatto sentire bene: avanti, sparami!» urlai, dandomi dei pugni in testa così forti che pensai di cadere dal letto. Certe volte lo faccio, mi viene una tale voglia di spaccare qualcosa che finisco per prendere a schiaffi la mia stessa faccia. Mi fermai per un istante e cercai di controllare la voce. Dal bagno veniva lo stesso spaventoso placido silenzio che segue sempre i miei scoppi d’ira. L’ho già detto prima, ma lo ripeto, c’è poco da scherzare: Christy odia che le si urli contro.

«Sai com’è... È tipo una canzone...» Tentai di assumere un atteggiamento nuovo, tranquillo. «Ti sei dimenticato che esiste, ma poi la senti alla radio e scopri che ti ricordi ancora le parole a memoria e sei felice come una pasqua di sapere che da qualche parte ancora la suonano e adesso puoi cantarla anche tu, come se la vita non ti stesse sfuggendo alla velocità di un cazzo di missile interstellare».

«Preferirei che non dicessi tutte queste parolacce» fu la sua unica risposta.

Per un minuto girai imbronciato per la stanza, senza guardarla, poi alzai il volume della tv e rimasi seduto in silenzio probabilmente più di un’ora. Facevano la replica di un vecchio episodio di «Babylon Five» e me la guardai mentre Christy si preparava per andare a letto e chiudeva bruscamente qualche valigia.

Mentre me ne stavo lì sul letto intontito, cominciai a pensare alla mia prima ragazza, Lisa. Dio santo, aveva un sorriso che ti metteva ko, tutto storto e sarcastico! Era cattolica e insieme ci divertivamo un sacco. Mi ricordo di una volta che la baciai nel parcheggio della scuola, mentre nevicava. Aveva la pelle della nuca bollente, e attraverso il piumino azzurro senza maniche riuscivo a sentirle le tette. Aveva appena preso la patente e stava in piedi fuori dalla Chrysler verde station wagon del padre. La neve che ci si raccoglieva sopra la testa come un buffo cappello ci faceva ridere. Lisa era una ragazza adorabile: capelli biondo rame, corporatura minuta – non assomigliava affatto a Christy. Mi amava come se ne andasse della sua stessa vita, come se il cuore le si dovesse spaccare in due alla prima delusione che ricevevo dal mondo. La sera di quello stesso giorno della nevicata andammo a casa dei suoi e pomiciammo sul divano del soggiorno davanti alla HBO che trasmetteva Terminator. Mi offrì il suo corpo – per giocarci, da toccare, da baciare – come un dono. Non vorrei che sembrasse un’osservazione sessista. Era il suo regalo per me. Io infilai la mano dentro di lei, facendo quei suoni soffici di bagnato, ma lei non sorrise né distolse lo sguardo per l’imbarazzo: semplicemente mi accolse, mi assorbì. Rivedo ancora la profondità dei suoi occhi nocciola. Quando la penetrai, mi sussurrò all’orecchio: «C’è qualcos’altro che posso fare per te?» e io venni all’istante. Fu come se il mio midollo spinale si fosse completamente svuotato di fluidi, lasciandomi paralizzato fra le sue braccia. Cazzo, quanto mi manca. Mi mancherà sempre. Certe volte ci soffro da morire. La nostalgia del passato è come una tortura fisica tangibile. Oddio, quanto avrei voluto ricordare ogni attimo della mia vita. Non dimenticare mai nulla. Se avessi saputo ricordare, allora ogni secondo che passava avrebbe avuto un senso, oppure sarebbe andato ad accumularsi con gli altri fino a formare una definizione, uno scopo. Ma Lisa l’avevo lasciata: l’avevo messa incinta, e lei era rimasta disorientata e confusa all’idea dell’aborto. Aveva pianto tutte le sue lacrime, aveva chiamato a casa mia per intere settimane... ma io l’avevo mollata. Una volta ogni paio d’anni o giù di lì ancora ci sentivamo. Aveva due figli. Mi diceva che non sopportava il marito, ma probabilmente lo diceva solo per farmi contento. Nessuno mi amerà mai più come lei. Il peso di tutti quei ricordi mi fa venire una voglia disperata della pace che immagino potrei trovare solo con una micidiale overdose di eroina, o ficcando il cranio sotto la ruota di un pullman in movimento.

Bum! Le nostalgiche fantasticherie in cui mi ero perso si infransero all’improvviso quando Christy spalancò la porta e si precipitò fuori dalla stanza, incamminandosi a piedi nudi nel parcheggio del motel. Balzai in piedi.

«Dove vai?» le gridai dietro.

«Solo a prendere un po’ di ghiaccio» rispose lei, apparentemente non più arrabbiata, e si mise a correre verso la reception, coi piedi che saltellavano sul terreno freddo come le zampette di un uccellino.

Quella era l’unica vera stranezza del suo comportamento dovuta alla gravidanza: aveva una fame insaziabile di ghiaccio. Passavamo la giornata in giro per la città a sbrigare commissioni in vista del matrimonio e lei per tutto il tempo masticava ghiaccio come un segugio alle prese con una costata. Crunch, crac, slurp. Crunch, crac, slurp. Mi veniva da strapparmi i capelli. Non sto esagerando, ne masticava in continuazione. In ogni posto dove ci fermavamo a mangiare ordinava un bicchierone di plastica pieno di ghiaccio. Aveva cominciato lo stesso giorno che aveva smesso di fumare.

Ero felice che avesse smesso, ma adesso toccava smettere anche a me, e lei era lì che sgranocchiava ghiaccio come un cavolo di orso polare.

«Oh, Jimmy, ohhh, Jimmy!» disse all’improvviso Christy, fiondandosi di nuovo nella stanza, aprendo e richiudendosi al volo la porta alle spalle.

«Che c’è, che c’è?» dissi io – sottovoce, chissà perché. Mi alzai in piedi, col panico che mi schioccava per tutto il corpo come una frusta. Da quando Christy era incinta, i misteri e i potenziali problemi della sua salute invadevano ogni istante della mia giornata.

«Guarda, guarda!» disse lei, e subito si gettò supina sul letto, alzandosi la maglietta per mostrarmi la pancia nuda. Io mi avvicinai e mi chinai sopra di lei.

«Accendi la luce» insistette, ora sottovoce anche lei. Io mi allungai e accesi la debole lucina gialla dell’abat-jour.

Allora: vi dico subito che non sarò neanche lontanamente capace di descrivere quello che vidi con la stessa grazia o bellezza che aveva la scena a guardarla di persona, ma voglio provarci lo stesso.

Una volta, dopo il suicidio di mio padre, appena arruolato nell’esercito, mi mandarono in servizio per quattro mesi dalle parti di Scagway, in Alaska, nell’ambito delle operazioni di smantellamento di una base. Parecchie volte laggiù, nelle notti fredde e nere di gennaio, ho visto l’aurora boreale, le luci celesti del nord, ed è stato IL MASSIMO. Una danza di luci contro il cielo, la stratosfera che forma piccole onde come l’acqua immobile di un lago colpita dalle prime gocce di pioggia, o che si increspa come un lenzuolo pulito di cotone gettato sopra un materasso. Il cielo sopra di me stava letteralmente giocando, ed era uno spettacolo meraviglioso, umiliante e buffo. Queste sono le uniche parole che ho per descrivere il momento in cui ho visto mia figlia muoversi nel grembo della madre.

«Tu puoi farci da guida, sai?» disse piano Christy. Avevo ancora la mano posata sulla sua pancia, per sentire mia figlia.

«Che vuoi dire?» le chiesi. Vedevo tutte quelle screziature gialle in fondo ai suoi occhi verdi.

«Non sarò sempre d’accordo con te, né capirò sempre i discorsi che fai, ma questo non vuol dire che sei in torto. Tu devi credere in te stesso. Hai un gran cuore, Jimmy, un cuore grosso così, e io nel tuo cuore ci credo. Ci credo più di quanto creda nei libretti rossi, ecco, va bene?»

Io ho una teoria secondo la quale se una donna vuole tenersi stretto un uomo basta che gli dica due cose: che crede in lui e che ha il cazzo grosso. Non ci vuole altro. Non c’è neanche bisogno che sia vero.

«Ce la scriveremo da soli la benedizione degli sposi» dissi, «in modo che piaccia a tutti e due. Va bene?»

«Questo si chiama parlare!» disse lei. «Sai una cosa, Jimmy? Ma non ti arrabbiare se te lo dico».

Ogni volta che fa questa premessa, so che mi incazzerò come una iena.

«Certe volte penso che tu abbia paura che superare tuo padre – come uomo, intendo – significherebbe ridicolizzarlo o tradirlo in qualche modo. Ma non è così. Se era un padre in gamba come te lo ricordi tu, sarebbe orgoglioso di te».

Fece una pausa, guardandomi per accertarsi di non aver ferito i miei sentimenti.

«Non sono arrabbiato» dissi, mentre lei si raggomitolava accanto a me sul materasso.

«Bene». Sospirò, chiuse gli occhi e si avvicinò ancora di più.

Io spensi l’abat-jour e la abbracciai stretta, fiero delle mie braccia muscolose. Aveva ragione, pensai: a Dio non interessava che parole usavamo, l’importante era il nostro scopo. Poteva essere passata un’ora, quando sentii il suo peso aumentare con l’arrivo del sonno. Io stavo ancora sorridendo al pensiero di aver visto la nostra bambina scalciare, e quasi senza accorgermene, per riflesso, parlai ad alta voce.

«Signore, ti prego per mia figlia e ti prego per Christy». Lo dissi piano, rivolto alla finestra e alle luci al neon del parcheggio, e la voce riecheggiò fragile e sottile nella stanza vuota. «Veglia su di loro e insegnami ad amarle sempre».

Mi interruppi per un attimo e mi chiesi se avevo la sensazione che qualcuno mi stesse ascoltando. Non ne ero sicuro. Dalla reception una musica indiana filtrava attraverso le pareti fino alla nostra stanza. Poi mi uscì di bocca un altro pensiero.

«Ti prego per tutte le madri e tutti i loro bambini. Ti prego per tutte le persone sole, per quelle che desiderano un figlio». Mi fermai di nuovo, sorridendo, forse perché mi sentivo scemo, o forse perché mi sentivo meglio. Fuori, un clacson suonava con impazienza.

«Ti prego anche per tutti i morti, e per i padri. Per tutti i papà: prego per loro». E poi aggiunsi, in tono più formale: «E anche per mio padre, grazie».

Grace, la gatta, saltò sul letto, spaventandomi per un attimo. Poi si arrampicò sulla schiena di Christy addormentata e sui suoi capelli neri. Strofinò il musetto bagnato contro la mia spalla. Chri­sty si rigirò sul fianco e la gatta schizzò verso il bordo del materasso, attenta a non farsi colpire dal movimento brusco di qualche braccio o gamba. Christy infilò la testa contro il mio torace. In quel momento mi apparve chiaro, con la facilità con cui si guarda la strada dal parabrezza di una macchina, che niente di tutto ciò era frutto di una mia scelta: dalla mia nascita in poi, tutto accadeva e basta, come una fila di fuochi d’artificio che si accendevano in successione. Mio padre, Lisa, Christy: eravamo tutti in caduta libera. Non avevo scelto io Christy: mi era capitata. E io ero capitato a lei. Che cazzo, a me piacciono le ragazze minute con la voce acuta e le mani piccole che ridono sempre; è quello il mio tipo. Mi sarei potuto innamorare di una così, di una cattolica come Lisa, o di una con la passione per le macchine potenti o di una meno intelligente di me, e invece no. Mi ero innamorato di Christy. La gatta strisciò sul mio petto e mi si piazzò dritta in testa. Lentamente cominciò a impastarmi i capelli come fa un panettiere con la farina. Nel petto le vibrò un mugolio di sommo piacere. Mi infilò le unghie nello scalpo, facendomi male ma non troppo. La beatitudine della gatta mi sembrava troppo intensa per giustificare un mio scossone liberatorio.

Poi, in silenzio, nel caso che Christy fosse ancora mezza sveglia, dissi una breve preghiera per Lisa, augurandomi che stesse bene. Poi, per buona misura, dissi anche una mezza preghiera per il primo marito di Christy, quel testa di cazzo.

E poi, mi sorpresi io stesso a pronunciare queste parole – probabilmente le avevo sentite da qualche predicatore chissà quando, ma al momento mi parvero farina del mio sacco: «Ti dono la mia vita» dissi. «Ti dono tutto me stesso. Qualunque cosa verrà, la accetterò».

Quando mi svegliai, ero nudo. Ho quest’unica assurda idiosincrasia: a volte, nel sonno, mi spoglio da capo a piedi.

 

 

Chance

 

Sarebbe bello pensare che un’esperienza come quella delle nozze si viva in coppia, ma non è così. Qualunque tipo di cerimonia scegliate, resta comunque un’esperienza individuale. O quanto meno io l’ho vissuta così.

Ero seduta in una delle salette parrocchiali della cattedrale di Cincinnati, e la mia amica Chance mi stava facendo la manicure. Alla mia destra, sopra di me, era appeso il ritratto di un Gesù malridotto inchiodato alla croce. Guardando il suo viso sofferente mi venne in mente la frase: «Il regno dei Cieli è come un seme di senape» che a me è sempre suonata più buddista che cristiana. Il paradiso è qui, in ogni momento. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno ce l’abbiamo già. Quello che ti ammazza sono le aspettative. Non so pensare a un evento che avessi caricato di maggiori aspettative del giorno del mio matrimonio.

«Ti tremano le mani» disse Chance. I capelli biondi ossigenati le cadevano davanti agli occhi. Era arrivata in macchina il giorno prima con il vestito, il marito Bucky e il figlio di otto mesi, Griffin.

«Lo so» dissi io. «Dammi un’altra di quelle». Indicai il mucchio di pasticche alla menta piperita di cui si era riempita la borsetta.

«Non hai bisogno di prenderne un’altra» rispose con calma.

«Invece sì» feci io con tono implorante, e poi aggiunsi. «Che dici, me lo dovrei mettere il velo?»

«Assolutamente sì» disse Chance, dandomi uno strattone alla mano perché smettessi di muovermi ma senza accennare minimamente a prendere una mentina.

«Io credo di no». A dire la verità, avevo paura di sposarmi. L’idea di ritrovarmi con due matrimoni falliti era paralizzante, ma si trattava di una possibilità reale. Dentro di me viveva una zingara, una donna potente con tanti braccialetti tintinnanti ai polsi, che faceva un casino infernale.

«Stai ferma» sussurrò Chance, mentre continuava a passarmi lo smalto sulle unghie.

«Ti prego, dammi una di quelle mentine» ripetei. Chance mi ignorò e continuò a lavorare con aria decisa. Fuori dalla porta sentivo l’organista della chiesa che suonava una qualche specie di preludio.

«Ti rendi conto di come sono diventata?» dissi, riferendomi alla mia grassezza.

«Ehi, bella, guarda che il vestito che hai addosso è mio. Non sei mica una botte». Chance scoppiò a ridere, tirandomi su una mano per soffiare sulle unghie. «Sei bellissima».

«Dici davvero?» chiesi, con le braccia tese verso di lei. «Non credi che alla gente farò pena?»

Quel vestito bianco teso intorno alla mia pancia sempre più gonfia mi metteva in imbarazzo.

«A me non fai pena per niente, sono felice per te. Te lo meriti, Christy. Tutte le cose belle che ti capitano, te le meriti». L’anticamera in cui stavamo sedute era accogliente e calda, piena di candele e ninnoli. Il termosifone nell’angolo era quasi incandescente. La pelle del viso di Chance era sana e arrossata. «In piedi» ordinò.

«Perché dovrei mettermi il velo?» chiesi di nuovo, mentre alzandomi mi controllavo le unghie smaltate. L’anello di fidanzamento che avevo al dito brillava come la fiaccola della mortalità. Lo scopo ultimo del matrimonio, pensai, doveva essere qualcosa di diverso che restare insieme per sempre, perché alla fine saremmo stati comunque divisi. Uno di noi, o io o Jimmy, sarebbe morto per primo. Magari sarei stata io. Avrebbero cancellato la mia carta di credito. La mia patente non sarebbe servita più a nessuno. Non c’era nessun traguardo, nessuna gara da vincere. Lo scopo doveva essere un altro.

«Perché mi devo coprire la faccia?» chiesi.

«Perché è carino così» disse Chance, alzandosi in piedi a sua volta. Portava un vestito blu cobalto che non le avevo mai visto prima e le stava da dio: si intonava ai suoi occhi.

«Tu dici?»

«Sì, giuro». Chance mi sistemò il vestito intorno alle spalle. In quel momento capii che il matrimonio poteva essere una specie di condizione di santità, uno spazio da cui scrostarmi di dosso il narcisismo e approfondire la mia capacità di donare. Nel corso degli anni avevo sprecato tanto tempo e tante energie alla ricerca di una casa, quando casa, per me – cominciavo a rendermene conto – significava semplicemente essere vicina alla mia capacità di amare.

«Secondo te ce l’hanno un po’ di birra da queste parti?» disse Chance, mentre andava a raccogliere il velo da una sedia lì accanto.

«Ne dubito» risposi.

«Se la birra è finita, avviamoci all’uscita» disse Chance con un sorrisetto, recitando un adagio a noi familiare. «È ora, tesoro mio. Sei pronta?»

Mio padre stava aspettando impaziente fuori dalla porta, in attesa del segnale di ingresso in chiesa.

«Ti rendi conto che sto per diventare la mamma di qualcuno?» dissi, guardandomi la pancia. «Succede tutto così in fretta».

«Tutto cosa?»

«Non so... la vita». Crescendo avevo fatto la drammatica scoperta che le favole non erano vere: gli alberi non parlavano, le aquile non scendevano a prenderti fra gli artigli per portarti via lontano, le fate non danzavano nella foresta. C’era una profonda tristezza nel rendersi conto che le storie fantastiche erano tutte leggende. Il mondo non era affatto diverso da come appariva. Ma ultimamente, forse per l’idea del matrimonio, o forse per la gravidanza, nell’aria stava tornando una certa magia infantile. Ero sicura al cento per cento che gli uccelli non fossero messaggeri alati del paradiso? Che le balene non fossero alieni arrivati dallo spazio?

«Della maternità non è proprio il caso che ti preoccupi; se non altro quella è una cosa che viene naturale» disse Chance, giocherellando con il velo. «Sposarsi, quello sì che lo chiamo innaturale».

«Com’è la vita da moglie?» chiesi. «Ti trovi bene?»

«Te lo dico dopo». Sorrise con l’aria di chi nasconde un segreto. «Il mio rossetto è a posto?»

«Dimmelo adesso» insistei.

«È uno strazio assoluto» cominciò lei, in tono assolutamente sincero. «Dai a tuo marito tutto quello che hai da dare, e non è mai abbastanza. Lo guardi con insofferenza e ti sembra che sia l’unico responsabile della rovina della tua vita, e quel che è peggio è che hai ragione». Si rigirò il velo fra le mani e si mosse verso di me. «Lui è altrettanto insofferente e tutti i tuoi doni li dà per scontati. Per quanto ti ci sforzi, non riesci proprio a ricordare come ti sei potuta innamorare di un tale mostro di pigrizia e di egocentrismo. La notte piangi per la solitudine, proprio come hai fatto per tutta la vita, solo che adesso hai qualcuno accanto nel letto e quel tipo di solitudine è dieci volte peggiore di quella che hai mai provato prima». Si interruppe per fare un lungo sospiro e continuò. «E poi un Natale siete in macchina, a dieci all’ora in mezzo a una bufera, tutti e due muti e impietriti dal terrore di finire fuori strada, però arrivate a casa sani e salvi. Cominciate a ridere e a baciarvi e ti rendi conto che per tutto questo tempo, mentre eri scostante e lagnosa, in effetti non l’hai mai guardato negli occhi, e invece adesso che lo fai riconosci il miglior amico che tu abbia mai avuto e ti pare impossibile che per tutto questo tempo ce l’hai avuto seduto proprio a fianco».

«Mi sa che era meglio che me lo dicevi dopo» dissi io.

Chance fece un passo indietro, sempre col velo in mano, e mi guardò. «Dovrebbe esserci tua madre, Christy» disse. «Vorrei che vedesse quanto sei bella oggi».

«Sì, anch’io». Negli ultimi tempi avevo pensato molto a mia madre. E se anch’io fossi scappata da mia figlia come lei aveva fatto con me? Non sarà così, mi ripromisi, ma il giuramento mi risuonò falso nel petto.

Mi tornò in mente una domenica – erano i primi tempi che uscivo con Jimmy – che ci mangiammo un po’ di funghetti allucinogeni e passammo un pomeriggio intero persi in un bel trip. La giornata fu lunga e piena di avventure. Andammo al cinema e ai giardinetti, ridemmo sull’altalena, mangiammo specialità etiopi speziate. Ci stavamo innamorando ed era primavera: quell’unica settimana di fine aprile o di inizio maggio in cui tutti gli alberi di Albany fioriscono e i petali cadono come pioggia sulle strade.

Quella sera finimmo a casa mia e Jimmy si sedette sul pavimento in mezzo all’ingresso, con la porta aperta. Guardando le macchine che passavano di fuori, lasciandosi accarezzare il viso dall’aria primaverile, cadde in una specie di trance. Avrà passato mezz’ora soltanto a muovere la testa di qua e di là seguendo il traffico. Io mi preparai un tè e mentre ero in cucina a berlo a piccoli sorsi, aspettando che si raffreddasse, ebbi una visione. Dal punto in cui stavo vedevo la porta di casa, ma quando puntai gli occhi su Jimmy, era scomparso. Al suo posto, nell’ingresso del mio appartamento c’era un enorme lupo grigio che dondolava la coda. Non distolsi lo sguardo e continuai a respirare con pazienza, aspettando che l’allucinazione svanisse. Il lupo mi guardò, e dentro le iridi gialle dei suoi occhi brillanti riconobbi perfettamente Jimmy. L’animale non mi era estraneo e io non avevo paura. Mi faceva la guardia. Osservai la sua pancia alzarsi e abbassarsi al ritmo del respiro. Vidi le orecchie muoversi di scatto al soffio del vento. Passarono diversi minuti, e l’allucinazione continuava. Alla fine guardai a terra, e dove avrebbero dovuto esserci i miei piedi vidi due zampe grigie. Anche il mio corpo era coperto di una bellissima pelliccia grigia maestosa, e mi accorsi che la mia vista non distingueva più i colori.

Io e Jimmy ci conoscevamo da tantissimo tempo. L’avevo sentito la prima sera che mi aveva toccato, e adesso sapevo che era vero. Mi portai dietro quella visione di noi due in forma di lupo per tutta la nostra storia: mi piaceva immaginare che io e lui avevamo viaggiato insieme nel tempo e ci eravamo incontrati in diverse manifestazioni.

«Insomma, lo so che non ti va di portare questo coso» disse Chance mentre mi piazzava il velo sulla testa e cominciava a sistemarmi i capelli tutto intorno. «Vuoi essere leale e chiara, non vuoi nasconderti o mascherarti o fingere di essere qualcosa che non sei». Incrociò il mio sguardo e mi sorrise. «Ossia, una vergine». Chance faceva la fisioterapista all’ospedale dove lavoravo anch’io, e sapeva come toccare la gente. Le sue mani erano calme e davano sollievo.

«Pensi che vada bene portare il vestito bianco, perché è quello che tutti si aspettano ed è bello da vedere, ma in fondo al cuore sai di non essere innocente e di non essere più una bambina, e allora pensi che il velo sia eccessivo, o peggio, ipocrita: e di sicuro non vuoi sentirti un’ipocrita lì davanti all’altare. Dico bene?»

«Mi serve un’altra di quelle mentine» dissi, senza rispondere alla sua domanda.

«No che non ti serve» ribatté subito lei. «Ma adesso ti dico come stanno le cose. Prima di tutto, il velo è sexy. Questo è un fatto. Non so come mai, ma tutta la faccenda della verginità è arrapante da morire. E poi quando il prete fa» – assunse un tono di voce profondo e solenne – «Adesso puoi baciare la sposa, bisogna che tuo marito debba alzare il velo per baciarti». Mi sollevò furtivamente il velo dalla faccia. Era vero, faceva un certo effetto.

«Per favore, me la dai un’altra mentina?» le chiesi.

«No» rispose lei laconica. «Lo sa Dio: tu non sei innocente. Credimi, non mi sono scordata che troietta che sei – e ci sono un paio di ragazzi dell’università di Syracuse che di sicuro se lo ricordano ancora – ma io so una cosa che tu non sai, ed è questa».

Mi riabbassò il velo sugli occhi, rivolgendomi la sua migliore occhiata da vecchia volpe. «È questa: tu sei vergine. Lo so che hai una creaturina di quattro mesi nella pancia». Mi ci batté sopra le dita. Cercai di tirarla indietro trattenendo il respiro, ma era impossibile.

«Neanche io pensavo di essere vergine quando mi sono sposata» disse Chance. «Ma ci vuol altro che un rapporto sessuale per rompere l’imene, cara mia».

Chance sapeva come parlare. Avevamo vissuto insieme per un anno, prima che si sposasse, e non c’era persona al mondo con cui era più facile affrontare un discorso.

«Non è facendo sesso con un uomo che ami che perdi la verginità, né la perderai consumando il tuo matrimonio stanotte. La perderai mangiando il frutto dell’albero della conoscenza, dico bene?» Non aspettò una risposta. Mi sollevò le braccia, invece, per aggiustare con una tiratina qualche punto del mio vestito mentre continuava a parlare. «Tutte le allegre scopate che ti sei fatta nella vita, te le sei fatte senza neanche sapere dove sta di casa, la conoscenza: questo è evidente. Se avessi avuto la conoscenza, tre anni fa avresti dato retta a me e sposato quel tipo, Jason, e adesso ti ritroveresti con un milione di dollari in banca e avresti potuto buttare dalla finestra quel suo tappeto zebrato, o qualunque cosa fosse che ti faceva passare ogni fantasia. Ma non l’hai fatto; invece ti sei data alla pazza gioia e ti sei innamorata come una sedicenne cretina, ed è per questo che ti voglio bene ed è per questo che sei ancora vergine».

Mi fece riabbassare le braccia, girare di nuovo di spalle, e cominciò a sistemarmi il dietro del vestito.

«Perderai la verginità dopo che avrai partorito e ti sarai rimessa, quando abbraccerai il tuo uomo e farete di nuovo l’amore. Allora veramente mangerai il frutto dell’albero della conoscenza». Accanto alla porta c’era un bouquet di fiori, regalo di mio padre. Il leggero, delizioso profumo di peonie stava cominciando a pervadere la stanza. «Quando lo trovi di nuovo sexy dopo che sai cosa significa portare dentro il suo seme in gestazione per dieci mesi – e guarda che sono dieci, non nove, non lo so chi ha messo in giro questa voce – quando fai l’amore con quella consapevolezza nel cervello, allora sei davvero una donna matura. È allora che ti guardi intorno e scopri che sei nuda in mezzo al Giardino dell’Eden. Fino a quel momento, sei una ragazzina».

Adesso Chance mi girava intorno, a trecentosessanta gradi, studiando ogni angolazione. Io ero in piedi in mezzo alla stanza, imbarazzata, e cercavo di decifrare la sua espressione.

Il futuro mi stava venendo incontro a tutta velocità e a piena potenza, come un’ululante locomotiva a vapore che sfrecciava a rotta di collo dentro un tunnel mentre io ero in piedi sulle rotaie a fissare i fanali. Il futuro non scherzava mica. Non c’era modo di fare dietrofront: questa gravidanza era una porta aperta. Lo sapevo e volevo attraversarla, ma mi sembrava che tutte le mie ossa stessero cambiando posizione. Tutto quello che vedevo mi pareva solo l’ombra di quello che non potevo vedere. Il mio matrimonio era imminente, e con quello la mia infanzia si sarebbe conclusa per sempre.