Una passeggiata al sole

Avevamo prenotato la suite per la luna di miele all’hotel Fairmont di New Orleans. La stanza era fastosa, coi soffitti alti e pieni di crepe. Probabilmente, cento anni prima il Fairmont era stato definito «stravagante». Ricchi tappeti di velluto rosso rivestivano i corridoi, la hall era sfarzosamente adorna di giganteschi lampadari di cristallo e sulle pareti esposte alla vista erano dipinti affreschi bellissimi e complicati; ma come in tutta New Orleans un accumularsi di macchie aveva slavato e sbiadito i colori riducendoli a una pallida versione di quelli che erano un tempo. L’intera città sembrava immersa in una patina di alcol.

Dopo aver preso possesso della stanza, mi spogliai e cominciai a prepararmi per il mio consueto bagno serale. Dalla vasca vedevo Jimmy che faceva flessioni davanti alla tv, guardando la fine di una partita di basket. Di tanto in tanto si fermava un attimo e mangiucchiava una fetta della pizza ormai fredda rimasta nella scatola sul pavimento.

«Possiamo sentire un po’ di musica?» chiesi, sentendo i telecronisti che commentavano il risultato finale.

Il televisore aveva una radio incorporata, e Jimmy spense la partita e girò la manopola per cercare una stazione. Con la luce sul soffitto spenta, la tv spenta e nessun’altra lampada accesa nella camera, un fioco chiarore giallastro proveniente dalla città sette piani più in basso si spandeva per tutta la suite, dandole un’aria da fotografia virata in seppia. Seduto sulla moquette folta e malridotta dell’albergo, Jimmy già sembrava un ritratto d’altri tempi. Portava solo i boxer, e la carnagione delle gambe e del petto era magnifica, dolce e dorata come un frullato al malto. Si alzò e venne deciso verso di me. Capii che voleva ballare, ma con addosso solo un asciugamano e completamente sobria com’ero, non mi sentivo pronta. Ballare mi inibisce, a meno che non sia ubriaca. Dall’altoparlante della tv usciva gracchiando una vecchia melodia di Frank Sinatra, e dalla reazione di Jimmy capii che quel pezzo gli piaceva molto. Mi tirò contro di lui, muovendo le labbra in silenzio insieme alle parole della canzone. Mi prese le mani con gesto formale e cominciammo a ballare come se fossimo alla festa di fine anno delle superiori. L’asciugamano mi cadde dal petto e finì a terra, lasciandomi nuda. Jimmy non mi permise di chinarmi a raccoglierlo e mi portò a passo di valzer fino in mezzo alla stanza.

E va bene, decisi: gli concedo quest’unico ballo senza veli.

Jimmy adorava ballare. Il padre gli aveva insegnato un po’ di vecchi passi che lui probabilmente usava per far colpo su ogni nuova ragazza che incontrava, ma erano comunque divertenti, e tutto sommato scendere in pista con lui era sempre una cosa facile e rilassante. Frank Sinatra ci faceva girare per la stanza, mentre io cercavo il punto fermo al centro del nostro movimento. E intanto, contro la mia pancia sentivo che a Jimmy stava venendo duro.

Mi immaginai come un salice piangente, flessuoso e cedevole ma sotto sotto forte e ben radicato. Con la sua erezione che mi premeva addosso cominciammo a muoverci più lentamente, tenendoci soltanto abbracciati. Quando la canzone finì e ne iniziò un’altra, lui scivolò in ginocchio, baciandomi la pancia e facendomi il solletico intorno all’ombelico con le labbra. Poi si sistemò sotto di me, con la bocca fra le mie gambe. Io rimasi in piedi, un po’ impacciata, al centro della stanza. Avrei voluto sedermi e nascondermi dalle finestre, ma non trovavo la forza di spostarmi.

Sentendo Jimmy lì in mezzo alle mie gambe, che mi baciava, mi leccava e mi amava, provai quasi pena per lui. Sarebbe stato davvero felice, da sposato? È una caratteristica infantile e stupida, ma la passione di Jimmy per l’avventura era una cosa che ammiravo. Negli occhi aveva sempre il desiderio di dimostrare quanto valeva. Mi chiesi se diventare un padre di famiglia gli sarebbe bastato.

Mio padre e mia madre avevano mai ballato così, come sposini novelli che si abbracciano e si leccano pregustando una vita intera da passare insieme? Probabilmente sì.

Jimmy mi prese in braccio e mi portò sul letto. A volte, mentre facevamo l’amore, io lanciavo una specie di invocazione alle divinità antiche, Apollo o Afrodite, chiamandole dentro la camera nella speranza di creare un incantesimo.

Onde di piacere cominciarono a sopprimere l’intensa attività del mio cervello. Ora il mio corpo riposava sulle lenzuola di cotone del nostro letto e la testa di Jimmy era sepolta fra le mie gambe, mentre le mani si allungavano dolcemente ad accarezzarmi i seni gonfi.

Da bambina, ero ossessionata da tutto quello che aveva a che fare con le circostanze della mia nascita. Tutte le storie che raccoglievo sul primo incontro fra i miei genitori, il mio concepimento e la mia venuta al mondo, nella mia testa prendevano forma di leggenda. A volte quando ero in compagnia di mio padre ci capitava di incontrare qualcuno, in libreria o facendo la fila per entrare al cinema, che conoscevo di nome da un vecchio aneddoto, una persona con cui i miei erano stati in confidenza all’epoca in cui erano innamorati, e mi pareva di stringere la mano al personaggio di uno dei miei romanzi preferiti. Adesso mi sembrava di avere un ruolo in una saga epica ancora più grande.

Solo quattro mesi prima, Jimmy aveva insistito per portarmi a pescare e in una stazione di servizio vicino al lago Ontario avevamo chiesto a un vecchio commesso, Wayne Sheffle, se sapeva consigliarci qualche punto buono. Lui ci parlò di una caletta nascosta dove c’erano pesci in abbondanza; era nella sua proprietà, ma potevamo tranquillamente piantare la tenda lì, se volevamo. «Mi piace sempre dare una mano agli innamorati» ci disse, facendoci l’occhiolino. E così per tre giorni campeggiammo lì, facendo il bagno nudi in uno stagno gelido, raccogliendo fiori e facendo l’amore in una tenda azzurra da due mentre fuori pioveva. Era stato o durante il temporale o più tardi, la seconda notte, che avevamo concepito la nostra bambina. La terza notte, due tizi del posto arrivarono alla caletta sparando colpi di fucile e gridandoci di andarcene dalla loro terra. Erano visibilmente ubriachi e pericolosi. Jimmy uscì dalla tenda e gli andò incontro. Il più grosso dei due si fece avanti e gli piantò il fucile dritto in faccia.

«Levatevi dal cazzo» biascicò l’uomo, con la canna del fucile puntata al petto di Jimmy.

Jimmy rimase un attimo in silenzio e poi gli tese la mano. «Piacere, Jimmy Heartsock. Lei come si chiama?»

Per un momento l’uomo apparve confuso. «Non importa come mi chiamo, vattene dalla mia cazzo di proprietà».

«Wayne Sheffle mi ha detto che potevamo campeggiare qui» disse Jimmy, ancora con la mano tesa e il fucile in faccia.

«Wayne Sheffle è un coglione, e questa terra l’ha rubata a me».

«Sì, infatti, anche a me è parso un coglione» disse Jimmy.

L’uomo abbassò lentamente l’arma e un po’ a malincuore strinse la mano a Jimmy. Farfugliando un monologo da ubriaco che aveva a che fare con atti notarili e genitori, il tipo spiegò come Wayne Sheffle l’aveva fregato. Alla fine i due se ne andarono, dicendoci che non c’era problema se restavamo a campeggiare un’altra notte, ma che se rivedevamo Wayne dovevamo dirgli che la storia non era finita lì. Alle prime luci dell’alba facemmo i bagagli e tagliammo la corda, ma senza saperlo Jimmy aveva superato brillantemente la sua prima prova di padre: difendere me e il nostro embrione fecondato da un paio di campagnoli sbronzi.

Ora il mio poema epico si intrecciava a quello di mia figlia. Un giorno mi avrebbe potuto chiedere: «Che cos’è che ti piaceva tanto di papà?» «Perché vi siete sposati in Ohio?» Forse di lì a dieci anni saremmo passati in macchina proprio davanti a quell’albergo, accompagnandola alla colonia estiva, e le avremmo indicato il posto della nostra luna di miele. O forse saremmo stati divorziati.

Stai ferma, Christy, mi dissi.

Torcendomi di qua e di là sul morbido materasso dell’albergo, invocai gli dei e cercai di non preoccuparmi troppo mentre Jimmy si muoveva sopra di me. Stando attento a non schiacciarmi la pancia mi baciò, con la bocca umida del mio sapore salato, e mi entrò dentro. Qualunque cosa ci riservasse il destino, era un sollievo rendermi conto di essere un semplice personaggio di secondo piano all’interno di un poema molto più lungo e in continua espansione. Mi rigirai e mi misi seduta sopra di lui. Jimmy era bellissimo. Questa faccenda del matrimonio ci stava spompando. Se tutto andava per il verso giusto, pensai, probabilmente avremmo continuato di questo passo per il resto della mia vita.

 

La mattina dopo mi svegliai alle cinque e mezza, mi vestii e mi avventurai fuori dall’albergo proprio mentre l’intera area metropolitana cominciava ad addormentarsi. Gli inservienti nella hall erano tutti neri come l’ebano, parlavano con un accento forte e sensuale e indossavano principesche uniformi rosse e oro. Mi fecero cenni di saluto e mi sorrisero in silenzio, come per guidarmi in un viaggio a ritroso nel tempo fino agli inizi del secolo. Avevo fame e volevo un po’ di ghiaccio.

Godendomi il silenzio attraversai da parte a parte il vasto atrio deserto dell’albergo e scesi le scale fino in strada. Fuori l’aria non era ancora rovente, ma si capiva che lo sarebbe diventata; era stato il Carnevale più caldo degli ultimi sessantasette anni, o almeno così aveva detto la radio il giorno prima. Ghiaccio, continuavo a pensare. Mi ci vuole un po’ di ghiaccio.

Come la città, anch’io odoravo di sesso. Il viale principale su cui affacciava il Fairmont era fiancheggiato su entrambi i lati da transenne di metallo della polizia statale della Louisiana, che si estendevano una accanto all’altra a perdita d’occhio. Al momento, però, non passavano carri e non c’era gente che urlava e applaudiva; c’erano solo cumuli su cumuli di immondizia che coprivano la strada: panini lasciati a metà, cartoni di pizza rosso fuoco, migliaia di bicchieri di birra, pacchetti di sigarette e bottiglie verdi di Heineken che rotolavano avanti e indietro vicino agli scoli delle fogne. Buste di plastica trasparenti si gonfiavano e svolazzavano al vento; giornali abbandonati erano stesi sull’asfalto insieme a rimasugli di gamberi e scampi, schiacciati fin dentro gli interstizi fra le lastre dei marciapiedi. Su ogni bidone dell’immondizia pieno a ogni angolo di strada erano ammonticchiati bicchieri di plastica con su scritto PAT O’BRIAN’S HURRICANE. Sotto i miei piedi, milioni e milioni di perline spezzate: collanine gialle, rosse, verdi, viola e arancioni. Erano in ogni fessura e in ogni anfratto; penzolavano dai rami degli alberi, dai lampioni e dalle statue. Il giorno prima, quando io e Jimmy eravamo arrivati, l’intero viale era un mare di folla profondo migliaia e migliaia di persone. Bambini, adulti e anziani di ogni razza erano ammassati sui bordi, ad afferrare e implorare quelle collane di perline che venivano gettate dai carri di Carnevale. Ora in giro non c’era quasi nessuno. Fuori da un locale chiamato Piccadilly Lounge vidi un giovane nero con un paio di pantaloni blu e una camicia bianca coi bottoni sul colletto. Aveva steso due tappeti sui parchimetri e li stava battendo a ritmo letargico con una scopa.

Attraversando la strada per dirigermi verso il Quartiere Francese, scavalcai il teschio bianco e secco di un ariete con file di perline gialle e viola avvolte intorno alle corna e penzolanti dalle orbite degli occhi. Giaceva inspiegabilmente fra la strada e il marciapiede, accanto a una bottiglia di plastica verde da un litro e mezzo e qualche contenitore per hamburger in polistirolo rosso.

Il sole doveva ancora sorgere dietro i bassi edifici del Quartiere, ma fra una casa e l’altra piovevano raggi di luce arancione brillante e calda, che creavano lunghe ombre sottili. Da dietro un angolo sbucò una ragazza con una cortissima minigonna nera, un top abbottonato alla meglio e i capelli arruffati e sconvolti, impigliati sotto l’elastico della maschera da gatta che portava ancora sul viso. Aveva le gambe nude e le calze in mano. Mi passò accanto senza dare segno di notarmi, fluttuando come un fantasma.

Alla mia destra e alla mia sinistra, le vetrine dei negozi chiusi erano piene di pubblicità di spettacoli a luci rosse: LA DOLCE VITA DIVENTA... PICCANTE – STRIPTEASE MASCHILI E FEMMINILI. Dietro il vetro erano attaccate foto di ragazze nude con riquadri neri a coprire i genitali. Sul fianco di un palazzo di mattoni c’era una grande réclame dipinta a mano in vernice verde sbiadita, vecchia di chissà quanti anni: BRANDY CON ZENZERO E MENTA. Ecco, volevo un po’ di quello, con ghiaccio. Su una panchina c’era un uomo addormentato con indosso un giubbotto jeans nuovo di zecca e centinaia di collanine multicolori al collo. La parte di marciapiede intorno a lui mandava un acre odore di vomito.

Svoltando a destra per Rue Dauphine, incrociai due tizi vestiti come l’Uomo di Latta e il Leone Codardo del Mago di Oz. Mi chiesi che fine avevano fatto Dorothy e lo Spaventapasseri. Forse erano ancora stesi privi di sensi sul divano di una sala da ballo piena di altri personaggi di fantasia addormentati.

La gravidanza cominciava a piacermi un sacco e già provavo una dolce nostalgia, la consapevolezza che in futuro avrei desiderato tornare in quel posto e che quella mattina in particolare era uno dei momenti d’oro della mia vita. Dondolando un poco sui fianchi continuai a camminare, osservando la bellezza delle strade deserte. Ero già stata a New Orleans un’altra volta, da bambina, ma non mi ricordavo quasi nulla, a parte le foto. Quell’anno, poco dopo Natale, mio padre mi aveva portata a vedere un falò tradizionale in qualche posto nel cuore del Quartiere Francese. Su un’aiuola erbosa fra due grandi viali, alcune famiglie avevano ammucchiato i loro alberi morti. I bambini assistevano allo spettacolo bevendo cioccolata calda nell’aria umida e balsamica, mentre le piante prendevano fuoco in fretta, come bustine di fiammiferi. Gli addobbi argentati si scioglievano e si sollevavano nel cielo. Col profumo di pino bruciato che mi solleticava le narici, guardavo palle ricoperte di seta deformarsi e squagliarsi. Di quella sera era rimasta una foto in cui stavo seduta sulle spalle di mio padre con una coroncina bianca in testa e una bacchetta magica da fata che mi penzolava dalla mano. In me non esisteva più nessun legame tangibile con quella bambina. E un giorno, fra non molto, pensai, non avrò più nessun legame con la donna che sono adesso. È incredibile quanto mi sembri permanente ogni attimo, come se la persona che sono in un determinato momento rimanesse costante. A sette anni ho giurato a me stessa che non avrei mai fatto sesso, per quanto mi faceva schifo l’idea. A undici anni mi pareva impossibile che sarei mai stata sposata o avrei avuto un lavoro. Adesso non so immaginare la morte. Mi rendo conto che arriverà senza sforzo, come il sesso, o si presenterà inevitabile come l’età adulta, ma non riesco proprio a percepirla come qualcosa di reale. Camminando per le strade di New Orleans quella mattina, mi sentivo più vicina che mai alla vita nell’altro mondo: tutto il Quartiere Francese puzzava come se fosse defunto da quarant’anni. La mortalità era palpabile. Ma avevo la sensazione che anche quella sarebbe stata transitoria ed effimera come i miei sette anni.

Il sole spuntò da dietro le case e il chiarore del giorno fu completo. In un attimo, con quel solo tocco di luce, l’umore e la composizione dell’intera città si alterarono. Una ventina di metri più in là una ragazza rise sguaiatamente a cavallo delle spalle del fidanzato, che galoppava come un pony verso Bourbon Street. Non badavano a niente e a nessuno. Al sorgere del sole, per qualche motivo mi sembrò di essere esattamente dove dovevo essere: su quella strada, a quell’ora, con quella bambina in grembo e il mio novello sposo ancora addormentato nella nostra camera. Non potei trattenere un sorriso nel rendermi conto con chiarezza cristallina che, a prescindere da quello che sarebbe successo in futuro, tutto era esattamente come doveva essere.

Abbi fede, sembrava annunciarmi quella luce.

E se sempre, ogni giorno, qualunque cosa facciamo, fossimo sempre esattamente nel posto giusto, esattamente al momento giusto?

Quando arrivai alla fine del Quartiere Francese vidi che su una delle strade principali c’era un fast food aperto. Entrai e comprai un bicchierone di succo d’arancia con dentro un quintale di cubetti di ghiaccio perfetti.

Tornai verso l’albergo ripercorrendo Rue Dauphine, col sole di New Orleans che si alzava un poco di più a ogni mio passo. Cominciava già a fare caldo sul serio.

Salendo le scale dell’hotel Fairmont, passandomi con sommo piacere schegge di ghiaccio freddo da una parte all’altra della bocca riarsa, mi sentii una leggera sensazione di bagnato nelle mutande. Nella privacy dell’ascensore vuoto mi infilai una mano sotto il vestito e mi toccai. Tirando su la mano vidi inconfondibili gocce di sangue rosso scuro.