Martedì Grasso

«Allora, stia bene attenta a quello che le dico. Non voglio allarmarla, dobbiamo fare altri esami, ma sono molto preoccupato per la sua salute. Al momento non riesco a sentire il battito della bambina, che invece a venti settimane circa dovrebbe essere molto nitido».

Il dottor McCarthy fece una pausa, alzò gli occhi e guardò Christy, poi li voltò verso di me, poi tornò a puntarli su di lei.

«Lei sta perdendo sangue» continuò il dottore. «Se la placenta si sta staccando dalle pareti dell’utero, rischia di avere delle perdite molto forti. Più si muove, più sanguinerà. Non lo sappiamo per certo, ma può darsi che lei abbia già perso la bambina. Innanzitutto però dobbiamo pensare alla sua salute. Se comincia ad avere una forte emorragia, dobbiamo raschiare l’utero il prima possibile, e forse ci vorrà una trasfusione».

Io e Christy eravamo tutti e due immobili ad ascoltare quel dottore obeso con l’aria da alcolizzato. Era un vero gentiluomo del Sud, di quelli che sembrano sempre un po’ a disagio senza un martini in mano. Ora Christy era completamente vestita e seduta su una sedia di plastica rossa. Io stavo in piedi dietro di lei con una rivista stretta in mano. Il dottore parlava con una voce così sommessa e delicata che invece di sentirne il suono mi pareva di leggergli semplicemente le labbra. Il suo nome, McCarthy, era stampato in lettere bianche e regolari sulla placchetta di riconoscimento. Ci trovavamo in un piccolo ospedale, non particolarmente accogliente, un’ora a nord di New Orleans. All’inizio eravamo andati al pronto soccorso del centro città, ma straripava di accoltellamenti, overdosi e altre disgrazie provocate dal caos del Carnevale. Qui la situazione era esattamente identica, ma la struttura era peggio attrezzata. Eravamo arrivati a mezzogiorno meno dieci. Adesso erano le dieci meno un quarto di sera. Nelle sette ore che avevamo passato in sala d’attesa, mi era parso di osservare lentamente il deteriorarsi del genere umano.

«Sono molto preoccupato per lei, Christy» disse il dottore, con una voce sincera da «adesso ci pensa papà».

«Perché non è preoccupato per la bambina?» chiese lei, controllando a malapena uno spasmo di rabbia.

«Anche se la bambina sta bene, non può sopravvivere da sola per altre sei settimane. È un periodo molto lungo». Si interruppe, scribacchiò qualche altro appunto sul blocco che aveva di fronte. «Dobbiamo ricoverarla». Alzò gli occhi e la guardò. «Non ci sarà possibile completare gli esami fino a domattina».

«Perché no?» chiese lei.

«Purtroppo abbiamo una sola macchina a ultrasuoni e oggi pomeriggio il radiologo è stato chiamato all’Andrew Jackson Memorial Hospital. Il Carnevale ha messo a dura prova le strutture sanitarie di tutta la zona».

«Be’, allora mi dispiace ma mi dovrò rivolgere a qualcun altro» disse lei, coi muscoli degli avambracci tesi a stringere in una morsa i braccioli della sedia. Si voltò verso di me. «Voglio andare a casa».

«Capisco che sia spaventata» disse il dottore in tono inespressivo, «e capisco che voglia andare in un posto che le è più familiare, ma devo farle presente ancora una volta che in questo modo rischia di compromettere seriamente la sua situazione».

«Quell’affare io non l’ho mai visto» disse Christy, indicando il marchingegno che il dottore le aveva premuto contro l’addome per ascoltare il cuore della bambina. Era uno strumento bizzarro che si collegava alla testa del dottore.

«Questo fetoscopio» disse lui sollevando l’attrezzo «lo uso da moltissimo tempo. È del tutto affidabile».

«Non è lo stesso che usava la mia ginecologa ad Albany per controllare il battito della bambina» dichiarò Christy.

«No, probabilmente lì usavano un Doppler. È uno strumento più sofisticato. Ma qui non ce l’abbiamo».

«Perché, dove siamo, a Istanbul?» Christy stava diventando aggressiva.

«Non vedo che male ci sia nello stare a riposo fino a domattina». Il dottore fece una pausa e sfogliò altre carte. «Posso farle qualche altra domanda? Mi racconta un po’ che dieta ha seguito negli ultimi tempi?»

«In che senso?» chiese lei, con aria nervosa e imbarazzata.

«Quanti pasti al giorno sta facendo? Quante proteine, quanto ferro prende? Quanta acqua beve? Quanta caffeina? Ci sta attenta, a tutte queste cose? Non sono dettagli che si possono trascurare».

Christy lo guardò torva senza dire una parola. Il tipo era sui sessantacinque e odorava di disinfettante per il bagno.

«Non saprei» fu tutto quello che Christy riuscì a dire.

«Mangia tre volte al giorno?»

«No».

«Prende degli integratori vitaminici?»

«No».

«Fuma?»

«Ho fumato qualche sigaretta». Mi lanciò un’occhiata.

«Beve?» chiese lui.

«No». Un attimo di pausa. «Cioè, un paio di bicchieri di vino me li sono bevuti».

«E il caffè lo prende?»

«Sì».

Lui mi guardò incredulo.

Non so dire di preciso come mai – in sostanza, credo, perché in quel momento ero fuori di me – ma per qualche motivo scoppiai a ridere.

Lui non ricambiò il sorriso.

Tutta la giornata stava andando incredibilmente male. Quella mattina mi ero svegliato senza Christy accanto per la prima volta dal giorno del matrimonio, e né la doccia, né la tv, né la radio erano riuscite a fermare quest’unico pensiero: Non voglio essere sposato. Voglio stare solo. Credetemi, lo sapevo che era troppo tardi per un’idea del genere, ma continuava a saltarmi in mente all’improvviso, dal nulla. Arrivando a New Orleans, io e Christy eravamo passati davanti a una serie di pub e bar che trasmettevano gli eventi sportivi in diretta, e avevo una tale voglia di starmene dentro un locale del genere con un bicchierino di whisky e una birra a parlare del campionato di basket, che mi sarei mangiato una gamba a morsi pur di entrarci. Mi sentivo dentro questo clamore inconfondibile. Mi sentivo in trappola. E più ci pensavo, più mi rendevo conto che non mi sentivo in trappola, ero in trappola.

«Voglio che lei sappia che come dottore e come ostetrico ritengo indispensabile che lei trascorra la notte qui. Andarsene non è neanche un’ipotesi da prendere in considerazione. Ho bisogno che mi dia il tempo di fare gli esami necessari. Lei potrebbe essere in serio pericolo, Christy. Le metteremo una flebo, per alzare il livello di zuccheri nel sangue e per essere sicuri di poterle somministrare fluidi, sangue o medicinali nel caso ce ne sia bisogno. Deve capire che in questo momento non siamo in grado di accertare le condizioni del feto». Stava cercando di convincerla mettendole paura.

Non riuscivo a elaborare quelle informazioni. I dottori non dovrebbero essere sovrappeso come quel tipo. New Orleans, avevo letto da qualche parte, ha il più alto tasso di obesità di tutti gli Stati Uniti – troppi bignè e hot dog, o qualcosa del genere – ma la stazza di quel medico non mi dava molta fiducia. La stanzetta in cui eravamo odorava di salato, di soluzione salina. Gli ospedali non mi piacciono, e quei primi giorni di matrimonio non me li stavo godendo granché. Mi sentivo come un gemello siamese. Quella stanza, quel dottore che pontificava e quelle cazzo di notizie orrende che ci aveva appena dato erano altrettante dita gelide che mi afferravano alla gola.

«E perché?» chiese Christy con grande calma, alzandosi e cominciando a raccogliere la borsa.

«Perché cosa?» ribatté il dottore.

«Perché non siete in grado di accertare le condizioni della mia bambina?» Christy guardò il dottore negli occhi e parlò con voce chiara e precisa, ma sul viso non aveva nessuna espressione.

«Gliel’ho spiegato. Purtroppo il nostro radiologo stasera è stato chiamato d’urgenza a New Orleans. Con tutta la baraonda derivante dal Carnevale, è stato difficile dare la priorità ai pazienti locali».

Christy fece una risata incredula.

«Sarà qui domattina presto» continuò il dottore. «Ma se lei ha avuto un aborto è in pericolo, e non dovrebbe andare da nessuna parte».

«Io credo che dovremmo aspettare qui e fare tutti gli esami, amore» intervenni io. «Insomma, c’è ancora la possibilità che la bambina sia sana e salva, giusto? Dico bene?» Mi girai nervoso verso il dottore, cercando un posto dove appoggiare la rivista.

«Sì, la possibilità esiste, ma non è un buon motivo per non prendere le precauzioni adeguate».

«Be’, io comunque me ne vado» disse sottovoce Christy, togliendosi gli occhiali con la montatura di tartaruga, ripiegando le stanghette e infilandoseli nella borsa. Poi con due rapidi passi uscì dalla porta.

Non so perché, ma sembrava che non riuscissi ad avere nessuna reazione a quello che mi succedeva intorno. Quando mossi le chiappe e uscii nel corridoio, lei era già a metà strada verso l’ascensore.

«Ehi, dai! Aspetta un secondo!» le gridai dietro.

La raggiunsi e la presi per un braccio. Lei si voltò e mi diede un goffo cazzotto sul torace.

«Lasciami» sibilò, con un sussurro sonoro ma controllato, e si precipitò lungo il corridoio lucidato a puntino.

«Christy!» gridai, andandole dietro.

«Ho visto come stavi dalla mia parte, pezzo di merda» disse, voltandosi e dandomi un altro schiaffo in pieno petto. «Come hai potuto metterti a ridere per una cosa del genere?»

La agguantai e la strinsi fra le braccia, ma lei si divincolò. Il dottore si stava avvicinando, con gli arti vecchi e pesanti che sballottavano a ogni passo.

«Non mi sento al sicuro in questo posto. La bambina sta bene» disse lei, rimettendosi in moto e portandomi verso gli ascensori. Premette il piccolo pulsante tondo.

«La prego, signor...» il dottor McCarthy diede un’occhiata al modulo che aveva in mano, «Heartsock. È estremamente stupido da parte vostra lasciare l’ospedale. Dovremmo tenervi qui. Sua moglie è in serio pericolo».

La porta dell’ascensore si aprì e Christy entrò. Per un attimo indugiai, sapendo che non avremmo dovuto andarcene, ma poi entrai dietro di lei. Il dottore e due infermiere rimasero a guardare inebetiti le porte che si richiudevano alle nostre spalle.

Quando fummo soli nell’ascensore Christy mi diede un ceffone. La pelle mi si increspò di un’onda elettrica di dolore. Mi tenni la guancia con gli occhi fissi a terra, lontani da lei. Tutto il mio corpo, ogni nervo, ogni cellula, vibrava dal desiderio di non lasciare quell’ospedale.

«Che cazzo fai?» farfugliai rivolto verso la porta del­l’ascensore, ancora con la mano sulla guancia. Sapevo di che cosa aveva bisogno Christy: aveva bisogno che la costringessi a restare lì. Ma un’altra parte di me pensava che forse avrei dovuto semplicemente appoggiare la sua decisione, stupida o meno che fosse. Era legittimo nutrire un certo scetticismo sul fatto che quel dottore fosse in grado di raggiungere gli attuali standard delle cure mediche. Restammo in silenzio per un lunghissimo istante mentre l’ascensore scendeva.

«Come hai potuto metterti a ridere quando ha parlato della mia dieta?»

Alzai gli occhi e la guardai. «Sei fuori di testa, capito? Adesso ti devi calmare!» Stavo cercando di essere severo.

«Non mi parlare in questo modo» scattò lei.

Le porte dell’ascensore si aprirono e Christy partì a razzo per il corridoio, superando lunghe corsie, porte girevoli, distributori di bibite, un uomo di colore in smoking, una donna che si teneva una mano su un occhio bendato, un ragazzino con un taglio su un dito, gente malridotta di ogni tipo seduta ad aspettare in una grande sala quadrata con gli occhi puntati sulle immagini sfocate di una tv. Passò sotto diversi orologi con le lancette dei secondi che ticchettavano all’unisono. Sopra di noi gli altoparlanti diffondevano una stazione radio di grandi successi. Christy superò il banco dell’accettazione e il negozio di articoli da regalo e sfrecciò fuori attraverso le porte automatiche di vetro. Quando raggiunse il silenzio del parcheggio e il mare di automobili, Christy si fermò sui suoi passi. Io ero dietro di lei, a dieci passi di distanza. L’aria calda della notte era soffocante, l’asfalto nero del parcheggio dell’ospedale lucido di umidità. Sotto la potente luce alogena dei lampioni le centinaia di macchine parcheggiate brillavano e scintillavano di tutti i colori dell’arcobaleno. Per un attimo Christy si bloccò, persa e confusa. Si sforzò di orientarsi, cercando la Nova, poi ripartì nella direzione giusta. Appena trovò la macchina spalancò la pesante portiera argentata, si infilò dentro e la richiuse. Io aprii la portiera sul lato del guidatore, mi sedetti e cercai le chiavi, anche se non avevo nessuna intenzione di partire veramente. Senza dubbio, pensavo, il dottore, le infermiere, un agente di sicurezza – qualcuno – doveva averci seguito fino a lì. I sedili di pelle erano ancora caldi del sole della giornata e mandavano un odore di chiuso che in genere trovo confortante. Infilata la chiave nell’accensione, feci due o tre tentativi e la macchina si mise in moto. Tenni gli occhi fissi sul cruscotto e finsi di aspettare che il motore si scaldasse.

«Ti devi calmare» dissi. Sapevo che non avrei dovuto permettere che ce ne andassimo da quel cazzo di ospedale.

«Vuoi un annullamento del matrimonio o cosa?» disse lei.

«Ma fammi il piacere» dissi io.

«Svegliati, Jimmy! La bambina è morta».

«La bambina non è morta. Il dottore voleva solo fare degli esami. È normale che uno vada dal dottore e quello gli prescriva degli esami. Hai avuto delle perdite: dobbiamo capire come mai». Cercavo di mantenere un’apparenza di sangue freddo.

«Senti, se qualcuno mi deve curare faccio prima ad arrivare a Houston che a starmene seduta lì ad aspettare che quegli idioti si diano una mossa». Christy si morse le labbra come se se le volesse strappare.

Nel silenzio mi voltai a guardarla e la vidi chiudere gli occhi e cominciare a inspirare ed espirare lentamente. Dopo un attimo i respiri si fecero sempre più rapidi, finché temetti che stesse andando in iperventilazione.

«Andiamo, Jimmy, andiamo». Aprì gli occhi e mi guardò. «Che aspetti?»

Ingranai la retromarcia e mi girai per vedere dove stavo andando. E va bene, cazzo, l’avrei portata in Texas, ma sapevo che stavo facendo un errore.

«Oddio, oddio, oddio» continuava a ripetere, ansimando. Aveva gli occhi chiusi e dondolava di qua e di là con le braccia strette intorno al corpo. La Nova partì dolcemente all’indietro. Io tolsi la marcia, pigiai sul freno e allungai una mano per toccarle la spalla, ma lei fece un sobbalzo e io la ritrassi. Restammo lì seduti in silenzio con la macchina mezza dentro e mezza fuori dalla sua area di sosta.

Uno dei lampioni del parcheggio batteva proprio sopra di noi, illuminando il viso di Christy e i suoi occhi chiusi. Cercò di riprendere il controllo sul respiro premendosi forte le tempie con le mani.

«Torniamo in albergo, prendiamo la gatta, facciamo le valigie e partiamo per Houston» mi supplicò.

«Sei sicura che non vuoi tornare dentro?» Feci anch’io un profondo respiro. Poi, parlando come se la mia dichiarazione dovesse essere messa agli atti, aggiunsi: «Perché io credo che sarebbe meglio così».

Christy mi guardò. «Dammi le chiavi. Io lì dentro non ci torno». E poi continuò, con la rabbia che le cresceva sempre di più nella voce. «Io voglio andare a casa, Jimmy. È da quando sono partita da Albany che sto cercando di andare a casa. Non mi fido di quei dottori e di come mi stavano curando. Non mi sento sicura, qui. Portami a casa, per favore».

Io feci retromarcia e mi diressi verso l’albergo.

Era l’ultima sera del Carnevale, Martedì Grasso, e mentre guidavo in silenzio per le strade di New Orleans sentivo l’eccitazione gonfiarsi nell’aria mentre le folle si raccoglievano come stormi di uccelli. Duemila Harley Davidson – o almeno tante sembravano – cominciarono a sorpassarci da un lato e dall’altro. Era tutto il giorno che combattevo con la voglia di bere. Vedere gente ubriaca che usciva ed entrava barcollando da ristoranti, locali e bar non mi era di grande aiuto.

Lasciai Christy di fronte all’albergo perché iniziasse a preparare i bagagli mentre io andavo a parcheggiare. Solo in macchina, col motore che scalciava e vibrava fastidiosamente mentre procedevo a due all’ora in mezzo al traffico del Carnevale, mi sentii perso e disorientato come un bambino abbandonato dai genitori in mezzo a una fiera di campagna. Il bagliore al neon del Quartiere Francese dipingeva sui visi della folla mostruose maschere rosse e verdi. Tutti i festeggiamenti culminavano in una sfilata che si sarebbe conclusa improvvisamente a mezzanotte in punto.

«Non vi fate trovare per strada quando finisce la festa» ci aveva raccomandato il portiere dell’albergo. A quanto pare, allo scoccare della mezzanotte, con l’arrivo del Mercoledì delle Ceneri, il Carnevale finisce e la polizia di New Orleans riprende possesso delle strade.

Parcheggiai la macchina in divieto di sosta a soli tre isolati dall’albergo e mi ritrovai letteralmente a correre come un velocista per tornare da Christy. Urtavo e sbattevo in continuazione contro la gente. Ogni minuto che passava sembrava che in strada arrivassero altre mille persone. Vidi un giovane coi jeans strappati e una maglietta che diceva SAINTS sbattuto a braccia e gambe divaricate sul cofano della sua Honda Civic mentre due poliziotti in uniforme tiravano fuori un altro tipo dalla portiera di destra. Per un attimo, nel riflusso vorticoso della folla, mi parve di essermi perso, ma con una rapida perlustrazione sopra quel mare ondeggiante di teste vidi la scalinata d’ingresso dell’hotel Fairmont. Repressi la paura che sapevo mi avrebbe scatenato il più totale pandemonio nel cervello. Il pensiero che Christy potesse aver avuto un aborto mi faceva schizzare lo stomaco fino in gola. Quasi sicuramente avevamo sbagliato a lasciare quel dottore.

Quando arrivai la porta della nostra stanza era aperta. Entrai e trovai Christy seduta sul water e vestita di tutto punto, con le valigie fatte ai suoi piedi e in grembo la gabbietta della gatta, che mugolava piano piano.

«Perché non sono stata capace di mangiare come si deve? Era tanto difficile? Secondo te sarà perché ho fumato? Ma che razza di nevrotica sono?» Si interruppe e si guardò le ginocchia.

«Tu fai del tuo meglio. Più di questo non puoi fare» dissi, leggermente senza fiato, fermo e impaziente sulla soglia del bagno.

«È troppo tardi» disse lei, come se avesse già visto il nostro futuro.

«Non è troppo tardi» ribattei subito. «Mentre venivo qui ho avuto una sensazione, ok? Una sensazione chiarissima che è tutto a posto. Se solo riusciamo ad arrivare da un dottore, a portarti a casa come vuoi tu, andrà tutto bene». Non avevo avuto affatto quella sensazione, anzi in realtà era più o meno il contrario, ma mi stavo sforzando di dire qualcosa che potesse esserle d’aiuto.

«Che cosa ci ha detto il dottore? Non me lo ricordo più» sussurrò lei.

Non le risposi. Non c’era verso di riuscire a ripeterle quelle cose schifose.

«Andiamo, piccola, voglio farti curare per bene».

Lei si alzò lentamente, tenendo la gabbietta del gatto con una mano e sistemandosi il vestito con l’altra. Per qualche motivo, aveva trovato il tempo di truccarsi e portava uno dei suoi abiti più costosi, un vestito bordeaux di cotone pesante con una fantasia di girasoli ricamata sopra, lungo fino alle caviglie.

«Non ho avuto altre perdite. Non ti pare un buon segno?» disse lei, tirandosi uno degli orecchini di opale.

«Brutto non è» dissi io.

«Oh, Dio mio». Sospirò.

Pensai a come tutti i momenti cruciali della mia vita li avevo vissuti in qualche bagno.

«Bella luna di miele, eh?» disse lei, cercando di sorridere.

«Stai tranquilla, piccola, stai tranquilla» risposi. «Vedrai che andrà tutto bene. Dobbiamo solo fare un passo alla volta e giocarci la partita fino in fondo». Infilo sempre metafore sportive dappertutto. Alla mia età, in teoria certi vizi dovrei averli persi.

«Volevo che fosse una luna di miele bellissima».

«Lo so. Anche io».

Facendo un passettino avanti, Christy si chinò per prendere la borsa, ma io arrivai prima, la tirai su e me la misi in spalla, poi passai in camera da letto per prendere il resto.

«Fammi portare qualcosa» disse lei educatamente.

«Meglio di no» risposi, sollevando la quarta e ultima valigia.

Uscimmo dall’albergo senza dire un’altra parola. Io carico di bagagli, Christy con la gabbietta del gatto.

In strada, la folla ormai era così compatta che era difficile anche solo mettere piede fuori dell’albergo. Tamburi e fiati scandivano ritmicamente il battito cardiaco dell’intera città. Tutte le orchestrine jazz delle scuole della Louisiana sfilavano a passo di marcia, picchiando sui tamburi e belando imitazioni gracchianti di «Dixieland» e «When the Saints Go Marching In». Cercai di prendere Christy per la mano libera e di farmi largo a forza tra la folla, ma era scomodissimo. Uno dei borsoni continuava a scivolarmi dalla spalla fino al gomito. Vedevo Christy che diceva: «Lascia che ti aiuti» ma non sentivo affatto il suono della sua voce. Un uomo di quarant’anni subito alla nostra sinistra aveva in mano un cartello e lo sollevava più in alto che poteva, strillando il suo messaggio: BIRRE GIGANTI. La gente sciamava intorno a me e Christy lottando per arrivare a lui. Quando riuscimmo a divincolarci e a fare qualche passo avanti, altri suoni presero il sopravvento. Un uomo con un megafono predicava tendendo disperatamente le braccia verso la folla. La gente si copriva le orecchie e cercava di allontanarsi.

«Quando Dio guarda il nostro mondo piange, piange perché la smania di potere ha corrotto la dignità umana!» urlava con voce rauca il tipo nell’amplificatore. Tre assistenti vestiti di nero gli stavano a fianco e distribuivano volantini.

Sempre tenendo Christy per mano tentai di arrivare fino all’angolo: mancavano solo venti passi. Dietro di me gli occhi di Christy guardavano il mondo circostante con rassegnata disperazione. Dai balconi sopra di noi si affacciavano centinaia di ragazzi delle confraternite universitarie a torso nudo. Sulla sinistra c’era un’altra lunga terrazza, questa invece elegante e artistica, dove si aggiravano uomini e donne in frac e abiti da sera.

«Un, due, tre, tette!» gridarono all’unisono i ragazzi a torso nudo, esplodendo in un diluvio scrosciante di risate. Due ragazze di fronte a noi si alzarono la maglietta e agitarono i seni in direzione dei maschi. Le tette erano dipinte a forma di occhi, con i capezzoli a fare da pupilla. Migliaia di perline ci piovvero in testa. Mentre guardava per aria, Christy fu colpita da una collanina in piena faccia e barcollò in avanti, reggendo a fatica la gatta mentre si portava la mano al livido che già le si gonfiava sul sopracciglio.

Incrociai il suo sguardo. Certe volte la coglievo, quell’occhiata strana mentre facevamo la fila al cinema, una maniera cupa e vuota di fissarmi mentre guidavo, qualche semplice, distratta e­spressione di astio cocente. In quei momenti appariva chiaro che mi odiava. In certi altri momenti – quando facevamo l’amore, per fare l’esempio più ovvio – l’affetto di Christy per me era spontaneo e naturale e mi rendevo conto del suo sincero desiderio di starmi vicina e prendersi cura di me, ma con uguale frequenza mi pareva che l’affetto fosse solo un’istantanea e confusa compassione, e che in realtà mi vedesse più che altro come un peso ingombrante.

La gente non vuole sentirsi dire cosa si prova veramente a essere innamorati, perché è una sensazione che fa schifo. È come un diamante: visto dall’esterno sembra bellissimo, ma dentro è duro, spigoloso, tagliente. Amare davvero una persona non va mai confuso con il divertimento. Amare una persona è altrettanto doloroso e deludente che arrivare a conoscere se stessi. Probabilmente è l’unica cosa che valga la pena di fare nella vita, ma questo non vuol dire che sia una passeggiata.

«Non me ne sarei dovuta andare dall’ospedale» disse Christy dietro di me.

Le avrei dato un cazzotto in faccia. Ogni stramaledetta cosa che avevo fatto quel giorno era stata una cazzata.

Cresci, strillai silenziosamente a me stesso mentre continuavamo a farci strada a spintoni tra la folla. Le cinghie dei borsoni mi stavano scavando le spalle. Ce n’è tanta di gente al mondo, e la maggior parte sembrava che fosse ammassata dentro il Quartiere Francese. Quando ero ragazzino, mio padre mi disse che la ragione per cui mi stavo trasformando in un tale coglione era che non credevo seriamente che tutti gli uomini fossero uguali, e quello sarebbe stato la mia principale fonte di sofferenza. Mi guardai intorno in quel caos di luci e carri e mi domandai: Ma è possibile che siamo tutti quanti uguali? Che io non abbia diritto a nessun aiuto speciale?

Per tutto il tempo che avevamo passato nella sala d’attesa dell’ospedale, per tutto il tempo in cui eravamo stati a colloquio col dottore, Christy mi aveva guardato con gli occhi che dicevano: Mi puoi essere d’aiuto? Ogni suo sguardo sottintendeva che un vero uomo avrebbe saputo gestire meglio la situazione, avrebbe saputo risolvere il problema. Io non le offrivo altro che la mia stessa insicurezza. Avrei dovuto telefonare a qualche altra clinica ostetrica. Ci doveva essere sicuramente qualche posto più vicino di Houston. La mano di Christy era fredda e molle nella mia.

In quel labirinto di strade e di gente persi l’orientamento: non mi ricordavo più se la macchina era sulla destra o sulla sinistra. Mi tremavano le mani: ero totalmente impotente. Davanti a me c’era una ragazza con un bellissimo vestito da sera nero lungo fino ai piedi, e i fianchi, la schiena e il culo sinuosi come quelli di una pantera. Il viso non lo vedevo. «Siamo tutti oracoli di Dio» ricordo che mi diceva mio padre. Ma che cazzo voleva dire? La donna si voltò ed era più vecchia di quello che pensavo ma comunque seducente da morire. Girò a sinistra e, sperando che fosse la direzione della macchina, io la seguii.

«Ehi, cos’è quella, la tua gattina o la tua topina?» sentii. Mi voltai e vidi un burino ridicolmente smilzo che rideva forte a sinistra di Christy. Era a torso nudo e sparsi sulle braccia e sul petto aveva qualcosa come quattordici tatuaggi. Chris cercò di scansarsi. Quel deficiente si stava sganasciando dalle risate, e altrettanto facevano due dei suoi compagni.

«Cos’hai detto?» chiesi io, voltandomi.

«Niente, stavo solo dicendo alla tua ragazza com’è bella la sua gattina pelosa». Gli amici ridevano fin quasi a vomitare. E non so dirvi perché, erano anni che non lo facevo, ma gettai a terra le valigie, partii all’attacco e mollai a quel tipo tre rapidi pugni in faccia: pam-pam-pam. Dal naso gli partì uno schizzo di sangue che mi macchiò i vestiti, e sentii distintamente due o tre ossa della mano che mi si incrinavano. Lui cadde su un ginocchio e io lo presi per i lunghi capelli e lo colpii ancora una volta, forte, alla tempia. Persi completamente la sensibilità in tutto il braccio, dal polso alla spalla. Un brivido di adrenalina mi corse nelle vene e cazzo, mi sentii alto tre metri: avevo la vista lucidissima, i colori brillavano, i miei riflessi erano perfetti. L’ossigeno mi inondava i polmoni come una droga. Per la prima volta in tutta la giornata mi sentivo bene. Partii per dare qualche sventola al suo compagno prima che gli venisse in mente di picchiarmi lui, ma qualcun altro mi colpì da dietro. Mi si oscurò la vista, ma rimasi in piedi.

«Non mi rompete il cazzo!» ricordo di aver urlato a ripetizione. Poi mi voltai ad affrontare quel figlio di puttana. La gente inciampava, cadeva, si prendeva a spintoni e cercava di separarci. Christy strillava in un tono di voce più alto di parecchie frequenze rispetto al resto del frastuono. Io continuai a sferrare cazzotti senza più sapere chi stavo colpendo. Non so come, un paio di uomini più anziani riuscirono a intromettersi fra me e quel testa di cazzo del burino. Tutti gridavano e imprecavano. Christy era di fronte a me e urlava come un’aquila: «Smettila! Smettila! Smettila!»

Le nostre valigie erano sparse per tutto il marciapiede e la gente le calciava di qua e di là. Solo quella dannata gabbietta del gatto era saldamente infilata sotto il braccio di Christy, come un pallone da football. La faccia, le braccia, le ginocchia: ero tutto una ferita. Dovevo avere un aspetto spaventoso. Uno dei tizi mi venne di nuovo incontro, ma mentre si avvicinava Christy gli si parò davanti ed emise un grido inintelligibile da strega che le uscì direttamente dalle budella e fece pisciare sotto dalla paura chiunque lo sentì.

«Vaffanculo!» Lei prese una valigia, io presi le altre e scappammo, lasciando lì quegli stronzi.

Mentre ci allontanavamo dalla folla, cominciai a rendermi conto di quant’ero idiota.

«Dov’è la macchina?» continuava a chiedermi Christy. Io facevo vaghi cenni col dito, sperando di azzeccare, ancora incerto della direzione. Christy faceva strada e io la seguivo, cercando di non perdermi le valigie mentre con l’altra mano mi tenevo stretto il naso, che sanguinava come un rubinetto aperto. Ora ci muovevamo molto più facilmente in mezzo alla folla, dato che a vedermi la gente si spaventava e si scansava in tutte le direzioni.

«Di qua?» chiese Christy.

Feci cenno di sì. Attraverso un varco nella folla vedevo la Nova. Luci verdi, rosse e viola luccicavano sulle cromatura e si riflettevano sul cruscotto. La povera gatta era terrorizzata. Tutti e tre ci dirigemmo disperatamente verso la macchina. Alle nostre spalle si sentì il rumore di un’esplosione. Io mi girai e vidi un debole turbinio di luci rosse e blu della polizia accompagnato da urla frenetiche e gente in corsa. La prima cosa che pensai era che stessero venendo a prendermi.

Ma io non c’entravo niente: era solo scoccata la mezzanotte.

Gente reduce dai festeggiamenti, impazzita e senza meta, correva da tutte le parti lanciando per aria popcorn e collane di perline. Bicchieri di birra ormai calda venivano tirati contro i poliziotti. Alla fine, tra folla, sirene e getti d’acqua sentii un piacevole e surreale scalpiccio di zoccoli di cavalli.

Il sangue mi colava ancora dal naso e sulla mano, mi sentivo la testa leggera come l’elio e avevo la vista completamente annebbiata.

«Dammi le chiavi» disse Christy allungando la mano.

«No, no, no» risposi, con voce soffocata e nasale. «Guido io».

«Jimmy» disse lei, con la mano ancora tesa, «non fare il coglione».

«Senti, ce la faccio a guidare!» gridai, mentre gettavo le valigie sul marciapiede, mi frugavo le tasche in cerca delle chiavi e spingendo da parte Christy raggiungevo la portiera del guidatore.

«Ci manderai a sbattere da qualche parte. Non sai quello che fai».

Non l’avrei lasciata guidare per niente al mondo. Cristo santo, quella donna aveva una gravidanza in corso con tanto di complicazioni! Avrei guidato io, punto e basta. Mi sedetti al volante, tirandomi dietro i bagagli e scaraventandoli sul sedile posteriore, mancando per un soffio Christy e la gatta. Christy prese posto accando a me. Tutti e due guardammo fuori dai finestrini la gente che ci passava accanto, sempre nella direzione opposta: alcuni a passo normale, altri di corsa, alcuni vestiti con maschere assurde, altri nudi – tutti, tranne noi, ubriachi, ridenti e scherzosi.

Girai la chiave dell’accensione. Ogni volta ci vogliono almeno tre tentativi. Al quarto mi innervosii.

«Oh, Cristo, Jimmy» disse Christy sottovoce.

Al quinto tentativo ero avvilito. Feci una pausa per dare al motorino di avviamento il tempo di riposarsi un po’, e mi chiesi se il naso era rotto e quanto sarebbe stato brutto a guardarsi.

Al sesto tentativo la macchina si mise in moto, e i muscoli della schiena mi si rilassarono fino a un livello più sopportabile di tensione altissima. Il motore sputacchiò per qualche istante e poi prese tranquillamente il suo ritmo normale e lento. Adesso eravamo pronti a partire e inserii la prima, poi mi resi conto che non potevo andare da nessuna parte. Una cinquantina di metri più avanti c’era la massiccia processione delle forze di polizia, e puntava dritta verso di noi. I megafoni strillavano annunci incomprensibili in toni elettronici acutissimi. La massa di agenti era accompagnata da uno spettacolo di sirene lampeggianti blu e rosse. Solo in quel momento mi apparvero chiari in tutta la loro portata sia il fatto che la polizia era uscita a riprendere possesso delle strade, sia l’illegalità del mio parcheggio.

Alla testa dell’armata di poliziotti c’era una fila di agenti antisommossa schierati spalla a spalla, ciascuno con uno scudo di plastica trasparente a riparare il petto e la faccia dai litri di birra volante. Dietro di loro c’era quasi un’intera divisione di poliziotti in marcia, seguiti da un altro centinaio di agenti a cavallo. Gli animali, bellissimi e ben tenuti, sollevavano con fierezza gli zoccoli sopra i cumuli di rifiuti e riuscivano a essere molto minacciosi. Ai fianchi delle forze di polizia c’erano vari gruppi religiosi che usavano la situazione come un’opportunità di proselitismo. Alcuni fedeli di una parrocchia del luogo innalzavano sopra le teste della folla due grandi striscioni che dichiaravano DIO ODIA IL PECCATO, PROVERBI 6,16. Un ragazzo sulla ventina avanzava insieme a quella massa di persone con una croce di legno alta cinque metri legata al petto con delle cinghie. Aveva il viso pallido e bagnato di sudore – sembrava che da un momento all’altro dovesse crollare a terra e probabilmente trascinarsi dietro parecchia gente – ma continuava la sua marcia barcollante, tenendo in equilibrio quell’accidente di crocifisso gigantesco.

Non c’era modo di spostare la macchina; la gente ci attorniava da ogni parte come uno sciame di api. Guardai Christy. Con le mani conserte in grembo, i capelli fermati con due forcine ai lati della testa e la pelle lucida di sudore, pareva una bambina. Come cazzo c’era arrivata lì con me? I poliziotti marciavano imperterriti verso di noi. Ogni tanto la gente batteva una mano sul cofano della nostra macchina o saliva un attimo in piedi sul paraurti per dare una rapida occhiata sopra il mare di teste. Alla fine Christy si girò e mi guardò negli occhi. Il vestito che indossava era aperto intorno al bellissimo profilo del suo collo e metteva in risalto l’eleganza dello sterno. Christy aveva ventisei anni. È incredibile che la gente arrivi fino a trenta.

«Circolare! Circolare!» gridavano i poliziotti. Passando, menarono colpi sul cofano di metallo della Nova. Dove pretendevano che andassi? I cavalli che passavano accanto alla macchina avevano un che di ipnotico, il rumore degli zoccoli mi ricordava di quando ero piccolo: cloppete-clop, cloppete-clop. Mi allungai per prendere la mano a Christy ma lei non se ne accorse neppure, tanto era paralizzata a osservare la scena. Una quarantina di metri dietro i cavalli venivano i vigili del fuoco, con le autopompe che avanzavano a passo d’uomo. I pompieri camminavano accanto agli autocarri inondando d’acqua la strada e creando fiumi di immondizie che scorrevano fino agli scarichi delle fogne. Il nostro parabrezza fu coperto di schizzi e spruzzi dal getto di un tubo che ci annebbiò la vista come se fossimo passati dentro un autolavaggio. Ma i rumori e le urla continuavano ad arrivare da tutte le parti. Io ritrassi la mano da quella di Christy e me la posai in grembo. I canali interni delle narici mi si stavano intasando di sangue rappreso; ogni respiro che facevo era come un rantolo di agonia.

«Circolare! Circolare!» ci gridarono i vigili del fuoco. Io mi voltai e cercai di offrire a Christy un sorriso consolatorio. Lei non lo ricambiò: mi guardò freddamente senza nessuna espressione. Non avevo idea di cosa le passasse per la testa. Dopo i pompieri arrivò un altro lungo corteo di poliziotti in marcia e un convoglio di un centinaio di volanti, e nessuno tralasciò di ripeterci: «Circolare!» Sarei stato ben contento di obbedire, pensai, se solo avessi avuto dove andare. L’intera processione durò quasi mezz’ora. Poi, quando furono passati gli ultimi poliziotti a piedi, seguiti da qualche macchina, dietro di loro si aprì di nuovo il viale, largo, deserto e pulitissimo.

Io feci per ingranare la prima ma, probabilmente a causa del mio naso massacrato e gonfio, mi sbagliai e misi la retromarcia, andando a sbattere contro il marciapiede. Senza dire una parola e neanche lanciare uno sguardo a Christy, spostai bruscamente la leva del cambio sulla prima e finalmente partimmo, lasciandoci New Orleans alle spalle.

L’orologio dell’autoradio faceva le 00.32. Era arrivato il Mercoledì delle Ceneri.