Ecco a voi James Heartsock

Ero al volante di una Chevrolet Nova 370 del ’69, quattro cilindri con cerchi in lega e doppio tubo di scappamento. È una macchina coi controcoglioni. Le ho tolto la marmitta, e adesso romba come una Harley. La gente la adora. Mi stavo guardando dal finestrino nello specchietto sul lato del guidatore; lo faccio in continuazione. Guardo dentro qualunque superficie che rifletta. Non è una dote di cui andare fiero, e vorrei essere capace di evitarlo, ma è più forte di me. Sono vanesio come un pavone. È disgustoso. Il più delle volte quando mi guardo allo specchio lo faccio per controllare se ci sono ancora; oppure immagino di essere qualcun altro, un bandito messicano o roba del genere. Perché ho i baffi. Quasi tutti gli uomini coi baffi sembrano un po’ froci, ma io no. Però me li tocco troppo. Sto sempre a toccarmeli. Non so neanche perché vi sto raccontando questo, adesso. È che mi guardo in continuazione allo specchio e vorrei evitarlo. Non mi dà assolutamente nessun piacere.

Avevo le dita congelate intorno al volante. Albany a febbraio è un’unica lastra di ghiaccio, nera e fuligginosa. La voce di donna alla radio annunciò l’ora e la temperatura: le otto e quarantadue, meno cinque gradi. Io e Christy avevamo rotto quindici ore prima ed ero in tilt. Avevo indosso la mia uniforme, quella di gala; è fantastica. Le divise militari ti fanno sentire qualcuno, ti fanno sentire di avere uno scopo, anche se non ce l’hai. Ti senti speciale, parte della tradizione. Non sei una persona qualunque, un civile: sei nobile. Ma tutto questo orgoglio ha un rovescio della medaglia: sono soltanto balle.

Questa è la mia storia.

Gli ordini che avevo erano assurdi, il mio tenente è un testa di cazzo sempre a duemila, una scheggia impazzita. Quella missione in realtà spettava a lui. Dovevo informare la moglie di un tizio che avevano sparato in testa a suo marito. Il nome del disgraziato era soldato semplice Kevin Anderson, e il fattaccio era successo la sera prima davanti al Paradise. Il Paradise è il locale dove vanno tutti i negri: probabilmente sarà stata una faccenda di droga o di cazzeggio sfuggito di mano. Il tizio non lo conoscevo affatto.

Per non dire poi che ero strafatto pure io. Non avevo chiuso occhio, avevo passato la notte a farmi di speed: metanfetamine. Rom­pere con Christy era stato un errore madornale; l’avevo capito nel momento stesso in cui mi ero voltato per andarmene.

L’esercito è più idiota di quanto possiate mai immaginare. A me e ai miei uomini, il tenente certe volte ci manda in città a fare la guardia ai parcheggi: rafforzamento delle posizioni. Mi sono arruolato perché volevo essere utile a qualcosa. Avevo provato a farmi un paio d’anni di college, alla Kent State, ma era una gran puttanata. Che senso ha pagare tutti quei soldi solo per stare lì a bere birra e beccarsi malattie veneree? Mio padre era stato nell’esercito, e da piccolo disegnavo in continuazione mitragliatrici e soldati che si ammazzavano a tutto spiano, stronzate del genere, e così arruolarmi mi è sembrata una scelta sensata. Ho pensato che fosse il mio destino, ed era vero, ma il fatto che una cosa è il tuo destino non significa necessariamente che andrà bene.

Pensavo che magari un giorno mentre ero in gelateria qualche pazzo schizzato avrebbe tirato fuori un’automatica e cominciato a sparare alla gente, e io sarei stato l’unico capace di fermarlo, l’unico a mostrare segni di eroismo o integrità. Di gente al mondo ce n’è tanta. È difficile trovare un modo per distinguersi. Quando avevo dodici anni, ho costruito una balestra perfettamente funzionante, con tanto di frecce che riuscivo a ficcare negli alberi. È praticamente la cosa più fica che abbia mai fatto.

Ecco, l’unica cosa interessante o notevole di me era la mia macchina. Era un gioiello: carrozzeria argentata, con due belle strisce nere da macchina da corsa che la tagliavano a metà dritto per dritto, proprio al centro. Non ho mai avuto problemi a rimorchiare.

Stavo attraversando a tutta birra i quartieri settentrionali di Albany diretto alla zona nera della città, in cerca dell’indirizzo di questo tale Anderson: Hawthorne Drive 2376 e 1/2, appartamento B. Avevo tutte le informazioni su di lui dentro una cartellina posata sul sedile del passeggero. Le strade erano ghiacciate e fiancheggiate da cumuli di neve incrostata e macchiata di smog. Trovai la casa senza difficoltà, era un vecchio palazzone diviso in otto appartamenti. Tutte le case dell’isolato erano perfettamente identiche. Un tempo quella era la parte elegante della città: più o meno ottanta miliardi di anni prima.

Parcheggiai la Nova sotto un fantastico sicomoro vecchio e spoglio che cresceva accanto al vialetto degli Anderson. Gli alberi sono qualcosa di bellissimo. Mio padre era un grande amante degli alberi. Per mestiere li piantava e li potava. A volte se ne stava a cinquanta metri da terra, imbracato con le corde, a lavorare di sega circolare, coi rami morti e malati che piovevano a terra come bombe. Quanto gli volevo bene, a mio padre. Se potessi darvi l’idea di quello che significava, a otto anni, guardarlo in cima a qualche magnifico acero che cantava fra sé e parlava coi rami – se poteste sentirlo mentre mi grida da lassù: «Jimmy, quando compi tredici anni e vieni a vivere con me, ci faremo un sacco di risate, bello mio, ci puoi scommettere quel bel culetto che ti ritrovi!» – se potessi farvi stare nei miei panni in quel momento, sapreste esattamente come mi sento. Quando ero più grandicello, in estate, lavoravo con le squadre a terra, a tagliare i ciocchi e ripulire. Ero un superesperto di giardinaggio. Il sicomoro che mi vidi di fronte quella mattina avrà avuto quasi duecento anni. A meno che qualche coglionazzo non decida di tagliarlo, sarà ancora lì su Hawthorne Drive quando io sarò morto e sepolto. Non so spiegarvi perché, ma questo pensiero mi mette di buon umore.

Mi controllai il naso per assicurarmi che non stesse sanguinando. Quattro ore prima mi ero fatto l’ultima pista insieme a Tony, Eric e Ed. Era stato Ed a portare la roba. Io non me la volevo fare, ma poi avevano cominciato a tagliarla, e come ho detto mi ero appena lasciato con Christy, e così, badabim badabam, da un momento all’altro mi ero ritrovato a parlare per nove ore di fila di Patrick Ewing, John Starks e il resto dei New York Knicks. Tony, Eric e Ed sono una manica di deficienti, ma io ci passo insieme tutto il tempo comunque. Mi mette tristezza pensare di essere come loro. «Meglio soli che male accompagnati». Mio padre lo diceva sempre, ma io non do mai retta a nessuno. E non lo dico con orgoglio. È bello dare retta alla gente.

Non avevo la minima voglia di uscire dalla macchina. Il mio tenente è un gran figlio di puttana. Quando ci penso, mi sento palpitare di rabbia dalla testa ai piedi.

Erano solo le otto e mezza del mattino e già andava tutto di merda. L’ESERCITO. PRIMA DELLE NOVE DI MATTINA ABBIAMO GIÀ FATTO MOLTO. Non diceva così la pubblicità in tv?

Meditavo da sempre di arruolarmi, ma era stato Top Gun, il film, a darmi la spinta decisiva. Tom Cruise su quella Kawasaki, Tom Cruise che si scopa quella bionda. Fantastico. Quello ero io. Sembra una cosa da deficienti, e adesso me ne rendo conto, ma uscendo dal buio del cinema nel parcheggio del centro commerciale, con il riverbero del sole cocente di agosto sull’asfalto, sentii che quel film mi commuoveva come una chiamata del Signore.

Non c’è bisogno di dire che non appartengo affatto all’élite di quei finocchi di piloti specializzati. Nella vita da militare, la cosa che mi dava più energia era di gran lunga la droga. All’inizio di ambizioni ne avevo. Volevo entrare nelle Forze Speciali, nei ranger aviotrasportati, magari addirittura nell’Fbi. Ma ormai avevo perso ogni fiducia in me stesso. Christy era stata responsabile di tutti gli aspetti migliori della mia vita. Mi mancava. Rimpiangevo di averla incontrata. Avrei voluto morire, in modo da evitare di deluderla come inevitabilmente avevo fatto.

«Mi vuoi lasciare, vero?» aveva chiesto Christy.

Lavorava all’ospedale, ed eravamo seduti nel bar del settimo piano a lasciarci, tutti e due in uniforme. Lei aveva indosso la solita tenuta dell’ospedale, gonna azzurra e camicia azzurra con la targhetta dei servizi sociali appuntata al petto, e io portavo la mia divisa verde regolamentare da ufficio. Il suo corpo alto e smilzo sembrava a disagio su quella seggiolina di metallo rossa, la pelle era traslucida, i grandi occhi grigi apprensivi erano intrappolati dietro le lenti ovali degli occhiali di tartaruga. Dio santo, non volevo farle del male.

«Avanti, Jimmy, mi vuoi lasciare, vero?» chiese di nuovo.

«Sì» dissi io.

«Mi dai la nausea» mormorò lei. «La gente mi ha sempre parlato di questa sensazione, ma non l’avevo mai provata. È tremenda». Parlava con gli occhi vuoti, come se fossero già passati due anni.

Stavamo insieme da un anno e mezzo, e non so perché ma lei mi amava alla follia.

«Quando torni da quegli idioti dei tuoi amici e gli dici che mi hai lasciato e quanto sono instabile, e loro ti rispondono che sono una stronza fuori di testa e cazzate del genere, tu ricordati che sono solo contenti perché ricominci a sbronzarti di birre insieme a loro. Quelli non ti conoscono. A loro non gliene fotte niente di te. A me sì. Io ti amo con tutta l’anima, e se qualcun’altra ti amerà mai quanto ti amo io, per favore, ricordati che non devi fare un bel niente, devi solo lasciarti amare». Soffocò una risatina. «Sei la più grande delusione della mia vita». Non mi diede un bacio di addio, mi fece soltanto un altro sorrisetto vuoto, si voltò e si incamminò lungo il corridoio, con le scarpe di pelle nera che ticchettavano sul pavimento lucido dell’ospedale.

 

Una famiglia stava uscendo da una delle case lì accanto e veniva su per Hawthorne Drive tutta agghindata: giacca, cravatta, tailleur e deliziosi abitini da bambini in colori coordinati. Andavano in chiesa con l’aria sinceramente felice. Mi erano simpatici. È facile provare simpatia per gli estranei, più difficile per la gente che uno conosce bene. Ero sicuro che gli Anderson mi sarebbero stati simpatici. Cristo, quanto volevo che Kevin non fosse morto.

All’Iowa University: il mio tenente era stato all’Iowa University, punto e basta. Sono bravi tutti, ad andare all’Iowa University. Lui non aveva fatto altro che quello.

Con un unico rapido movimento, scesi dalla macchina e chiusi la porta. Sentii quanto faceva freddo dal rumore che produsse il metallo sbattendo. Mi sentivo il corpo delicatissimo, come se urtando troppo forte qualcosa con le dita, l’intera mano mi potesse andare in mille pezzi. Quanto alla testa, avevo la sensazione che stesse per uscirmi una tarantola dal naso. Mentre l’effetto della droga cala, le cose mi appaiono diverse: per dire, i bambini che si arrampicano sugli alberi sono connessi ai rami, e l’albero è connesso al vento che soffia, e il vento è connesso a me, il cerchio si chiude. Se uno mi chiede se credo in Dio io scuoto la testa come se non me ne potesse fregare di meno, ma la verità è che ci credo. Solo che non so cosa ci devo fare.

Il giardinetto di fronte alla casa degli Anderson pareva la versione ghiacciata di un girone infernale. Qua e là la neve si era sciolta e poi gelata di nuovo in sottili onde di ghiaccio. C’erano erbacce che sbucavano nell’aria da sotto il terreno gelato. Sentivo risuonarmi nel cervello la risata odiosa di Ed che mi sfotteva, come un disco incantato. Che coglione. Avviandomi per il vialetto controllai di nuovo che non mi sanguinasse il naso. Il prossimo esame antidroga era fra un paio di settimane. E io ero col culo per terra. Ogni volta dovevo cavarmela con qualche trucco. Cercai di non incazzarmi troppo con me stesso in quel momento. Più tardi avrei avuto tutto il tempo che volevo.

Il vialetto di ingresso era pieno di sacchi verdi dell’immondizia. Mi chiesi se la nettezza urbana era in sciopero o se semplicemente Kevin se n’era andato all’altro mondo il giorno prima della raccolta dei rifiuti. Non volevo entrare. La veranda era zeppa di giocattoli rotti: un triciclo con la ruota anteriore di plastica consumata, pupazzetti contorti con le gambe ripiegate dietro le spalle e avvitate intorno alla schiena in posizioni assurde. Giocattoli patetici di ogni tipo, a colori fluorescenti, erano mezzi sepolti nella neve gelata.

La veranda era di legno e aveva cominciato a marcire probabilmente trent’anni prima. Sembrava che a tenerla insieme ci fosse solo quel centimetro di ghiaccio. Qualcuno prima o poi sarebbe scivolato e si sarebbe spaccato la testa in due. Perché Kevin non spalava il vialetto di casa? Era evidente che come soldato lasciava un tantino a desiderare. Già il fatto che fosse morto la diceva lunga.

Era inconcepibile che toccasse a me fare questa cosa. Ridicolo.

Ultimamente avevo un problema: mi mettevo a piangere e non riuscivo a smettere – più che piangere, in effetti, versavo proprio fiumi di lacrime. Ogni tanto l’idea di non essere una persona di cui potessi andare orgoglioso mi colpiva come uno schiaffo in piena faccia. Magari ero al Blue Sunrise a ridere, bere o fumarmi un cannone, o a sproloquiare di barche, macchine, armi, fica o chissà quale novità della serata, e all’improvviso mi alzavo per andare al cesso, mi chiudevo in un gabinetto e giù a piangere fino all’ultima lacrima. Volevo stare per conto mio, ma coglievo sempre al volo la più stronza occasione per circondarmi di altra gente.

Avevo questo buco vuoto in mezzo al petto; riuscivo quasi a sentirne il rumore. A volte credevo che fosse la fame, o che mi scappasse da cacare, che avessi voglia di una scopata o di una sigaretta, o pensavo che magari buttando giù cinque bicchierini in rapida successione l’avrei bagnato per bene e riempito, ma facevo tutte queste cose e quel buco desolato sotto le costole era sempre lì: proprio sopra lo stomaco e sotto il cuore.

Se stavo seduto fermo e facevo un lungo respiro profondo riuscivo a toccarlo o ad afferrarlo – be’, quasi. Ma l’ultima volta che ci avevo provato mi ero spaventato, come se lì ci fosse un’enorme bugia pronta a esplodere.

Dio santo, non voglio cambiare, pensavo. Non voglio.

Accendi la radio, vattene al cinema, prendi la macchina e vai al campo di paracadutismo, e salta giù da un cazzo di aeroplano. Fai quello che ti pare. Ma non startene lì seduto fermo.

Mentre bussavo alla zanzariera con le nocche nude e fredde una vampata di dolore mi trafisse la mano. Mi chiesi che avrei fatto se ad aprirmi la porta fosse venuto Gesù Cristo in persona. Mio padre amava Gesù; parlava in continuazione di lui, del valore della povertà.

Per un attimo mi preoccupai del mio aspetto, spolverandomi i pantaloni e la giacca, passandomi le dita fra i capelli a spazzola, dandomi un’aggiustatina ai baffi, controllando di nuovo che non mi sanguinasse il naso. Una folata di vento mi attraversò l’uniforme di rayon e cominciai a battere i denti. Bussai di nuovo, stavolta con il taglio del pugno. Da dentro arrivava un suono ovattato di cartoni animati. Quando ero piccolo io, la domenica i cartoni non c’erano.

Una donna nera anziana con un lungo parka viola sopra un vestito rosso aprì la porta ma lasciò la zanzariera chiusa. Ancora nessuno aveva installato le controfinestre esterne, quelle per la brutta stagione. Uno zerbino ai miei piedi diceva: ALLA LARGA. La vecchia portava un paio di calzettoni di lana grossa grigia sopra le calze nere, ma niente scarpe. Era sovrappeso e aveva la pelle sana e luminosa. Gli occhi di un nocciola molto chiaro, con il bianco intorno leggermente giallognolo. Due bambini, un maschietto di quattro anni o giù di lì e una femmina che aveva a stento l’età per mangiare senza nessuno che la imboccasse, erano seduti nella cucina alle sue spalle a sgranocchiare cereali al miele, guardando una tv sedici pollici posata sulla tovaglia di plastica.

«Sì?» disse la donna. Aveva una voce bassa e profonda, probabilmente cantava nel coro della chiesa.

Io non dissi niente.

«Chi è? Chi è?» strillò il bambino più grande.

«Nessuno!» rispose lei. «Mangia la colazione e guarda la tv». Si voltò di nuovo verso di me e sorrise. «Se stai cercando Kevin, non c’è».

«No» dissi. «Sto cercando la moglie. È lei?»

«No, tesoro. Sono la mamma. Tangerine è di sopra che dorme, ma non è il caso di disturbarla per nessun motivo». Sorrise, aspettandosi che me ne andassi.

«Ah, va bene. Allora posso parlare con lei, se non le dispiace?» Non avevo la minima idea di come avrei fatto a sbrigare quella faccenda. Il compito non doveva toccare a me.

«Certo, entra pure» disse, aprendo la zanzariera. «C’è qualcosa che non va?»

«No, no» mentii, affrettandomi a nascondere la cartellina di Anderson.

«Be’, non hai una gran bella cera, ragazzo mio».

«No, è solo che ho freddo». Mi controllai di nuovo il naso. Non sanguinava.

«Non è che Kevin si è messo nei guai, o qualcosa del genere? Non sei della polizia militare, vero?»

«No. No, non sono della polizia militare». Risi, come a dire che non era niente di così serio. Dentro casa faceva un caldo opprimente. Credetti di svenire. La testa mi si cominciò a gonfiare e ne sentii violentemente tutto il peso.

«Questo vuol dire che non dobbiamo più andare in chiesa?» chiese speranzoso il bambino, alzando gli occhi dalla tv.

«Questo COSA significa COSA?» disse la vecchia, lanciandogli un’occhiata.

«Hai detto che se c’era qualcuno a badarci, potevamo stare a casa invece di andare in chiesa» rispose semplicemente lui.

«Questo signore non ti salverà. La tua unica speranza era tuo padre, e a quanto pare non arriverà in tempo». Prese la testa del bambino con una mano e la ruotò verso il televisore. «Siediti» disse, voltandosi verso di me e togliendo dei giornali da una delle sedie intorno al tavolo.

Mi sedetti accanto al bambino. Il tavolo era ingombro di biglietti della lotteria.

«Come ti chiami?» gli chiesi. Lui mi guardò: era carino con quei capelli a spazzola, la pelle color caffellatte e gli occhioni neri.

«Harper» disse.

«Che bel nome».

«Lo so». Annuì.

«Allora, di che si tratta?» mi chiese la vecchia. Era in piedi accanto al frigorifero e si massaggiava delicatamente le braccia sopra il parka. La cucina era abbastanza pulita. Le pareti erano dipinte di azzurro. C’erano troppi gingilli e cianfrusaglie, ma tutto sommato la casa era molto ben tenuta.

«Anch’io da piccolo non sopportavo di andare a messa» dissi sorridendo.

«Perché, adesso ci vai tutte le domeniche?» mi chiese lei con tono cinico.

«No, anche ora non ci vado spesso. Anzi, non ci vado mai, ma ogni tanto mi piacerebbe». In quel momento considerai seriamente l’ipotesi.

«Dovresti provarci» disse lei. Era una donna del Sud. Mi chiesi com’era finita così a nord. «Perché sei qui, figliolo?» chiese di nuovo. Aveva solo una leggera traccia di impazienza nella voce. Il suono delle idiozie della tv sembrò aumentare di volume. È incredibile quanto i bambini possano concentrarsi sui cartoni animati senza ridere.

«Potrei avere qualcosa da bere? Se non le dispiace?» chiesi, toccandomi il viso. Avevo seri problemi con la bocca. Mi succede sempre quando mi drogo, è come se cercassi di mangiarmi la faccia dal di dentro. Non riesco a smettere di lavorare di mascella e di mordicchiarmi l’interno delle guance.

«Abbiamo solo succo di pomodoro» disse lei senza muoversi.

«Va benissimo».

«Vuoi del succo di pomodoro?» chiese incredula, costringendomi a guardarla negli occhi.

«Se non le dispiace».

Aprì il frigo, tirò fuori una bottiglia di succo di pomodoro e me ne versò un po’ in un piccolo bicchiere azzurro.

«Harper, porta tua sorella di là».

«Perché?»

La nonna gli lanciò un’occhiataccia. «Non ci andiamo più in chiesa?» chiese lui sottovoce.

«Forse no» disse lei guardandomi.

«E vai! E vai!» esultò il bambino, poi afferrò la sua ciotola e quella della sorellina e le mise nel lavello. «Hot-diggity, dog-diggity, boom whatcha do ta me»1 strillò alla bambina, poi la prese per mano e la trascinò nell’altra stanza, discettando per tutto il tempo dei benefici del saltare la messa.

«Allora, guardi, il fatto è questo» dissi un millisecondo dopo che ci ritrovammo soli, aprendo il dossier dell’esercito che avevo sotto il braccio. «Suo figlio, il soldato semplice Kevin Anderson, è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco stanotte, fuori dalla base, nel corso di una lite scoppiata nel parcheggio del bar Paradise. Il corpo si trova al Centro Medico, dove la aspettano tutte le informazioni sull’ora esatta del decesso, la cartella clinica completa e la ricostruzione dell’eventuale atto criminale». Me la stavo cavando bene, tenevo gli occhi puntati sulla cartellina di Kevin e li alzavo di tanto in tanto verso di lei. «Kevin ha diritto a un funerale militare a spese dell’esercito degli Stati Uniti. Altre forme di assistenza e informazioni importanti le saranno comunicate al momento della consegna del corpo. È norma prioritaria dell’esercito far sì che la famiglia venga informata quanto più rapidamente sia opport... possibile. E questa... ehm... è la mia missione, oggi». Questa fu la caterva di stronzate che mi uscì di bocca. Ho vissuto nell’esercito abbastanza a lungo perché tutto il suo lessico burocratico mi venga naturale, anche mentre dimeno la mascella come un cocainomane.

Ci fu un lungo silenzio durante il quale la donna mi guardò fisso negli occhi. Io cercai di restare immobile.

«Sei sempre tu a fare questa cosa?» chiese, senza nessuna reazione visibile alla notizia che le avevo appena dato.

«No, non se ne occupa una persona in particolare. Si fa a rotazione. Questo mese spetta al mio tenente, che a sua volta ha assegnato la missione a me. In tutta onestà, comunque, dovrei dirle che a rigore questo non sarebbe compito mio». Mi controllai di nuovo il naso e bevvi un sorso di succo di pomodoro. Era caldo e aveva un pessimo sapore. Evidentemente il frigo faceva i capricci. «Mi dispiace moltissimo» aggiunsi. Mi sentivo un pochino meglio.

«Sei drogato?» mi chiese.

Tutto il corpo mi si contrasse come se stessi per avere un attacco epilettico. Feci segno di no con la testa.

«Sei drogato?» ripeté lei.

«Sì». Annuii debolmente.

«Davvero mio figlio è morto?»

«Sì» dissi.

«VAFFANCULO, VATTENE DA CASA MIA» strillò lei, e mirando alla testa mi tirò la bottiglia di succo di pomodoro, che rimbalzò sul tavolo e rotolò a terra senza rompersi. La violenza è così poco efficace, nella vita reale. Il coperchio era venuto via e c’era succo di pomodoro dappertutto. Per pulire ci sarebbe voluta un’eternità. Zitti zitti, i due bambini sgattaiolarono dal corridoio e si misero dietro la nonna, aggrappandosi alla sua gamba e all’orlo del parka.

«Nonna, che c’è?» chiese Harper, guardandomi.

«Vattene da questa casa» disse la donna, stavolta a voce bassa e severa. Io non mi mossi. Non ci riuscivo. Volevo dirle che la capivo – non avevo mai voluto davvero arruolarmi, era solo un capriccio che si era trasformato in due anni e mezzo di alcol. Non facevo così schifo. Era il giorno peggiore della mia vita.

Mio padre si era suicidato, e la vita che avrei dovuto vivere era morta con lui. Promisi a me stesso che se fossi sopravvissuto fino al giorno dopo, e se non mi fosse cascato il naso dalla faccia, sarei cambiato. Per prima cosa mi sarei rimesso con Christy, e lei mi avrebbe aiutato a trovare un modo per migliorare tutta la situazione.

La madre di Kevin si avviò alla porta e la aprì per farmi andare via. Con il dossier ancora in mano, mi avvicinai alla porta e feci per uscire. Mi voltai per dirle ancora una volta quanto mi dispiaceva, e lei mi dette uno schiaffone fortissimo sulla guancia. Cominciò a uscirmi sangue dal naso. Uscii, spingendo la zanzariera. L’aria fredda mi anestetizzò la faccia pulsante di dolore.

«Ehi, tu» gridò la vecchia, con gli occhi gonfi di lacrime rabbiose. Mi girai. «Come ti chiami?» urlò da dietro la zanzariera.

«Cosa?» dissi io, tenendomi ancora il naso. Da un momento all’altro avrei cominciato a singhiozzare.

«Non mi hai detto come ti chiami. Non ti sei nemmeno presentato».

«James» dissi. «Sergente maggiore James Heartsock junior». Che delusione sarei stato per mio padre.

«Be’, Jimmy Heartsock, non ti dimenticherò mai».

 

 

1 Sono parole di un vecchio successo di Perry Como. (N.d.T.)