Chi c’è dentro al cane?

Dopo aver passato la notte allo Skytop Inn and Steak House di Kingston, un motel con una splendida vista sulla statale 87, arrivammo in macchina fino a Manhattan, ritirammo le valigie di ­Christy alla stazione dei pullman di Port Authority e decidemmo di pranzare.

L’Howard Johnson’s di Times Square sembrava il crocevia dell’universo. Una buona porzione dell’intero pianeta passa per quel ristorante in un qualche momento della propria vita. Era più o meno mezzogiorno e mezza. Non mi riuscì di far mangiare a Christy niente di sostanzioso: mi stava seduta di fronte tutta raggomitolata su se stessa, praticamente intenta a pomiciare con un bicchierone di frappè. Il posto era lercio come una fogna, ma per me era il paradiso. Le pareti erano fatte di gigantesche vetrate luride da cui entrava una luce bizzarra, filtrata di grigio. Eravamo all’angolo fra la Quarantacinquesima e Broadway, e quello che si vedeva fuori pareva Tokyo, o un qualche sogno futuristico: una baraonda di luci lampeggianti e cartelloni pubblicitari che vendevano tutti diverse varietà di sesso. Era come stare seduti nella calma soffusa di un acquario mentre branchi di pesci folli ci sfrecciavano davanti in un’esplosione di colori ed energia.

Le valigie di Christy erano appoggiate contro i nostri divanetti di plastica rossa. Una cameriera continuava a passarci accanto in gran fretta, inciampando sui bagagli e lanciandomi ogni volta un’occhiataccia. Era piuttosto sexy, a dire il vero – aveva ormai superato la quarantina ma portava il suo vestitino bianco e nero da cameriera come lo porterebbe una spogliarellista, aderentissimo e provocante – e comunque quello è uno sguardo che su di me funziona sempre. Christy era di ottimo umore. È facile amarla quando è così. Aveva gli occhi di un verde splendente; il frappè le stava facendo lo stesso effetto dell’eroina su un tossico. Si infilava in bocca il cucchiaio lungo e sottile, lo capovolgeva, chiudeva gli occhi e leccava meticolosamente il gelato.

Stavamo cercando di decidere cosa fare, e cominciava ad apparirmi chiaro che in realtà non avevo nessuna scelta – se la volevo davvero sposare, intendo. Avevo provato in vari modi a farle prendere in considerazione l’ipotesi di tornare ad Albany, ma non c’era niente da fare. L’unica vera domanda era come me la sarei cavata col tenente. Ma quello era un problema mio. L’avrei risolto. Era la prova del fuoco.

Dentro la tavola calda il rumore era piuttosto assordante. Il locale rimbombava del brusio dei turisti che pranzavano chiacchierando a più non posso. Anche Christy stava parlando a raffica.

«È strano, no? Quando vedi tutta questa gente nello stesso posto» stava indicando con il cucchiaio la folla di gente che passava in fretta davanti alla vetrata, «ti viene da immaginare che siamo tutti quanti acqua: come onde sull’oceano. Non trovi?»

«Eh già» dissi. Forse avrei dovuto semplicemente richiedere il congedo, pensai, e chiudere la partita. La verità era che non mi sarei mai dovuto arruolare. Ho fatto due anni di università, che diavolo: non sono mica un idiota. Quanti errori ho fatto in vita mia, quanto tempo ho sprecato.

Seduta al tavolo di fianco a noi c’era una bambina bionda che avrà avuto sì e no tre anni, insieme al padre, che era probabilmente solo un anno o due più grande di me. Aveva la barba più folta della mia, ma per il resto saremmo potuti passare per fratelli. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a fare a meno di origliare la loro conversazione. Avevano due biglietti per il musical del Re Leone posati sul tavolo. La bambina aveva le guanciotte rosse da irlandese. Si protese in avanti, tirando fuori la minuscola lingua pulita, e chiese con voce acuta: «Papà, di che cosa odora la mia lingua?»

«Non lo so, amore» rispose il padre. Aveva una voce sorprendentemente simile alla mia.

«Dove andiamo quando moriamo?» chiese Christy, costringendomi a voltarmi verso di lei.

«Cosa?» feci io.

«O più precisamente, dove sono andata io? La prima volta che sono venuta a New York mi ci ha portata mio padre, che era in viaggio d’affari. Avrò avuto dieci anni. Ecco, quella bambina non esiste più. Non puoi andarci a fare due chiacchiere. Non la trovi in giro da queste parti». A volte, quando Christy parla, è come se avesse un buchino in cima alla testa e ne sgorgasse un raggio luminoso. Capita talmente di rado che si rilassi e si lasci andare, che quando succede sembra un gran diluvio di luce.

«Ti guardo e ripenso alla sera che ci siamo conosciuti, e tu non sei più quella persona. Cioè, gli elementi sono gli stessi, ma tu sei diverso. Guardami adesso». Christy sollevò in aria le lunghe braccia, sempre tenendo in mano il cucchiaino sgocciolante, chiedendomi di osservarla nella sua interezza. «Non sarò mai più questa stessa persona. Quando oggi usciremo da qui – quando arriverà domani – io sarò un’altra persona, non esattamente la stessa che sono ora. Forse morire non significa altro che questo».

«Ma di che stai parlando?» chiesi io. Il sole aveva fatto capolino da dietro una nuvola, e ancora non riuscivo a togliere gli occhi dalla bambina seduta accanto a noi. Ora la sua sagoma si stagliava in controluce contro il finestrone illuminato; il padre portava un giubbotto di pelle fico da morire. Doveva essere carino portare una figlia a vedere Il Re Leone, pensai. Oppure no, magari ti fai due palle così. Non ho mai passato molto tempo coi bambini e non avevo idea di come avrei affrontato la situazione imminente.

«Sono otto anni che non torno a casa in Texas» continuò Christy. «Come ha fatto a passare tutto questo tempo? Ormai sono una donna: quando è successo? E fra poco sarò pure una madre». Si teneva una mano sul petto, guardandomi con espressione incredula.

«Sei sicura che non ti va neanche un morso di questo?» chiesi col mio hamburger in mano. Avendo finito più della metà di quel bestione, potevo dire con cognizione di causa che era delizioso. Probabilmente l’hamburger più buono che avessi mai mangiato: pomodori freschi, cipolle fresche, un cetriolone sottolio smisurato e croccante.

Lei scosse la testa e continuò a parlare. «Cioè, ti voglio dire questo. Ogni tanto si sente discutere del fatto se “siamo” o meno il nostro corpo, oppure se “siamo” la nostra mente. Ossia, in pratica, che cos’è il nostro spirito?»

Fece una pausa, e io annuii.

«Be’, io ti posso dire quello che non siamo. Noi non siamo il nostro corpo, assolutamente. Insomma, in questo momento il mio corpo è come una giostra su cui io non ho il minimo controllo. Vorrei fartelo sentire, cosa mi sta succedendo dentro: vibro come... Non lo so, come la fusoliera di un aereo che precipita. Capito?» Mi sorrise, posò il cucchiaino sul tavolo e si abbracciò la pancia con tutte e due le mani. «Questo corpo che vedi non sono io. Non sono io a fare tutto questo. Sentimi il gomito». Allungò verso di me il braccio piegato per farmelo toccare e, posando le mani sulla sua pelle delicata come il latte, sentii tutta l’articolazione scoppiettare di elettricità.

«Certe volte mi domando se la nostra personalità – cioè quello che noi consideriamo noi stessi – non sia più che altro una specie di radar montato su un aereo. Nel senso che questa nostra coscienza, o come la vogliamo chiamare, sta lì solo per tenere il corpo lontano dai casini, solo per impedirci di andare a sbattere uno contro l’altro». Si chinò in avanti e senza usare le mani bevve un po’ di frappè dalla cannuccia. «Ci fissiamo tanto su cose come il nostro nome, il posto dove siamo nati, il nostro paese, la religione. Ma tutte queste sono solo informazioni che ci sono state trasmesse – cioè, anche il codice genetico, giusto?» Tese le dita lunghe, quasi deformi, per farmele osservare. «Queste mani sono di mia nonna, ok? Non sono mie. E lo stesso vale per le cose in cui siamo bravi: uno corre velocissimo, quell’altro è portato per la matematica» stava indicando persone a casaccio fra quelle sedute intorno a noi, «insomma, niente di tutto questo è noi».

«D’accordo, Christy, niente di tutto questo è noi» dissi, dando un altro bel morso al mio hamburger. Era unto e grasso, questo non posso negarlo, però ragazzi, ve lo giuro, era roba da leccarsi i baffi. Sul serio. Quel locale mi stava dando alla testa. Forse erano tutti i discorsi di Christy, ma per la prima volta forse da anni mi pareva di riempirmi d’aria come un palloncino. Anche Christy sembrava più leggera. Mi piace quando mi parla, a prescindere da che cosa voglia dire; mi piace il semplice fatto che voglia dirmi delle cose. Se il nostro stato d’animo di quel momento era un indizio valido, allora ero sicuro che stavamo facendo bene ad andarcene da Albany. Il solo fatto di trovarmi a chilometri e chilometri di distanza dall’esercito bastava a farmi tornare le spalle nella posizione naturale e il respiro più tranquillo e profondo. La giustapposizione di Times Square lì fuori con il calore e la relativa calma di tutti noialtri dentro il locale mi faceva sentire come se stessimo pranzando al centro della Terra.

La bambina accanto a noi disse a voce alta al padre: «Papà, quando tu eri piccolo e io ero la tua mamma, una volta ti ho portato a teatro. Lo sapevi?» Non riuscii a sentire la risposta.

«Lo sai quanto ho faticato per andarmene dal Texas?» proseguì Christy, coi pensieri che si accavallavano uno sull’altro. Credo che non si fosse neanche accorta della presenza della bambina, di suo padre o della cameriera che ci passava vicino imbronciata. In quel momento per lei esistevo soltanto io. Voleva comunicare. «L’unico mio desiderio era partire per New York. Sono andata alla scuola estiva e ho seguito i corsi facoltativi solo per potermi diplomare con un anno e mezzo di anticipo, e poi cosa ho combinato? Sono venuta qui, mi sono sposata con un ragazzetto alcolizzato che veniva dalla mia città e per tre anni gli ho fatto da balia. Era questo che avevo tanta fretta di fare? Era assurdo. In pratica mi sono data la zappa sui piedi, capisci?»

Avevo sempre pensato questo di Christy, che era come un cipresso che per qualche arcano motivo si rifiutava di voltare completamente i rami verso il sole.

«E non volevo più tornare a casa fino a che non fossi diventata una persona forte. Una persona autorevole, in grado di parlare con esperienza e intelligenza per giustificare il fatto di essersene andata così all’improvviso. Ma non sono diventata quella persona lì. A diciassette anni sono passata davanti a questa stessa vetrina con addosso una giacchetta leopardata, e adesso ne ho otto di più e mi sembra che non mi sia successo niente di importante».

«E la bambina?» le chiesi.

La domanda interruppe il suo slancio.

«Finora, diciamo. Finora». Abbassò gli occhi e infilò il cucchiaino nell’ultima gigantesca palla di gelato sul fondo del bicchierone da frappè.

In quel momento, dentro l’Howard Johnson’s, mi sentivo innamorato di Christy più di quanto avessi mai creduto di essere capace; avrei voluto essere lei, essere dentro di lei, essere suo perché mi usasse come voleva, proteggerla, leggerle un libro per farla addormentare la sera, essere quel frappè che le scivolava giù per la gola.

«Sì, ero la tua mamma» annunciò la bambina accanto a noi, annuendo trionfante al padre. «Tu ti chiamavi Sofie, e io ti portavo ai giardinetti e ti davo la cioccolata e il succo di frutta. Te lo ricordi?»

«No» si limitò a rispondere lui.

Io e Christy lanciammo un’occhiata al padre e alla figlia lì a fianco e poi tornammo a guardarci.

«Ti posso dire una cosa veramente stupida?» mi chiese Christy. «Mi prometti che poi non la tiri fuori per rinfacciarmela e prendermi in giro?»

«Certo». Annuii.

«Promesso?» insistette lei, sorridendo.

«Promesso».

«Quando ero piccola, lo sai cosa volevo fare segretamente da grande?»

«Che cosa?»

«La santa». Sorrise, allungando le labbra rosse bagnate di gelato e schiuma. «E se ti dovessi dire – cioè, se potessi veramente scegliere – ancora oggi è la stessa cosa. Mi piacerebbe essere la santa di tutti quelli che non credono e non vogliono credere in niente».

Il suono della sua voce era bellissimo; sembrava che l’aria si muovesse dentro di lei senza incontrare nessuna resistenza.

«C’è un modo per convincerti a mangiare qualcosa?» le chiesi.

«Non ho proprio fame» rispose lei semplicemente. «Sul serio».

«Sì, ma non hai neanche fatto colazione». Ora che sapevo della gravidanza, cominciavo a preoccuparmi che Christy non stesse abbastanza attenta alla salute. Fumava ancora qualche sigaretta di tanto in tanto, e da quando l’avevo fatta salire in macchina la sera prima non aveva mangiato niente se non qualche merendina e quel frappè. Non è mai stata tanto brava a prendersi cura di se stessa. È capace di bere come un cane assetato. Non so quante volte le ho dovuto tenere la testa mentre vomitava. E non mi pare di averla mai vista fare attività fisica.

«Adesso non ti montare troppo la testa, ma stare con te è quanto di più simile ho mai provato alla sensazione di trovarmi in un posto reale, autentico. Però come si fa a portarsela sempre dietro, una cosa del genere? Come si fa a costruirci sopra una casa? È possibile? Oppure magari è solo un’impressione, come è un’impressione che questo frappè sia squisito.

«Che cos’è che fa di me stessa quella che sono, a parte le cose che penso?» continuò Christy. «Perché le cose che penso cambiano in ogni momento. Lo so, lo so» si interruppe da sola, «è proprio questo il motivo per cui la gente ha fede. Si chiude a chiave dentro la testa certi pensieri e ci pianta un po’ di paletti tutto intorno, e così ha deciso in che cosa credere: ma questo non significa che quel recinto sia reale. È tutto molto arbitrario, no? Sinceramente, non può mica essere che tutti gli indù vadano in paradiso e noialtri restiamo con le chiappe per terra, ti pare? Qualunque cosa succeda, succederà a tutti, che ci piaccia o no, non credi?»

Spostò da una parte il frappè e si passò le lunghe dita fra i capelli.

«Devo andare in bagno» annunciò, ma non si mosse.

«E allora perché non ci vai?» chiesi io.

«Mah, no, non fa niente». Alzò le spalle.

«Vuoi vedere le mie facce arrabbiate?» esclamò la voce acuta della bambina vicino alla vetrata. «Ce ne ho due». E passò a prodursi in due comiche esibizioni di rabbia feroce. Una con le braccia conserte e la fronte corrucciata, l’altra con i pugni stretti in aria e i denti sfoderati minacciosamente, come una tigre.

«Cioè, voglio chiederti una cosa» riprese Christy, sorridendo, divertita dalle smorfie della bambina. «Adesso siamo qui al centro di Times Square con una marea di gente intorno, giusto? Voglio dire, lì fuori c’è un mondo immenso, no?» Guardò fuori dalla vetrata, oltre la bambina bionda. «Se guardi fuori, puoi vedere il passare del tempo».

Aveva ragione. Lì fuori erano rappresentati almeno un centinaio d’anni – un albero triste e scheletrico che faceva del suo meglio per crescere nel fazzoletto di terra che gli avevano riservato, la statua mezza sgretolata e macchiata di sterco di piccione di un’attrice che era stata famosa molti anni prima, un vecchio cane stanco legato alla grata metallica di una sartoria abbandonata che sembrava aver chiuso i battenti dall’epoca in cui era presidente Jimmy Carter, un cartellone a colori fluorescenti con una donna nuda che teneva fra le braccia un forno a microonde: qualunque cosa uno stesse cercando, là fuori c’era.

«Tu pensi veramente che noi due, io e te seduti qui a questo tavolo, riusciremo a renderci felici per il resto della nostra vita?» chiese Christy. Aspettava una risposta.

Fra di noi ci fu un silenzio che parve occupare tutto il ristorante.

«Ovviamente no, giusto? Insomma, guardiamo in faccia la realtà. Guardiamo le cose come stanno». Piegò la testa in avanti e mi fissò con intensità, poi la scosse leggermente come per spezzare il suo stesso incantesimo. «Ma la felicità è sopravvalutata. Nessuno può essere felice per il resto della sua vita: a meno che non gli rimangano, che ne so, solo due giorni da vivere. Quindi la felicità lasciamola perdere. La domanda più interessante è: siamo in grado di mettere su casa insieme? È possibile? E che cos’è una casa? C’è un posto dove potremo vivere stabilmente? La bambina che ho dentro la pancia è più a casa ora di quanto potrà mai esserlo per tutta la vita, e ancora non è nemmeno nata. Passerà praticamente ogni sera per i prossimi – speriamo – novant’anni a cercare di sentirsi altrettanto al caldo e al sicuro nel suo letto di quanto si sente in questo momento nella pancia della mamma. E la sua mamma non è certo una santa». Si puntò addosso i due lunghi indici con gesto accusatorio. «Mi piace troppo bere, e non credo che questo valga anche per le sante. Non riesco nemmeno a smettere di fumare. E di ritratti di sante con una Marlboro in bocca non se ne vedono tanti, non so se mi spiego. Ma se potessi scegliere, è proprio questo che vorrei essere, una persona che fa sempre quello che è più giusto, e non perché si sforza di farlo, ma per istinto. Vorrei essere una di quelle ragazze che dicono: “Ah, guarda, dal momento esatto che sono rimasta incinta, le sigarette per me sanno di posacenere”. Manco per sogno! Per me hanno un gran sapore. E poi sento un’ansia costante che mi aleggia dentro e passa da una preoccupazione all’altra: è potente, e sta sempre annidata lì sotto a cercare una qualunque scusa buona per farmi venire un attacco di nervi, capisci?»

Capivo. Dire che Christy ha problemi di nervi è un grosso eufemismo.

«Questa sensazione mi tormenta ventiquattr’ore su ventiquattro, ogni giorno, e fumare mi calma. Davvero».

«Ma di che stai parlando, Christy? Mi pare che stai cercando di farmi capire qualcosa, però senza dirmi di preciso cosa». Era una sensazione che avevo la maggior parte delle volte che parlavamo.

«Ti sto solo dicendo che se davvero vuoi provare ad accompagnarmi a casa, la strada è lunga».

«Certo che ti voglio accompagnare a casa, topolino».

«Davvero? Sei sicuro?» mi chiese, mordendosi le unghie.

Io annuii.

«Be’, anch’io ti voglio portare a casa con me».

«Perfetto».

«No, dico sul serio. Come facciamo con l’esercito?» chiese Christy.

«Non lo so. Penso che chiederò il congedo». Ero a disagio, ora che il centro della conversazione si era spostato su di me.

«Sei convinto che è questo che vuoi?» chiese lei.

«Sono sicuro che lì non ci voglio tornare» dissi sottovoce. Era la verità. Avevo bisogno di passare ad altro, questo era chiaro come il sole. In quel momento non avevo nemmeno paura. Avevo accanto un’amica, non mi serviva altro. Se avessi avuto la forza di andare avanti e uscire dal ristorante, pensavo che mi sarei trasformato in una persona del tutto nuova. La mia unica paura, che restava ancora sepolta in fondo allo stomaco, era: Chi sarebbe stata quella persona?

«Io ti amo per quello che sei, Jimmy, e non c’è niente di te che ho bisogno di veder cambiare. Ma tu cambierai comunque» disse Christy, come se stesse rispondendo ai miei pensieri. «A tutti e due succederà qualcosa. Io voglio fare solo quello che sembra giusto a te, ma se davvero mai ci sposeremo, se avrò questa bambina, prima ci sono certe cose che secondo me dovremmo fare per prepararci. Per esempio, avrò bisogno di conoscere tua madre, vedere la tua città, visitare la tomba di tuo padre. Io credo che sia importante».

«No, queste cose lasciamole perdere» dissi, ed era la frase più naturale e istintiva che mi fosse mai uscita di bocca.

«Invece le dovremmo fare» disse Christy, accavallando le gambe sul divanetto rosso dell’Howard Johnson’s. «Andiamo a dire a tua madre che aspetto un figlio, sistemiamo la faccenda con l’esercito, affrontiamo i vari problemi, insomma. Poi partiamo per il Texas. Dobbiamo cominciare con il piede giusto. È tutta la vita che mi pare di cominciare sempre da una posizione statica. Non costruisco mai su delle fondamenta già salde. No, mi tocca sempre lasciarmi una cosa alle spalle e» schioccò le dita «ricominciare da zero».

«Non c’è bisogno che andiamo in Ohio» ripetei.

«Secondo me sì» ribatté lei con calma.

Abbassai gli occhi e tirai su una delle patatine fritte rimaste. Mia madre, pensai. Che palle.

La bambina del tavolo accanto stava indicando il vecchio cane stanco legato alla grata della sartoria. I miei occhi seguirono il suo ditino. Mi pareva che l’animale fosse un labrador nero in paziente attesa del padrone.

«Papà» strillò la bambina, «chi c’è dentro al cane?»