8.

Le giornate di lavoro alla fabbrica di cioccolato erano molto più lunghe e stancanti di quanto avesse immaginato. Lo zio Josef non aveva fatto che scuotere il capo, scuotere il capo e basta, quando August era andato a prendere il suo posto.

“Fammi lavorare per un paio di settimane in fabbrica,” gli aveva detto, “devo prima capire bene…”

Lo zio l’aveva interrotto bruscamente: “Perché? Prima di farti un’omelette pretendi di diventare un pollo e fare le uova? Quello della fabbrica è un lavoro umile, e gente come noi non lo fa! Dimmi, perché sono diventato ricco? Perché la gente dica che i miei familiari lavorano in fabbrica? Perché si dica in giro che faccio lavorare la mia famiglia nella merda?”.

Era davvero contrariato, il che accadeva molto di rado. August si sforzò in tutti i modi di calmarlo: “Dai, zio Josef, non sono un socialista,” disse alla fine sorridendo, “se avessi voluto farti saltare in aria la fabbrica, mi sarei portato dietro la dinamite dalla caserma! Voglio solo imparare come si fa la cioccolata partendo dalla base”.

Josef lo fissò per un istante, poi si arrese.

“È una sciocchezza,” brontolò mezzo rappacificato, “una sciocchezza bella e buona!” per poi fargli l’occhiolino e dirgli che avrebbe cominciato il giorno successivo. “Prima la finiamo, meglio è,” disse, e August si rallegrò perché da quel momento in poi non avrebbe più avuto tempo libero a disposizione.

E andò proprio così: le giornate sembravano non finire mai ed erano faticose. Non sapeva se fosse colpa dello zio; se volesse farlo mollare o fargli ammettere di aver avuto un’idea stupida, fatto sta che fu assegnato alle macchine come tutti gli altri lavoratori. Nessuno sapeva che era il nipote del padrone. Tutto doveva essere fatto velocemente. Il rumore era tanto e lui non capiva nemmeno la metà di quello che gli gridava il caporeparto. Sopra di lui rombavano le cinghie di trasmissione della macchina a vapore che si muoveva ritmicamente nel reparto a fianco. Non c’era profumo di cioccolata. C’era un odore di ferro surriscaldato, di rame e di olio per macchine. C’erano lunghe vasche in cui le donne sciacquavano gli stampi nell’acqua bollente, mentre altre li asciugavano e li cospargevano di talco. La cioccolata pulita via dagli stampi galleggiava sull’acqua come un sottile velo di grasso. Era una catena e le donne avevano tutte le mani rosse, consumate dai lavaggi e piene di vesciche. Gli uomini erano addetti alle impacchettatrici: prelevavano delle tavole da grossi carri in legno che assomigliavano un po’ ai portacarbone delle miniere. Le tavole venivano deposte una dopo l’altra nella benna, un lavoro che non tollerava errori, perché la benna si sollevava immediatamente fino al ventre della macchina, girava su se stessa, avvolgeva ed espelleva la tavola, per poi abbassarsi di nuovo, tutto nel giro di qualche secondo, e gli addetti alla macchina erano grigi quanto la macchina stessa e le loro braccia erano come pompe idrauliche. August si chiese di sfuggita se a sera fossero in grado di smettere e se li immaginò mangiare, sollevare i loro figli, pettinarsi… sempre con lo stesso movimento. Il caporeparto affidò anche a lui una delle macchine che imprimeva il marchio della fabbrica sui coperchi delle latte. Un motivo tratto dalle fiabe, lo zio Josef le aveva sempre amate. Dopo quattro ore alla macchina, August cominciò a odiarle. Lamiera sulla benna. Il bollo si abbassava con un urto scoppiettante. Il bollo volava in alto, il coperchio bollente andava tolto immediatamente e subito bisognava inserire nella benna un nuovo pezzo di lamiera. Dentro la lamiera fredda, fuori la lamiera calda. Dentro, fuori. A volte August non riusciva ad afferrare il coperchio e la macchina stampava la seconda lamiera sul coperchio rovinando entrambe. Il caporeparto osservava e storceva la bocca senza dire nulla. Si trattava di un gesto limitato, ma dopo quattro, sei, otto ore, August sentiva solo il bruciore che gli mordeva i muscoli del braccio e niente, ma proprio niente gli pareva più bello di abbassare le braccia. Strinse i denti. Rimase alla macchina per due settimane intere. Dopo la fine del turno barcollava fino a casa e quasi sempre si addormentava immediatamente. Alla terza settimana il caporeparto lo collocò al mulino a cilindri, dove la massa di cioccolato veniva pressata in uno strato sottilissimo. Dopo una giornata intera aveva i capelli e il corpo pieni di cioccolata e il sudore che gli colava sul volto aveva un sapore dolce e salato.

L’ultimo sabato Josef si recò alla fabbrica. August non lo vedeva da quattro settimane, proprio come non aveva visto sole, pioggia o cielo. Il tempo per lui era solo quello della domenica e l’avanzare dell’autunno si era ridotto a quattro giorni: la prima domenica pioggia, la seconda le prime foglie colorate, la terza di nuovo pioggia, la quarta le prime castagne sulle strade.

“E allora?” gridò lo zio Josef, ghignando e togliendogli una benna di mano. “Adesso sai fare le uova?”

August non poté fare a meno di sorridere. Poi fece cenno di sì con il capo.

“Bene!” si rallegrò lo zio Josef, dandogli una pacca sulla spalla che August sentì arrivare fino alla punta dei piedi, poi gridò di nuovo: “Promosso, August Liebeskind!”.

Il caporeparto ridacchiò quando il giovane si congedò. Dopo tutto forse Josef gli aveva detto che era il nipote del padrone.

August seguì Josef verso la casa dello zio dove si ripulì i capelli dalla cioccolata e rivide su un fregio alla parete il motivo della fiaba che lo aveva accompagnato per quattro settimane. I dodici cigni. Conosceva quel fregio da quando era bambino. Ecco i fratelli, la loro trasformazione, ecco la sorella muta che tesse le ortiche in carcere e, alla fine, il riscatto. “Sì,” pensò, “dietro tutte le fiabe si nasconde tanto dolore quanto dietro la cioccolata.” Una delle camicie di ortica non poté essere completata. Uno dei fratelli salvati dall’incantesimo aveva conservato un’ala di cigno invece del braccio. August non era riuscito a dimenticare Elena Palffy.

Era già ottobre inoltrato quando la incontrò di nuovo. Un bel pomeriggio d’autunno sferzato dal vento, i viottoli nel grande parco erano vuoti. Già da bambino, studente e poi soldato, aveva sempre molto amato il parco, molto più del Prater, più popolare. C’era un odore diverso lì, specie in autunno. Arrivava dal Café Landtmann, dove aveva giocato a biliardo con i commilitoni. A dirla tutta, il Landtmann gli piaceva soprattutto per il dehors che dava sul Ring, e in quella giornata tersa e ventosa si sarebbe seduto volentieri a bere una tazza di caffè, ma ovviamente il dehors era stato dismesso da un pezzo. Anche se le sale del Landtmann erano spaziose ed eleganti, a doppia altezza, in una giornata come quella gli parevano anguste. Si era fermato per poco tempo, era distratto e sopportava di malavoglia la conversazione con i commilitoni in cui di solito brillava per le battute sagaci e le considerazioni pregnanti. Aveva continuato a guardare la strada battuta dal vento attraverso le vetrine e, d’un tratto, non solo avrebbe voluto esser seduto all’aperto, ma rimpiangeva pure il vento tra gli alberi e il suo fruscio, lì in mezzo agli odori selvatici e malinconici dell’autunno che sussurravano e risuonavano di partenze e nostalgia di paesi lontani. Era andato via così di fretta che il cameriere del Landtmann, con un sospiro, aveva dovuto mettere il caffè sul suo conto, tanto per cambiare.

Lungo i viottoli le bambinaie sedevano sulle panchine di ghisa, intente a leggere romanzi d’appendice mentre con il piede dondolavano le carrozzine dalle ampie ruote parcheggiate davanti a loro. L’aria profumava di fumo e d’autunno. August avrebbe volentieri aperto le braccia per farsi trasportare via dal vento. Una bella sensazione. Una sensazione di vita. L’aria nei polmoni.

In quell’istante vide Elena Palffy che, a una certa distanza, stava attraversando il parco di fretta. Le foglie morte sul viottolo turbinavano in piccoli mulinelli dietro al suo vestito per poi ricadere al suolo. Avrebbe preferito rimanere immobile. O scappare in un’altra direzione. Non una parola in oltre due mesi. E invece non poté fare a meno di incamminarsi, raggiungerla e, arrivato qualche passo dietro di lei, dirle quello che gli venne in mente in quel momento: “Vogliamo fare un pezzo di strada insieme?”. Lei, senza fermarsi, si voltò a guardarlo. Distante e bella. E niente affatto sorpresa.

“Sì,” disse dopo un attimo quasi impercettibile di esitazione, cortese e fredda.

Continuarono lungo il viottolo, senza fretta e senza meta. Le nubi leggere correvano veloci nel cielo autunnale, ma era un giorno azzurro, uno di quei giorni d’autunno che non fanno rimpiangere l’estate. Accanto alle fontane sferzate dal vento, l’aria sapeva di fresco e di castagni. Camminavano l’uno accanto all’altra, in silenzio. Camminare insieme, come se niente fosse, dava ad August una sensazione strana, ma prese coraggio e disse: “Non mi avete risposto”.

“Non mi avete chiesto niente,” rispose lei sfuggente. August stava per ribattere che non si riferiva a quel giorno, poi capì cosa intendeva. E si rese conto del perché lei prendesse tutto alla lettera, rifiutando di pensare secondo l’etichetta. Faceva quello che lui aveva studiato per dieci anni e che avrebbe dovuto riconoscere più in fretta: era tattica. Pensava come pensano i soldati quando vogliono sorprendere il nemico. Ecco il motivo per cui era sempre un passo avanti.

“Sì,” ammise, “avete ragione.”

“E non ti sto facendo la guerra, Elena Palffy,” pensò, per poi chiedere: “Avete per caso… Avete ricevuto la mia corrispondenza?”.

“Sì,” rispose guardandolo per un istante senza fermarsi. Era un sorriso?

“Dagli uomini finora avevo ricevuto profumi solo in forma di essenze… e la maggior parte delle volte erano quelle sbagliate,” disse con condiscendenza. “Voi invece…” cercò le parole giuste, “la vostra… cioccolata profumata è molto particolare. Mi avete… sorpreso.”

August notò che pesava ogni parola con grande cautela. “Non ti sto facendo la guerra, Elena Palffy,” le assicurò di nuovo in silenzio.

“Volevo solo farvi piacere,” disse a voce alta.

Si erano fermati entrambi sul piccolo ponte sospeso, nello stesso istante, come se sui ponti ci si dovesse fermare per forza per appoggiare le mani al parapetto e osservare l’acqua. Le prime foglie autunnali scorrevano lungo il fiume Wien come macchie colorate. Il profumo di Elena l’avvolgeva dolce come una nuvola di fumo d’autunno. Lei però continuava a fissare l’acqua senza dire una parola, come se August non ci fosse. Era tutto inutile, pensò il tenente. Continuava a comportarsi come un idiota. Come se si fosse presentato disarmato alle grandi manovre. Con uno slancio improvviso si staccò dal parapetto, si ricompose e disse secco: “Vi ho disturbata. Mi dispiace. Non capiterà più”. Dopodiché si tolse il cappello, inchinandosi con un eccesso di cortesia. “Arrivederci, cara signora.”

Lei si era voltata e adesso lo fissava con la schiena leggermente appoggiata al parapetto ed entrambe le mani sulla ringhiera.

“Il mio salone,” disse, e il viso le si ammorbidì, mentre le linee dure agli angoli della bocca si scioglievano in un sorriso improvviso, “da un paio di settimane il mio salone ha lo stesso aroma del mercato di el-Khalili del Cairo. Forse un po’ più austriaco, ma non di molto. Grazie alle vostre praline ogni giorno ho assaggiato una storia diversa della vostra villeggiatura. Non mi avete fatto piacere,” disse guardandolo rilassata, “non è la parola giusta. Certi giorni mi avete fatto ridere con la vostra erba appena tagliata e il vostro fieno. La cioccolata alla camomilla mi ha riportato a casa, alla mia infanzia, e il torrone alle castagne ha fatto soffiare solo per me lungo le strade accaldate lo stesso vento di oggi, già otto settimane fa. Siete un soldato di cioccolata, signor tenente. Combattete con le armi sbagliate.”

Il suo volto era bello e fresco come l’aria d’autunno. Era come se al parco fosse sempre mancato quel suo aroma e August si rese conto che non avrebbe più potuto sopportare giornate d’autunno piene di vento e sole come quella senza il suo profumo, così si piegò in avanti e con delicatezza baciò Elena Palffy sulla bocca.

I loro visi erano vicini. Il sole filtrava tra gli alberi, il vento soffiava e le foglie danzavano sull’acqua ed Elena Palffy disse piano, ma chiaramente: “Sempre le armi sbagliate, soldato di cioccolata,” dopodiché si piegò in avanti e ricambiò il bacio di August calma ma decisa.

Più tardi gli venne da pensare che i profumi sono come chiavi e alcune porte sono destinate a rimanere sbarrate per sempre e dimenticate perché non si trova la chiave giusta. Il profumo di Elena, quel misto di spezie africane, fumo, aromi freddi e caldi come la menta verde e il fieno ardente, quel profumo sopra, dentro e attorno al loro bacio, quel profumo era una chiave capace di schiudere una parte di August di cui lui aveva sempre ignorato l’esistenza. Ed era la stessa sensazione che aveva provato da bambino: un mattino, dopo lunghe settimane di malattia, si era svegliato sentendo di essere guarito. Era ancora debole ma sapeva che presto sarebbe stato di nuovo in salute.

A un certo punto lei gli appoggiò dolcemente un dito sulla bocca.

“Vogliamo camminare ancora un po’?” propose. “È una giornata così bella!”

Proseguirono lungo il viottolo, il sole era basso e il vento soffiava attraverso gli alberi ancora carichi di foglie.

Ad August sembrava di sentirlo per la prima volta. Si fermò e prese la mano di Elena. “Se avessimo l’udito dei gatti, sentiremmo che questa mia carezza fa lo stesso rumore del vento tra gli alberi.”

Elena sorrise ma non ritrasse la mano. Oltrepassarono il parco giochi e raggiunsero la fontana vicino al Kursalon ormai vuoto.

“Ti ho già stancata tanto?” chiese lei pungente, quando lui, passandoci accanto, attinse dell’acqua per rinfrescarsi.

“Faccio solo scorta,” disse August sorridendo felice, “chi lo sa quello che mi aspetta!”

“Carestia prevista non venne mai!” declamò lei. “Non è così che dite voi viennesi previdenti?”

“I detti della saggezza popolare,” rispose August con condiscendenza, “sono spesso sottovalutati, specie dalle donne giovani e avventate.”

Non poté fare a meno di ridere.

E sulla terrazza della vecchia cascina, da tempo trasformata in caffè, disseminata di tavoli vuoti e di sedie in ferro battuto sparpagliate ovunque, la baciò di nuovo con le labbra fresche.

Più tardi, quando era ormai l’imbrunire e August l’accompagnò al tram sul Ring, lei, già con un piede sugli scalini del mezzo, tirò fuori il fazzoletto e lo lasciò cadere.

“Oh,” disse con sorpresa affettata, “che sbadata. Ma,” continuò poi ad alta voce, senza preoccuparsi della gente che dietro di lei voleva salire, “è così che fa una signora quando desidera un altro incontro…” e se ne andò. Alcuni si misero a ridere quando August, con il volto in fiamme, raccolse il fazzoletto e se lo mise in tasca. Dall’interno, Elena Palffy guardò verso di lui e portò le dita alla bocca, sorridendo, come per mandargli un bacio.

Camminando verso casa nella luce del tramonto, August fu certo che quel giorno sarebbe rimasto impresso nella sua memoria per sempre.