9.

Nonostante lo straordinario dinamismo della città, le giornate di August a Berlino trascorrevano incerte e inquiete. Il ricordo di quella prima sera non lo abbandonava e cominciò a inseguire la città e i suoi odori. Mentre cercava di orientarsi in strade sconosciute, si rese conto di quanto, nella sua testa, la pianta di Vienna corrispondesse a una mappa di odori. Anche a Berlino ogni quartiere aveva la sua fragranza: le strade vicino al Landwehrkanal avevano un odore diverso rispetto a quelle attorno alla Sprea. Gli androni di Friedrich­stadt non avevano lo stesso odore dei viali del Mitte. L’odore di povertà di Neukölln: fontane puzzolenti, il sapone a buon mercato della biancheria stesa ad asciugare nei vicoli, l’odore rancido delle teste dei bambini che i genitori, sempre in fabbrica, non avevano tempo di lavare. L’odore del parco nella zona occidentale, dove gli industriali costruivano le loro ville. L’odore di cavolo nelle strade attorno alla nuova stazione di Friedrichstrasse. L’odore della pietra calda dopo uno scroscio di pioggia, quando il sole tornava a splendere. L’odore tutto particolare di pane a Fehrbelliner Platz. L’odore di malto tostato del birrificio Schultheiss nei viottoli storti di Prenzlauer Berg. August chiudeva spesso gli occhi durante le sue passeggiate e vedeva la città nei colori annebbiati dei profumi. Gli odori erano qualcosa a cui aggrapparsi. Fornivano uno schema alla sua esistenza, erano come la promessa di una meta.

La sera si attardava nelle bettole di Friedrichstrasse, a teatro o ai varietà, non faceva troppa differenza. C’erano locali di dubbia reputazione, davanti ai quali stazionavano uomini asciutti con le braccia tatuate, i berretti unti e un mozzicone di sigaretta puzzolente all’angolo della bocca. Apostrofavano i passanti in un dialetto berlinese così stretto che spesso August non riusciva a capire tutte le parole. Talvolta intere brigate di studenti facevano irruzione nei locali, con il berretto sulle ventitré, gli stivali e i colori della loro confraternita, e August si univa al gruppo. Tuttavia, persino le bettole alla fine erano prussiane. August aveva la sensazione che per gli studenti la birra fosse più importante del manipolo di ragazze che ogni mezz’ora comparivano sul palco, inscenando balletti penosi. E quando, al levarsi in alto delle gambe nude, dai tavoli partivano grida di approvazione, le urla avevano un che di meccanico, sembravano quasi rispondere a un comando. “Le puttane viennesi sono più accoglienti,” pensò. I pavimenti erano cosparsi di sabbia, i tavoli dipinti di bianco e la birra veniva servita in brocche di coccio, mentre le ragazze avvicinavano i clienti ai tavoli. E quando gli studenti salivano in camera insieme alle ragazze, lo facevano tutti insieme: persino quando andavano a donne erano ordinati e prussiani. C’erano molti locali del genere, ma non era quello di cui August aveva bisogno. “So sempre quello di cui non ho bisogno,” pensò quella sera, quando, a tarda ora, uscì dal varietà dell’Hasenheide, “ma mai quello che voglio davvero.”

Si incamminò su per la salita, finché non raggiunse l’acqua, per poi proseguire lungo il Landwehrkanal. Il porto gli ricordava un po’ gli attracchi del Danubio a Vienna. La notte era quasi senza luna. I lampioni a gas si riflettevano nel canale creando macchie tremolanti. La musica frenetica del varietà continuava a ronzargli in testa; ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma non riusciva a liberarsene. Si fermò davanti all’armeria, prima di svoltare verso l’hotel. Appoggiò le mani alla balaustra di ferro del ponte e, quando guardò giù verso l’acqua del canale, fu inevitabile: si immaginò di avere accanto Elena, con le mani appoggiate alla balaustra a sfiorare le sue. “Ecco,” pensò. Nient’altro. Le mani di Elena e il suo profumo e i suoi capelli e i suoi occhi, il suo sorriso, la sua voce, la sua andatura. Fissò l’acqua a lungo.

Quando più tardi passò davanti alle vetrine illuminate del Mitte, si fermò davanti a una grossa confetteria. Le commesse lavoravano ancora e stavano sistemando la vetrina. In mezzo ai pupazzi di cioccolato, alle specialità di Berlino e alla frutta candita, vide una pila di scatole della ditta Hoffmann. “Finissimi cioccolatini viennesi”, c’era stampato sopra in caratteri eleganti, mentre un’etichetta di carta riproduceva un’incisione della cattedrale di Santo Stefano. August si fermò a guardare mentre un piccolo esercito di scarabei dorati veniva sistemato in vetrina, poi si affrettò per la sua strada. Quella notte la cioccolata gli sembrava insulsa e lui stesso si sentiva stranamente svilito, come se avesse venduto il proprio amore, come se non avesse più diritto alla nostalgia. Decise di ripartire presto.

Il giorno dopo incontrò di nuovo Hoffmann, per discutere dei contratti e degli accordi economici. Erano seduti nell’ufficio angusto, che Hoffmann aveva già liberato per metà.

“Ci trasferiamo definitivamente,” disse lo svevo, “nella Mohrenstrasse. Finalmente ci allarghiamo!”

“Colpa mia?” chiese August scherzoso. “Non riuscirete mai a vendere tutte queste praline!”

Hoffmann annuì distratto, trafficando con le carte.

“No,” disse poi trionfante, dopo aver trovato il foglio di carta che stava cercando, nella scatola di compensato in cui era stata sistemata la corrispondenza commerciale in vista del trasloco, “non dipende da voi. Volevamo traslocare comunque. Ma,” sventolò il pezzo di carta, “i vostri cioccolatini viennesi li abbiamo già venduti tutti. E mancano ancora le confetterie del Brandeburgo e di Potsdam. Abbiamo coperto solo quelle di Berlino. Mi hanno già chiesto di voi! Le signore, ovviamente…” Sorrise, per poi continuare: “La cioccolata si vende come mai prima d’ora. Ne produciamo quasi trecento tonnellate all’anno. E non so neanche dove trovare gli uomini per la nuova fabbrica in Mohrenstrasse”.

August stava cominciando a capire dove voleva andare a parare, ma rimase cortesemente in attesa.

“Cosa ne dite?” chiese Hoffmann senza farla lunga, rimettendo a posto il foglio. “Berlino vi piace, no? E siete un pasticciere sopraffino… migliore di me,” disse guardandolo, “posso offrirvi un impiego di tutto rispetto…”

August rimase sorpreso dalla sua franchezza. Gli sorrise.

“Mio zio mi sta aspettando, signor Hoffmann,” rispose gentile. “Sono molto onorato dalla vostra offerta, ma…” balbettò e si fermò un istante a riflettere. Forse non sarebbe stato male lasciare Vienna, andarsene.

“Parto domattina,” concluse deciso, “ma ci penserò su. Devo parlarne anche con mio zio. Vi mando un telegramma, signor Hoffmann.” Gli porse la mano. “È stato un piacere, e pasticciere o meno, di cioccolata ve ne intendete!”

Adesso che aveva deciso di partire, Berlino tornò a sembrargli straordinariamente bella, nonostante la giornata bigia. Passeggiò lungo le rive della Sprea e poi verso i negozi eleganti di Friedrichstrasse, per comprare regali alle sorelle e una scatola di sigari allo zio. In un elegante negozio di merci coloniali scoprì un armadietto giapponese e, quando si ricordò di aver visto delle stampe giapponesi in camera di Louise, lo acquistò per lei. Diretto all’albergo, si ritrovò a pensare a Louise. Non voleva deluderla, ma non sapeva come prenderla.

Quando entrò nella hall dell’albergo e chiese la chiave in portineria, il concierge verificò il suo nome chiedendogli: “Signor Liebeskind?”. E quando August fece cenno di sì: “Se volete sedervi un momento, c’è una signora che vi sta aspettando. Il facchino viene subito da voi”.

August si diresse sorpreso verso le poltrone sotto la gigantesca palma in vaso, ma non si sedette. Non aveva mandato a Louise nemmeno un telegramma, e lei gli era venuta dietro. Stava riflettendo su cosa avrebbe dovuto dire, quando arrivò il ragazzo, seguito da una signora.

“Il tenente Liebeskind,” disse, aspettando la mancia. August però non si mosse, non riusciva a capire quello che aveva sotto gli occhi.

“Vorrei scambiare questo scarabeo con quello vero,” disse Elena tranquilla, tenendo nella mano guantata uno scarabeo di cioccolato rivestito d’oro. “Buongiorno August.”

Si trovavano nel parchetto di fronte all’albergo. Nella hall il vociare era diventato improvvisamente insopportabile.

August guardava Elena e i pensieri e le emozioni gli turbinavano e schiumavano dentro, come fiumi che si incontrano. Con stupore si rese conto di non essere in grado di decifrare le proprie sensazioni. Gli tornava in mente tutto quello che aveva pensato la notte dell’incendio, le vie di fuga immaginarie, i modi in cui si sarebbe potuta salvare, e poi, di nuovo, gli tornava negli occhi l’immagine di Elena all’obitorio, carbonizzata, con lo scarabeo sul piattino di zinco accanto a lei.

“Come…” farfugliò, incespicando nei propri pensieri, “Elena!” disse poi disperato.

“Sì,” rispose lei, bella come in quell’autunno pieno di luce a cui August si era aggrappato negli ultimi sei mesi per non annegare.

“Vogliamo fare una passeggiata?” chiese. Lui annuì e si incamminarono l’uno accanto all’altra. Era furba, pensò, gli stava dando tempo per riprendersi. Ad August sembrava che il mondo fosse fragile come il cristallo, bastava un movimento per mandarlo in frantumi. Raggiunsero il Tiergarten. I raggi del sole giocavano con le ombre tra le fronde degli antichi aceri. Era tutto così rassicurante.

“Cosa ci fai qui?” chiese finalmente August.

Elena si fermò e lo guardò tirando un respiro profondo: “Sono saltata giù,” disse, “avevano steso un telone sotto la finestra. E io sono saltata giù. Ero l’ultima, dietro di me erano tutti morti. Ho camminato sopra i cadaveri,” disse sforzandosi di sembrare tranquilla, “sì, ho camminato sui cadaveri, ho strisciato, perché il fumo era meno terribile all’altezza del pavimento, e poi sono arrivata alla finestra.”

August tirò fuori dal taschino lo scarabeo che portava sempre con sé e glielo porse.

“E hai perso lo scarabeo. Non ti avrei mai…” si corresse, “l’identità della donna morta non si poteva indovinare. Era così… così carbonizzata.”

“No,” disse lei. Non prese il medaglione ma continuava a fissarlo.

“Non l’ho perso. L’ho messo al collo di uno dei cadaveri, prima di saltare.”

August la guardò, sulle prime senza capire.

“Elena,” disse, “perché…?”

“Lo stratega sei tu,” rispose fredda, “lavora di immaginazione.”

Gli ci volle un momento. Elena fissava gli aceri e lui la guardava. Era dritta, snella e addirittura più bella che nei suoi ricordi.

“Di te mi è sempre piaciuta,” azzardò, “la capacità di pensare in fretta. La velocità con cui diventi padrona delle situazioni. Non si può processare un morto, certo che no. E come sarebbe possibile? Ma non hai… Che ne è dell’eredità del maggiore? Hai rinunciato a tutto…”

“Sì,” disse lei, volgendo lo sguardo dagli aceri verso di lui e appoggiandogli delicatamente la mano al petto, “ho rinunciato a tutto. Tutto.”

“Ma non era detto!” esclamò lui, improvvisamente furioso. “Non era affatto detto! Non potevano condannarti! Non si sa nemmeno se è davvero morto, è scomparso nel nulla. Avrebbero prima dovuto dichiararlo morto!”

“E nel frattempo divento l’amante del tenente Liebeskind, anche se mio marito è disperso? E nel frattempo il tribunale mi assegna un tutore che amministri le proprietà del maggiore, perché si può ereditare solo quando uno è morto davvero, non è così? E nel frattempo, bene che vada, passo la vita al guinzaglio, vero? Sempre ammesso che non mi avessero processata per omicidio! Un morto è un morto, che sia bruciato o impiccato.”

Non aveva nemmeno alzato la voce. Aveva mantenuto un tono pragmatico, come quando si spiegano le cose ai bambini.

Lui si girò e continuò a camminare. Elena lo seguì, rimanendo però qualche passo dietro a lui.

“Come hai fatto a trovarmi?” chiese molto seccamente dopo un po’.

Elena rise di una risata discreta e schietta. August si stupì, gli sembrò bella, quella risata, e lo rendeva felice.

“Non è stato difficile, signor tenente. La città è piena di cioccolatini viennesi e non ho potuto fare a meno di comprarne qualcuno. Non ti ricordi?” chiese, sempre sorridendo. “La cioccolata mi piace molto.”

“Certo che mi ricordo,” rispose August seccamente, “me ne sono ricordato tutti i giorni, tutti i giorni dall’incendio.”

“Quando ho visto lo scarabeo, ho capito subito che c’era il tuo zampino,” disse Elena. Il Tiergarten era immerso nel silenzio. Si sentivano i piccioni tubare e un cucù in lontananza.

“Poi l’ho assaggiato.” Era quasi un sussurro, la sua tranquillità e la sua freddezza erano improvvisamente svanite. “E io… il nostro amore… ho visto di nuovo tutto. L’ho annusato, sentito, respirato. Tutto. Era come se tu fossi tornato. Non ho mai assaggiato una cioccolata così.”

“Dentro c’è lo zucchero su cui ci siamo amati,” disse August senza muoversi. Non capiva i sentimenti che lo agitavano. Lei gli si parò davanti, i loro visi erano uno di fronte all’altro. Voleva dire qualcosa, ma poi tacque. Non riusciva a trovare le parole giuste, ce n’erano troppe.

“Elena!” disse quasi disperato.

“August,” rispose lei sussurrando dolcemente.

Rimasero a lungo così. Vicini, ma senza toccarsi. Lui respirava il suo profumo.

“Hai un odore diverso,” disse sorpreso, “il tuo profumo… non sai più di fumo.”

“Sapevo di fumo?” chiese lei un po’ stupita.

Lui fece cenno di sì. Nell’odore di Elena c’era qualcosa di nuovo che non riusciva a individuare. Ancora era come se qualcuno le avesse lanciato una manciata di spezie esotiche. C’era sempre una punta di erbe amare e di dolce. Si aggiungeva però anche qualcos’altro. Un odore trasparente e fresco, quasi freddo, d’acqua e di mare. Perché mentre riusciva a leggere gli odori degli altri i suoi rimanevano un enigma?

“Hai un buon odore,” disse, “profumi di Elena.”

Non voleva più pensare a quel che era successo. Voleva restare lì, non a Vienna e non nel passato.

“Fammi vedere la tua città!” propose, ed Elena sorrise.

“Benvenuto nella capitale del Reich,” esordì, “i signori sono pregati di avvicinarsi.” Avanzò verso l’ombra fitta di un acero e ne indicò il tronco. “Questi tagli che il signor tenente avrà la compiacenza di osservare risalgono a sua maestà Federico II in persona, che voleva estrarne zucchero.”

August osservò i tagli cicatrizzati nel tronco massiccio e guardò Elena con aria interrogativa: “Credo che stiate mentendo, giovane signora, dagli alberi non si estrae zucchero”.

Elena continuò con la sua parte.

“Si vede, signor mio, che siete un provincialotto. Quando, un centinaio di anni fa, gli schiavi di Santo Domingo si ribellarono ai padroni distruggendo le piantagioni di canna da zucchero, i prezzi qui in Prussia salirono al punto che il re ordinò di piantare cinque milioni di aceri nel Tiergarten e nei suoi dintorni per poterne estrarre sciroppo di zucchero.”

“È vero?” chiese August, realmente interessato.

Elena sorrise e si fece seria.

“Sì, è vero. Non riuscirono a procurarsi così tanti semi, perché Napoleone aveva ordinato il blocco navale, ma ne fecero comunque arrivare circa duemila. Hanno smesso solo quando si sono resi conto che è molto più facile estrarre zucchero dalla barbabietola.”

In quel momento August sentì una tale nostalgia di lei che le prese le mani sussurrando: “Perché, Elena? Perché mi hai tradito? Perché non mi hai scritto nemmeno una volta? Ho pensato fossi morta. Per tutto questo tempo ho pensato fossi morta. Perché?”

“Non lo so,” disse, e lui vide i suoi occhi inumidirsi, “non so cosa dirti, non lo so.”

Centinaia di migliaia di foglie di acero proiettavano ombre complicate e gioiose sul viottolo di ghiaia. Da quel momento in poi non ne parlarono più. Era come un tacito accordo, un patto segreto, un tabù.