Arrocco corto

E così il mondo era cambiato. Quel giovedì sera partii da casa e attraversai in auto la zona affollata di Old Town Pasadena, una bella réclame scintillante della genuina vita notturna americana. Tutti sembravano così allegri e spensierati, lasciandosi andare, ridendo, convinti di essere al sicuro. Proseguii verso sud sulla 110 in direzione centro, fino a un bar tavola calda su Main Street, a un solo isolato da Skid Row, un posto di cui avevo sentito parlare al campus da alcuni dottorandi, chiamato, comprensibilmente, Bar on Main Street. Il centro di Los Angeles stava tornando lentamente a essere presentabile, ma era ancora rivestita dalla patina di rozzo sudiciume di cui sentivo il bisogno in quel momento. Non ricordavo esattamente il modo corretto di bere come un pazzo, ma immaginavo che non sarebbe stato difficile capirlo. La porta era a forma di grande serratura, e sorprendentemente ci passai giusto giusto. La cosa strana, dato che avevo sentito menzionare quel posto da alcuni studenti, ma non così strana a giudicare dall’atmosfera e dall’aspetto generale del locale, era che non c’erano studenti, solo un branco di tipi grezzi e un paio di donne che parevano ancora più grezze. Il barista, un piccoletto con un solo baffo, mi chiese cosa volessi bere.

Si accorse che gli stavo fissando il labbro superiore. “Ho perso una scommessa,” disse. “Cosa le servo?”

“Scotch,” risposi.

“Di che tipo?”

“Qualunque,” dissi.

“Cutty Sark?”

“Va bene.”

“Ghiaccio?”

“No.”

“Acqua?”

“Scotch liscio.”

Mi voltai verso la porta, forse sperando di veder entrare un volto familiare, forse solo perché era la porta e la via d’uscita. Il mio drink fu servito e ne ingollai subito metà. Il whisky mi arse la gola e mi fece venire le lacrime agli occhi. Tossii. Anzi, a dire il vero ebbi dei conati.

Un tizio un paio di sgabelli più in là mi rise in faccia. Non ci badai. Era all’incirca della mia stazza, ma voleva sembrare più grosso nella sua giacca di pelle, e forse non era una cattiva idea in un posto del genere. “Vacci piano, campione,” disse. “Jimmy, versa un goccio d’acqua a quest’uomo,” gridò al barista.

“Grazie,” dissi al barista e poi all’altro avventore al bancone. Bevvi un po’ d’acqua, e poi provai a fare un altro sorso di whisky.

“E non mi chiamo Jimmy,” disse il barista.

“Fa lo stesso.”

Finii lo scotch e picchiettai sul bancone in modo che Mezzo Baffo me ne versasse un altro.

Con mia costernazione, Giacca di Pelle scavalcò goffamente i due sgabelli che ci separavano e si sedette accanto a me. “Non me ne frega un cazzo di quello che dice, si chiama Jimmy. Io sono James, e tu come ti chiami?”

“Quindi siete entrambi Jimmy.”

“Cosa? No, io sono James.”

“Zach.”

“Ti sei perso?” mi chiese.

“No. Perché?”

Il barista mi posò davanti un altro scotch guardando James con aria apertamente canzonatoria.

James lo ignorò.

“Puoi avere solo un paio di ragioni per essere in questo cesso. La prima è che sei già ubriaco e vuoi ubriacarti ancora di più. La seconda è che non sei ubriaco e vuoi ubriacarti, ed è qui che vieni di solito a ubriacarti. La terza è che ti sei perso. Tu non sei ubriaco, ed è la prima volta che ti vedo qui. Quindi, o ergo, ti sei perso.”

“Logica ineccepibile,” dissi.

“È un dono.” Bevve un lungo sorso dalla sua bottiglia di birra, che mi parve essere una Pabst. “Anche una maledizione.”

“In che senso?”

“Riesco sempre a convincermi a farmi un altro drink.”

“Capisco.”

“Tu invece cosa fai?”

“Sono un intrepido esploratore, un cacciatore di dinosauri.”

James scoppiò in una fragorosa risata e mi diede una pacca sulla spalla con un gesto esagerato e una mano moscia che tradivano una qualche insicurezza, inducendomi a non fidarmi di lui. Del resto non me ne sarei comunque fidato.

“E tu cosa mi dici?”

“Sono in fase di transizione da un lavoro all’altro. È dura là fuori.”

Annuii. Il mio gesto era sincero, dato che ai miei occhi “là fuori” significava il mondo di mia figlia. Mi guardai intorno nel bar. Adesso un paio di tizi stavano giocando a biliardo. Avevo una certa voglia di giocare anch’io, ma ero un po’ intimorito da quel posto. Credo che James l’avesse intuito.

“Ho avuto un buon lavoro per un certo periodo,” disse. “Guidavo un camion per Ralphs. Poi sono finito dentro per un po’. Me ne frego di quello che dice la gente, là fuori nessuno ha un minimo di comprensione per un ex detenuto. Capisci cosa voglio dire?”

“Posso immaginare. Perché sei finito in prigione?”

“Penitenziario,” mi corresse.

“Penitenziario.”

“Hanno detto che avevo rubato della roba. So che lo dicono tutti, ma io non avevo fatto niente. L’unica cosa che abbia rubato in vita mia è stato un bagnoschiuma quando avevo otto anni.”

“Bagnoschiuma.”

“Avevo un debole per le bolle nella vasca.”

“Chi non ama le bolle nella vasca?” dissi.

“Esatto! Allora, dove lavori?”

La faccenda stava degenerando rapidamente. “Lavoro all’università.”

“Mica cazzi,” disse James. Si passò le dita tra i capelli unti. “E lì cosa fai?”

“Sono un tecnico di laboratorio.”

“Però! La paga è buona?”

“La paga è uno schifo,” dissi. “Sto cercando qualcos’altro. E tu cosa mi dici, qual è l’ultimo lavoro che hai fatto?” Mi stavo sforzando di spostare il discorso su di lui. Avevo letto che era la cosa migliore da fare.

“Che genere di laboratorio?”

Ebbi il buonsenso di non tirare in ballo qualcosa che facesse pensare alla medicina, alla chimica o alla presenza di farmaci o droghe. Mi sentii molto astuto per aver preso questa precauzione.

“Un laboratorio di fisica,” dissi. “Predispongo gli esperimenti per gli studenti.”

Il suo volto tradì la delusione.

Entrò nel bar un uomo pelle e ossa, di bassa statura, che attirava l’attenzione. Era piccolo, ma aveva una grande presenza. Urlò immediatamente a James. “Ehi, James, brutto maiale obeso, russi anche da sveglio.”

“Sì, certo, fottiti,” disse James prima di farmi un sorriso. “Quello lì è Derrick.”

Derrick si avvicinò al bancone e si mise a parlare con una donna.

“Un tuo amico?”

“Sì, credo che si possa dire così.”

“Be’, allora vi lascerò soli. Devo andare a casa.” Buttai giù il secondo scotch e chiamai il barista. “Quanto ti devo?”

“Non andartene subito, devi conoscere Derrick.” James chiamò il suo amico. “Derrick, alza il culo, ti voglio far conoscere il mio amico Zach.”

Derrick salutò la donna con cui stava parlando e si avvicinò. Tese la mano e strinse la mia. “Piacere, Derrick.”

“Il nostro Zach lavora all’università,” disse James.

“Ma dai, sei un professore?” chiese Derrick ridendo.

“Lavora in laboratorio,” disse James.

“Ah, sì? Che genere di laboratorio?” chiese Derrick.

“Fisica.”

“Lavori con tutti quegli oscilloscopi e roba simile?” chiese Derrick con un certo compiacimento.

“A volte.”

Derrick si guardò intorno con aria furtiva. “Ti piace la coca?”

“No,” dissi. “Sentite, adesso farei meglio ad andare.”

“Resta,” disse Derrick.

“Andiamo, Zach.”

“Sai qual è la differenza tra l’acido e la coca?” chiese Derrick. “Come se qualcuno si facesse ancora gli acidi. Ad ogni modo, sai qual è la differenza?”

Scossi il capo.

Derrick stava ridendo come un idiota. “Con l’acido, vedi Dio. Con la coca, amico, sei Dio.”

“Molto divertente. Adesso devo proprio tornare a casa.”

“Andiamo,” disse di nuovo James prendendomi per la manica.

Gli dissi: “Lasciami il braccio.”

“Non è il caso di reagire così,” disse Derrick. James non mollò la presa. Da qualche parte nella memoria cellulare dei miei muscoli c’erano tre anni di addestramento nei Marines. Senza rifletterci, ma volontariamente, strinsi l’indice di James e lo piegai all’indietro costringendolo a inginocchiarsi. Poi sferrai un pugno alla gola al piccoletto, che finì abbracciato allo sgabello più vicino. Gettai un po’ di soldi sul bancone, lasciai andare James e mi avviai verso l’uscita. James fece per seguirmi, e mi voltai per fronteggiarlo. Ricordavo una cosa che una volta mi aveva detto un amico: nessuno si lancia in una rissa in cui non è sicuro di avere la meglio. L’uomo indietreggiò.

Salii sulla Jeep, mi allontanai di un paio di isolati e accostai. Mi ricomposi, convincendomi di non essere ubriaco. Ero a disagio, ma non pentito. Poi tornai a casa.

d4 Cf6

Quando rincasai trovai Meg a letto, che dormiva o fingeva di dormire. Mi sedetti sulla grande poltrona nell’angolo e guardai fuori dalla finestra, ancora vestito e con indosso gli scarponi, anche se mi ero preso il fastidio di lavarmi i denti in modo da non puzzare del whisky da quattro soldi che purtroppo non aveva sortito alcun effetto su di me.

Dopo una decina di minuti, Meg disse: “Non sto dormendo.”

“Credo che dovremmo dire tutto a Sarah,” dissi.

Meg non alzò la testa dal cuscino. “Non sono d’accordo.”

L’avevo previsto. L’avevo previsto non solo perché capivo l’argomento secondo cui era meglio non dirlo alla bambina, ma anche perché immaginavo che non sarebbe stata d’accordo con me, a prescindere dal modo in cui avrei voluto procedere. Se intendesse fare l’avvocato del diavolo per favorire una sana discussione o fosse mero spirito di contraddizione, questo non lo sapevo. E non mi importava.

“Pensi che dovremmo mentirle,” le dissi.

Meg si mise a sedere. “Credo che dovremmo semplicemente evitare di dirglielo.”

“E allora cosa le diciamo?”

Lei si distese di nuovo. Per quella notte la discussione era chiusa, e nulla era stato deciso. Non volevo mentire a mia figlia, ma non riuscivo neppure a immaginare di dirle la verità. Naturalmente era questo il problema: non se avessimo intenzione di dirle la verità sulla sua malattia, ma se fossimo in grado di farlo. Pensai di scusarmi con Meg, ma rimasi invece seduto a guardare intontito fuori dalla finestra, verso il profilo scuro delle colline.

Il gatto e il topo. Da piccola, Sarah aveva amato quel gioco. Non le dava fastidio essere il gatto. Era sempre divertente con tutti quegli altri bambini, mi diceva. Adesso avevo l’impressione di giocarci da solo. Ero sia il topo sia il gatto, intento a inseguirmi fino al punto da cui ero partito e restando gatto perché non riuscivo a raggiungermi prima che, come topo, fossi tornato al mio posto.

Mentre Meg dormiva, lessi la politica dei resi del venditore da cui avevo acquistato la camicia. Molto semplice. Dovevo rimandare indietro il capo con un biglietto in cui spiegavo il problema, e mi avrebbero spedito un’altra camicia o rimborsato. Scrissi una breve lettera dicendo che la camicia mi andava stretta, che avevo bisogno della extra-large e il colore non aveva importanza. Nascosi sotto il risvolto del colletto un foglietto su cui avevo scritto “Qué puedo hacer para ayudar?” Mi parve qualcosa di sciocco, sicuramente inutile, ma mi sentii tenuto a farlo.

Cf3 b6

Quel mattino, senza aver chiuso occhio, preparai la colazione in modo che Meg e Sarah la trovassero pronta al risveglio. Sarah sarebbe andata a scuola. L’avevamo deciso il giorno prima. Si sedettero a tavola e mi guardarono la schiena mentre rivoltavo i pancake. “Ragazze, permettetemi di farvi una domanda,” dissi. “C’è una qualche differenza tra flapjack e pancake?”

“Flapjack?” Sarah non li aveva mai sentiti nominare.

“Sì, flapjack. E così che qualcuno li chiama. O chiamava.”

Ostentai il gesto di rivoltare una frittella. “C’è persino qualcosa chiamato johnnycake.”

“Di cos’è fatto?” chiese Sarah.

“Di Johnny, immagino.”

Lei scoppiò a ridere.

“Che ne dici di una partita a scacchi oggi pomeriggio?”

“Va bene.”

Era chiaro che quel mattino né Meg né io avremmo affrontato l’argomento della malattia di Sarah. Era un accordo tacito ma chiaro, lampante. Fu un sollievo non doverne parlare. Ma evitare di affrontare la questione mi fece anche sentire un debole. Non era un problema, pensai, accettando che, sotto questo aspetto, ero un debole.

Accompagnai Sarah a scuola in auto. Non parlammo granché, ma non fu molto diverso da tutte le altre mattine. Lei armeggiò con la radio, lamentandosi della musica della sua generazione, sbeffeggiando quella della mia e decidendosi per l’emittente di musica classica.

“Odio Vivaldi,” disse.

“Tutti odiano Vivaldi, ma nessuno è disposto ad ammetterlo.”

“Pedone di donna in d4,” disse. “Questa è la mia mossa d’apertura. Voglio che tu ci rifletta.”

“Ci godi a mettermi in crisi, eh?”

“È così facile.” Guardò fuori dal finestrino. “Gruppo rock più sottovalutato.”

“I Monkees,” risposi. “Gruppo rock più sopravvalutato.”

“I Beatles,” disse lei.

“Pittore più sopravvalutato.”

“Georgia O’Keeffe,” fece lei.

“Sul serio?”

“Scialba.”

“Romanzo più sopravvalutato?” chiesi.

Dicemmo all’unisono: “Infinite Jest.”

“Nonostante ciò, mi dispiace che sia morto,” disse Sarah.

Non dicemmo altro durante il breve tratto di strada che mancava per arrivare a scuola. Lasciai che la sua mente divagasse, guardandola fondersi con il flusso al di là della portiera, sentendomi per tutto il tempo il bugiardo che in effetti ero.

c4 e6

Finley Huckster aveva la mia età, ma sembrava decisamente più vecchio, sebbene non dubitassi fosse più in forma di me. Nonostante ciò, sul campo da squash eravamo più o meno alla pari. Giocare mi fece bene, almeno fino a un certo punto, ma poi fui di nuovo sopraffatto dalla depressione. Huckster se ne accorse.

“Ti va di parlarne?” mi chiese.

“Mia figlia sta morendo,” risposi in tono piatto.

“Non me l’aspettavo,” disse, e poi tacque.

Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce a qualcuno. Non saprei dire se mi fece sentire meglio o peggio, ma in qualche modo mi sentii più forte.

“Come sta?” chiese Huckster. “Hai capito cosa intendo.”

“Non sta soffrendo.” Intuii che temeva non fosse appropriato chiedere cosa la stava uccidendo. “È una patologia neurologica. La malattia di Batten. Neanch’io l’avevo mai sentita nominare. Avrei preferito fosse la buona vecchia epilessia.”

“Cosa si può fare?”

“A quanto pare niente. Come da prassi chiederemo un secondo e un terzo parere, ma mi fido di questa dottoressa. Purtroppo.”

“E adesso?”

Non avevo nessuna voglia di addentrarmi nei dettagli dell’imminente regressione di mia figlia, e così non lo feci, ma aveva posto un’ottima domanda.

“Per il momento evito di pensare al futuro,” risposi. “A quanto ci hanno detto le resta qualche anno. Ha sempre voluto andare a Parigi.”

Huckster inarcò un sopracciglio e annuì.

Era una buona idea. A Meg sarebbe piaciuta. Sarah avrebbe potuto fare il viaggio mentre era ancora presente a se stessa, abbastanza lucida da goderselo. “Grazie, Finley.”

Non credo che Huckster avesse capito perché lo stavo ringraziando, ma disse: “Naturalmente, è quello in cui eccelliamo noi umanisti. Consigli sulla famiglia e piani quinquennali, sono queste le nostre specialità. Amo inserire riferimenti al prossimo piano quinquennale in quello attuale. È un’arte, ragazzo mio.”

Cc3 Ab7

Rimasi colpevolmente a lungo sotto la doccia. Il vapore servì a liberarmi non solo le narici, ma anche la mente. Huckster era già vestito quando tornai al mio armadietto.

“Zach, mi dispiace davvero per tua figlia.”

Annuii.

“Chi lo sa, magari l’anno prossimo qualcuno troverà una cura.”

“Grazie, Finley.”

Nel mio ufficio feci quello che facevo sempre nel mio ufficio, ossia praticamente niente. Misi i piedi sulla scrivania e guardai fuori dalla finestra, verso lo skyline di Los Angeles, sforzandomi di non pensare. In altre parole, tentai in modo ancora più energico di non fare assolutamente niente. Poi mi accorsi del raccoglitore di Hilary sotto i miei scarponi. Lo presi, lo aprii e cominciai a leggere.

Non erano affatto dati grezzi. Non lavoravo nel campo di Hilary, ma ero in grado di capirli. Non avevo le competenze per stabilire se il suo lavoro fosse all’avanguardia, originale o meno, ma potevo dire che era scritto in modo chiaro e persuasivo. Il suo studio non si concentrava sulla prevedibilità dei terremoti, ma sulla prevedibilità della frequenza e dell’intensità delle scosse di assestamento data la posizione, la profondità e l’intensità del sisma iniziale. Mi sembrava che quel lavoro fosse valido e pronto a venir mandato in giro.

Ero confuso.

Gridai: “Hilary! Professoressa Gill!” Mi affacciai alla porta del mio ufficio e vidi passare un dottorando. “La porta della professoressa Gill è aperta?”

Lo studente controllò. “Sì.”

Mi alzai e marciai a grandi passi in corridoio, fermandomi sulla soglia del suo ufficio. “Non hai sentito che ti chiamavo?”

“No,” rispose. Era seduta alla sua scrivania, intenta a correggere dei test.

“Stavo dando un’occhiata ai tuoi cosiddetti dati grezzi.”

La vidi irrigidirsi.

“Questi non sono dati grezzi. Ovviamente non ho idea di cosa diavolo significhi, ma perché non hai fatto girare il tuo lavoro?”

“Cosa?”

Entrai e mi chiusi la porta alle spalle. “Non so cosa ne pensi tu, ma questo mi sembra un buon lavoro, e anche piuttosto curato. Sono confuso. Pensavo fosse un marasma di numeri senza capo né coda. Non è senza capo né coda.”

“Ti piace?”

“Non ha importanza se mi piace o meno. Perché continui a cercare la mia approvazione?” Mi rendevo conto di avere assunto un tono aspro, ma non mi importava. “Voglio che tu lo faccia girare immediatamente. Non chiedermi dove. Parlane con Flint. È il suo campo. L’ha già visto?”

“No.”

“Faglielo vedere. Ti prego, faglielo vedere.” Lasciai cadere il raccoglitore, che si abbatté con un tonfo sulla scrivania. “Vado a fare quattro chiacchiere con il titolare della cattedra.” Varcai la soglia borbottando. Mi parve che il borbottio fosse un tocco di classe.

Ag5 Ab4

Cosa strana per un paleontologo, che deve occuparsi non solo del passato, ma del passato remoto e fossilizzato, la mia impostazione filosofica in quasi tutte le situazioni consisteva nel procedere senza tenere in alcuna considerazione il passato, dimenticare la storia del problema, dimenticare tutto quello che era venuto prima, e limitarmi a indagare esclusivamente i dati di fatto presenti sul momento. Non mi importava che Hilary Gill avesse dato l’impressione di aver gettato al vento i suoi sei anni di incarico. Non mi importava che, qualunque fosse il motivo, si fosse sabotata da sola. L’unica cosa che mi importava era che una scienziata con l’ufficio a pochi passi dal mio stava facendo un buon lavoro. E fanculo ai cartellini da timbrare.

Entrai direttamente nell’ufficio di Mitch Rosenthal. “Mi dicono che sei il titolare di questo baraccone.”

“Almeno per il momento.” Mitch era un geologo petrolifero, più adatto alla Exxon che all’accademia. Pur essendo tutto sommato una brava persona, non aveva l’aspirazione a eccellere, ma a volte era molto pignolo.

“Ho appena dato un’occhiata alle ricerche di Hilary Gill.”

“Ormai è un caso chiuso, non ti sembra?”

“Non mi sembra,” replicai. “Ha fatto un ottimo lavoro. Non sono solo dati grezzi come dice. Lo porterà a Flint. Lui saprà cosa fare.”

“Non ha combinato niente negli ultimi sei anni.”

“A quanto pare, non è così. Questo lavoro non è spuntato dal nulla. Non so perché l’abbia tenuto per sé. Magari dipende dal fatto che i tizi come noi la intimidiscono o qualche altra stronzata del genere. Non mi interessa. Devi intervenire in sua difesa.”

Rosenthal agitò le chiappe mosce nella sua sedia da chiappe mosce e si mise in imbarazzo da solo con una frase da chiappe mosce. “Non saprei.”

Stavo cominciando ad arrabbiarmi. Naturalmente ero entrato in quell’ufficio pronto ad arrabbiarmi. “Se non vai dalla preside di facoltà, lo farò io. Flint verrà con me.”

“Gli hai parlato?”

“No, ma lo conosco. Ha quelle cose che pendono tra le gambe. Credo si chiamino palle.”

“Parlerò con la preside di facoltà.”

“Ha bisogno di un po’ più di tempo,” dissi.

“Va bene, le parlerò.”

Uscii dall’ufficio di Rosenthal sentendomi un po’ come quand’ero scappato da quel locale la sera prima, anche se questa volta avevo l’impressione di aver fatto il bullo. Senza provare il minimo senso di colpa.

e3 h6

A un certo punto, i filosofi (una categoria di persone nel migliore dei casi insopportabilmente pesanti) stabilirono il bizzarro principio secondo cui non possiamo percepire direttamente le cose – il mondo materiale, marciapiedi, tappeti, fiumi – ma solo le nostre idee di tali cose. Questo passo fu compiuto con disinvoltura, senza prove, com’è costume della categoria. Se tale affermazione fosse stata vera, non avrei potuto conoscere direttamente mia figlia, ma solo l’idea di mia figlia e dunque solo l’idea della malattia che l’avrebbe uccisa. Se questo fosse stato vero, avrei potuto manipolare la mia idea come in un sogno, cambiando il mondo intorno a me. Basta riflettere un po’ per liquidare la teoria dei dati sensoriali. Da dove vengono le idee? Un’idea è reale? C’è qualcosa tra l’idea e la mia percezione di essa? Ecco a cosa stavo pensando mentre disponevo i pezzi sulla scacchiera.

Sarah era appena tornata da scuola, di buon umore, anche se non proprio allegra. Non vedeva l’ora di fare la nostra partita. Si divertiva sempre a ridurmi a un re in fuga disperata sulla scacchiera.

“Vedo che ti sei cambiata,” le dissi mentre si sedeva di fronte a me al tavolino dello studiolo.

“C’è bisogno di abiti comodi per il combattimento ravvicinato.”

“Da dove arriva questa perla di saggezza?”

“Da te.” Sarah fece la sua mossa d’apertura. d4

Io mossi il mio cavallo. Cf6

Dopo un paio di mosse, le chiesi: “Com’è andata a scuola?”

“La scuola è la scuola.” Ah4. “Com’è andata la scuola?”

“La scuola è la scuola,” risposi. c5

Meg entrò nella stanza con una pila di carte.

“Vedo che la mamma si è portata la scuola a casa,” dissi.

“Temo che tu abbia ragione,” rispose lei.

“È il caso di dirglielo?” domandai.

“Dirmi cosa?” chiese Sarah.

“Pensaci tu,” dissi a Meg.

“Tuo padre e io ne abbiamo parlato solo di sfuggita, ma che ne diresti di un viaggio a Parigi?”

“Parigi? Stai scherzando?”

“No.”

Ad3

Axc3

“Penso che una vacanza farebbe bene a tutti,” dissi. “Una bella vacanza lunga.” Osservai il suo volto. Sembrava provare una sincera eccitazione, ma in qualche modo smorzata.

“Ti ispira?”

“Voi due non starete mica giocando mentre parliamo del viaggio?” chiese Meg.

“No,” disse Sarah. “Neanche per sogno.”

“Vi odio,” disse Meg. “Sono quasi tentata di leggervi qualcuna di queste poesie. Così imparate.”

“Va bene, ci arrendiamo,” dissi.

“Parigi,” disse Sarah. “Grazie.” Si alzò e abbracciò sua madre. Poi venne da me.

“Magari ti verrà voglia di ritirare questo abbraccio dopo aver visto la mia prossima mossa.” d6

“Oh cielo!” disse fingendosi sbalordita. Poi, come se avesse già pianificato tutto, fece un arrocco corto. 0-0. Sorrise, ma senza guardarmi.

“Tua figlia è un demone,” dissi a Meg.

“Oh, lo so.”

“Un demone,” ripetei, guardando il bel viso di Sarah. “Non è carina con il suo povero vecchio padre.”

“La guerra è un inferno,” disse lei. “Papà, lo sai perché ti batto sempre?”

“No, dimmelo.”

“Perché detesti perdere i pezzi.”

“Davvero?”

“Non puoi proteggere tutti. Devi solo sfruttarli al meglio, oppure occupare la posizione che vuoi.”

“Sissignora.” Cbd7

Tutte quelle ossa in quella caverna. Storie in quelle ossa, nei cumuli delle tane di Neotoma, negli strati. Erano storie anche se accadevano a creature che non raccontano storie? Mi domandai se i ricordi degli uccelli fossero storie. Capitavano delle cose a uccelli di loro conoscenza? Non ero in grado di stabilire come un medico legale la causa della morte degli uccelli che trovavo. Non sapevo nulla sul loro conto, se non la loro età, e mi basavo sul presupposto che somigliassero ad altri uccelli della stessa specie: nient’altro che speculazione, induzione, magari un desiderio di credere di sapere qualcosa sul loro mondo, se non sul mio.

Cd2 Dc7

“Dove stai andando?” mi chiese Meg.

“Al campus. Pensavo di lavorare un po’ nel mio ufficio,” risposi.

“Non lavori mai lì.”

“Voglio cominciare a provarci. Il campus è bello di sera quando non c’è nessuno in giro. Ho anche delle cose da fare in laboratorio.”

“Ce la caveremo?” chiese Meg.

Ero alla porta, con la mano sulla maniglia. “Non lo so,” dissi. “È solo che sono molto giù adesso.”

“Anch’io.”

“Mi dispiace,” dissi.

“Per cosa?”

“Perché devi sopportare tutto questo.”

Meg non rispose direttamente. “Sarah è entusiasta di Parigi. È stata una buona idea. Magari farà bene anche a noi.”

“Magari.”

“Quanto starai via?”

“Non molto,” risposi, anche se lo dissi tanto per dire. La verità era che non avevo idea di come combinare qualcosa nel mio ufficio al campus. In realtà non avevo niente da fare in laboratorio, né ero più impegnato del solito. Stavo mentendo a mia moglie. Ero diretto a un locale vicino al campus. Non sapevo perché, sapevo solo che dovevo andare da qualche parte.

Dc2 g5

Il locale si chiamava Study Hall. Era un posto vivace, anche se non sembrava avere molto a che fare con lo studio, in un quartiere un tempo malfamato che adesso si definiva in via di riqualificazione, un modo delicato per dire “degradato”, che a sua volta era un termine relativo per indicare “pericoloso per i ragazzi bianchi”. Avevo sempre abbracciato la teoria che uno studente corresse maggiori rischi di venir derubato da un altro studente che da un tizio per la strada. Ad ogni modo ero lì, dopo aver parcheggiato in una traversa a qualche isolato di distanza. Vari schermi mostravano parecchi eventi sportivi con diverse palle e divise. Gli studenti, universitari e specializzandi, passavano dall’eccitazione all’impassibilità. Il panpsichismo, la teoria secondo cui la coscienza è ovunque, veniva sfatato da quella scena in modo che non lasciava appello. Nonostante il mio atteggiamento stizzoso verso l’ambiente, quello che mi affascinava, il motivo per cui ero lì, era che questa gente era viva. Io non ero sicuro di esserlo.

Trovai posto in un séparé e mi sedetti, guardando distrattamente una partita di football su uno degli schermi in alto. Osservai i ragazzi nel locale e mi resi conto che mia figlia non sarebbe mai arrivata a quella fase della sua vita. Una volta avevo parlato con un uomo che aveva perso il figlio quand’era ancora un bambino. Mi raccontò che ogni anno, il giorno del suo compleanno, si domandava come avrebbe potuto essere, cosa avrebbe potuto fare. Era stata una scena molto triste. Adesso mi ritrovavo a immaginare più o meno la stessa cosa mentre mia figlia era ancora viva.

Sarah non era un prodigio, ammesso che esista qualcosa del genere, in fatto di scacchi. Le avevo insegnato a giocare quando aveva sette anni e, come accade a tutti i bambini di quell’età, e del resto a qualunque neofita, la divertiva semplicemente il modo in cui si muovevano i pezzi. Il cavallo, com’era naturale, esercitava un particolare fascino su di lei. Giocava proprio come me, solo che io continuai a giocare così mentre lei migliorava. Si rese conto che c’era molto da imparare e iniziò a fare letture metodiche, approfondendo il gioco. A nove anni, comprendeva gli scacchi meglio di quanto non li avessi mai capiti. Io feci qualche progresso solo vedendola giocare e per il desiderio di rappresentare per lei almeno una piccola sfida. Quando aveva undici anni, avevo spesso la sensazione che ci andasse piano con il suo vecchio. Non le veniva facile. Ci lavorava sodo, ed era questo a colpirmi di più, la sua tenacia, dato che ossessione è una parola troppo carica di significati, ma naturalmente era proprio di questo che si trattava, il fervore di una mente acuta, aperta, irrequieta. Non parlava mai dei suoi studi, delle sue conoscenze, non annunciava o sbandierava mai l’intenzione di usare questa apertura o di sfruttare questa difesa, ma giocava solo per vederle all’opera. E forse anche per sorridere un poco di me. Mi rattristava che adesso la sua tenacia non avrebbe potuto aiutarla. La gente è solita parlare delle persone che affrontano una malattia terminale come di combattenti, e forse lo sono, ma quelle terminali senza speranza sono terminali. Senza speranza. Non c’è niente per cui battersi. È come lottare contro il tempo. Don Chisciotte. Sarebbe stato diverso se mia figlia avesse potuto lottare per ristabilirsi, o se avessi potuto salvarla, ma ciò non era possibile. Questi pensieri mi consumavano, erano sempre con me, e non solo minacciavano di trascinarmi in un luogo oscuro, ma mi attiravano in esso, finché non cominciai a considerarlo segretamente un porto sicuro.

Ag3 h5

Sentivo di stare scivolando, senza sapere dove, né da dove. Dire che mi sentivo perso è inesatto solo perché ignoro cosa provassi, dato che i miei sentimenti non avevano più alcuna importanza. Ogni volta che mi accorgevo di quell’autocommiserazione autoindulgente, rammentavo a me stesso per chi fosse venuta, o sarebbe venuta, la morte. La mia tristezza non significava nulla, il mio dolore era insignificante, e così non avevo idea di cosa provare né di cosa fare. Non era una situazione insolita, bensì una sorta di blocco fin troppo consueto per me, e non sentivo altro che qualcosa di simile al bisogno, una specie di urgenza febbrile, ardente.

“Professor Wells?” Era Rachel Charles. Reggeva in mano un drink blu con un ombrellino rosso. “È uno shock vederla qui.”

“Anche per me, a essere sincero.” Ci guardammo intorno, un po’ imbarazzati. “Quel cocktail ha un bel colore.”

“Già, non è vero? Si chiama Tornado.”

“E lo è?”

“Cosa?”

“Un tornado.”

“Più o meno. Non è poi così forte. Non mi pare che qui dentro ci sia niente di così forte.” Lanciò un’occhiata allo schermo in alto, poi posò di nuovo lo sguardo di me. “Posso farle compagnia?”

Inspirai profondamente, ma non ispezionai l’ambiente circostante. Annuii. Rachel si sedette di fronte a me nel séparé. “Non riesco a credere che lei sia davvero qui.”

“Di tanto in tanto mi piace bere una birra come chiunque altro. Ed è venerdì.”

“Ai venerdì.” Disse lei sollevando il cocktail.

Accostai il collo della mia bottiglia al suo bicchiere. “Vieni qui spesso?”

“Non così spesso. Ci sono qui i miei amici.”

Non guardai.

“Cosa sta facendo qui?” mi chiese. Ostentò il gesto di sciogliersi i capelli.

“Be’, non sto cercando delle pietre,” risposi.

Lei si mise a ridere.

“Allora, cos’ho detto per far nascere in te un tale interesse per la geologia?”

“Non so. È solo il modo in cui ne parla.”

Questo mi sbalordì perché sapevo di fare quella lezione mentre dormivo in piedi. “Sul serio? Mi fa molto piacere.”

Dopo un altro lungo silenzio durante il quale guardammo entrambi lo schermo, Rachel mi chiese: “Lei sogna a colori?”

“Come, scusa?”

“Lei sogna a colori?”

“Credo che tutti sognino a colori,” risposi.

“Perché ne è così sicuro?”

“Perché prima della metà dell’Ottocento e dell’invenzione della fotografia, nessuno aveva mai pensato che qualcosa potesse essere in bianco e nero. Non esisteva l’idea che il mondo potesse non essere a colori.”

“Mi pare sensato,” disse lei. Il modo in cui lo disse mi fece pensare che quantomeno credesse di sognare in bianco e nero.

“Naturalmente questa è solo la mia teoria.”

“Mi sembra piuttosto convincente.”

Il mio telefono squillò. Mi scusai e risposi. Era mia moglie. “Sono al campus,” le dissi. “Aspetta, cosa c’è?” Mi spiegò che c’era qualcosa che non andava con Sarah. “Cioè?”

“Credo stia avendo un attacco.”

“Chiama il 911. Arrivo.”

Guardai Rachel. “Emergenza.”

“Spero che vada tutto bene,” disse alle mie spalle.

La cosa molto strana che mi accadde mentre tornavo a casa fu che il mondo divenne in bianco e nero. Non c’erano lampeggianti davanti a casa mia, e questo mi lasciò perplesso. Mi precipitai in casa, e trovai Meg in piedi in cucina.

“Dov’è Sarah?” le chiesi.

“L’attacco è passato. Si è ripresa. Non ho chiamato i paramedici.”

“È stato un attacco grave?”

“Come quello nello studio della dottoressa, solo che è durato di più e sembrava davvero fuori di sé. Però non ha avuto le convulsioni né niente del genere.” Era chiaro che Meg era scossa. La cinsi con un braccio, ma non riuscii a trovare qualcosa da dirle.

Restammo seduti a tavola.

“Un tè?” mi chiese.

“Ci penso io,” dissi. Mi alzai e misi il bollitore sotto il rubinetto. “Hai fatto bene a non chiamare i paramedici. Si sarebbe solo spaventata inutilmente, credo.”

“Sì. Dov’eri?”

“Ero in ufficio, ma stavo andando a prendere l’auto quando mi hai chiamato.” Posai il bollitore sul fornello e dosai la fiamma.

“Sembrava che fossi in un bar.”

“Ero davanti. Avevo parcheggiato vicino allo Study Hall.” Tornai in cucina e mi riempii un bicchiere d’acqua dal rubinetto. “Ha detto qualcosa? Si è accorta di quel che è successo?”

“Non saprei. Non mi pare.”

“Com’è potuto accadere?” dissi. “È sempre stata in perfetta salute.”

Naturalmente non c’era nulla da dire, e così Meg non disse nulla. E neppure io aggiunsi qualcosa. Lei si ritirò nella doccia, ad accudire le sue paure. Io mi spostai nello studio e mi ritrovai a fissare intontito i biglietti che avevo ricevuto tramite i miei acquisti su eBay. Quei messaggi mi erano passati di mente, ma adesso che li avevo di nuovo sotto gli occhi mi turbarono. Mi chiesi quanto ci sarebbe voluto prima che mi spedissero la camicia sostitutiva, cosa ci sarebbe stato scritto sul biglietto nascosto, se ci sarebbe stato un biglietto.

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Entrai nella stanza di Sarah e la guardai. Il suo respiro nel sonno sembrava del tutto normale. Mi domandai se stesse facendo i suoi consueti, dolci sogni, o se adesso fossero tormentati e confusi. Il suo viso pareva abbastanza tranquillo; stentavo a credere a quanto fosse bella. Mi resi conto che in realtà stavo sognando. Come facessi a saperlo, perché l’avessi pensato, non era chiaro, dato che non c’era nessuno dei soliti indicatori del sogno. Però era un sogno, e ne fui terrorizzato: perché mai avrei dovuto sognare una cosa così prosaica, ordinaria e normale se non perché il mondo reale, il mondo della veglia, avrebbe contraddetto il sogno? Al risveglio avrei forse trovato mia figlia senza fiato, nell’oscurità? E poi mi calmai, pensando che forse non stava affatto dormendo ma fingendo di dormire, in modo da farmi contento. Mi svegliai e trovai la luce soffusa dell’alba alla finestra e mia figlia in piedi accanto al mio letto.

“Papà, ho paura,” disse.

Sollevai le coperte e lasciai che si infilasse a letto accanto a me, con il corpo premuto contro il mio come non accadeva da molto tempo, da quand’era cresciuta e un simile contatto era diventato inappropriato o inquietante. La tenni stretta ed ebbe di nuovo quattro anni, e a quattro anni non stava morendo. Tenendola così, così stretta, ci addormentammo, e io non sognai.

Ad ogni modo ci svegliammo abbastanza presto da non dover fare in fretta i preparativi per la giornata. Mi occupai dei pancake mentre Meg spremeva le arance e Sarah cercava di attirare la nostra attenzione sulle notizie locali del giornale.

“C’era un orso a La Cañada,” disse. “È venuto giù dalle montagne ed è entrato nella piscina di un tizio.”

“Ecco perché non abbiamo una piscina,” dissi.

“Siamo vicini alle montagne. Perché da noi non viene mai un orso?” Sarah sorseggiò il succo d’arancia che Meg le aveva messo davanti.

“Bisogna stare attenti a quel che si desidera,” disse Meg.

Su di noi calò un silenzio imbarazzato.

“Magari un puma per il tuo compleanno,” dissi.

“Quello sarebbe carino,” disse Sarah.

Posai un piatto di pancake sul tavolo. “Fanculo la scuola,” dissi.

“Cosa?” chiese Meg.

“Stamane andremo a fare una camminata in montagna,” dissi.

Meg mi porse un bicchiere di succo. “Zach.”

“Cosa?”

“Oggi hai lezione.”

“Mi è venuto un improvviso raffreddore.” Finsi di tossire. “Non vorrei far ammalare i ragazzi.” Guardai Sarah. “Mi sembri un po’ febbricitante.”

“Bigiare la scuola?”

“Non vorrai lasciarti sfuggire quest’occasione, vero?”

“Mamma, tu vieni?” chiese Sarah.

“Divertitevi.”

Meg mi lanciò un’occhiata che non riuscii a decifrare.

Il nostro consueto percorso cominciava a meno di un chilometro dalla nostra porta sul retro. Non era molto battuto, in parte perché nascosto e non troppo noto, ma anche perché non era curato e a tratti diventava scosceso e accidentato. Il sentiero era una prova, disse la mia poetica moglie prima di rinunciare definitivamente al cammino. Se Sarah non fosse cresciuta con quel sentiero, se non avessimo finito per conoscerlo così intimamente, dubito che l’avremmo seguito. Sta di fatto che lo vedevamo come qualcosa di nostro, qualcosa che ci univa. In vari punti il percorso diventava così vago e indistinto che, se non si aveva familiarità con esso, bisognava orientarsi con bussola e mappa. Per noi, era solo una passeggiata nel parco. Su quel sentiero la presenza umana era così limitata che di tanto in tanto ci imbattevamo in escrementi o altre tracce di orso o di puma, anche se non avevamo mai visto né l’uno né l’altro. Nonostante ciò, ci premuravamo di fare parecchio rumore mentre camminavamo.

Mi inerpicai sulla salita dietro a mia figlia. Osservai il suo passo, i suoi piedoni che si posavano risolutamente, uno saldamente piantato a terra prima che l’altro si muovesse. Banchi di nebbia aleggiavano tra gli alberi sopra di noi. Sarah si domandò a voce alta, come faceva quand’era più piccola, se ci saremmo potuti arrampicare in mezzo alla nebbia e dissiparla come ragnatele.

Dopo circa un chilometro e mezzo di marcia ci imbattemmo in un cumulo di escrementi. Ci inginocchiammo per dare un’occhiata. Erano pieni di peli.

“Troppo grossi per un coyote,” disse Sarah.

Annuii. “Qualunque cosa fosse, ha cercato di coprirli.”

“Un felino?” chiese lei.

“Credo di sì.”

Sarah si guardò intorno.

Toccai la cacca con il dito. Era ancora calda.

“Bleah,” fece Sarah.

“È solo merda,” dissi.

Sarah si mise a ridere.

“È solo una parola. Una parola molto versatile. Anche se sappiamo che questa è merda, e l’abbiamo appena trovata, possiamo dire, ‘Cos’è questa merda?’ Ad ogni modo, è ancora calda.”

“Cosa significa?”

“Significa che è recente,” risposi alzando la voce.

Intuii l’agitazione di Sarah.

“Non preoccuparti,” le dissi. “Dobbiamo solo fare in modo che ci sentano. Hanno più paura di noi.”

“Non ne sono molto sicura,” disse Sarah.

“Be’, comunque non devi preoccuparti. Vuoi tornare indietro?”

“Neanche per sogno.”

“Brava!”

Proseguimmo il cammino. “Cantiamo.”

“Cantiamo cosa?”

“Che ne dici di Lydia, dal film dei Fratelli Marx? ‘Lydia, oh Lydia, that encyclopedia, queen of the tattooed ladies.’”

Cantammo.

Lydia, oh Lydia, say have you met Lydia?

Oh Lydia, the tattooed lady.

She has eyes that folks adore so

And a torso even more so.

Lydia, oh Lydia, that encyclopedia.

Oh Lydia, the queen of tattoo.

On her back is the battle of Waterloo

Beside it the Wreck of the Hesperus too

And proudly above waves the red, white, and blue.

You can learn a lot from Lydia.

“Com’è che conosci questa canzone?” chiese Sarah.

Tre pazzi a zonzo era il mio film preferito da bambino.”

“Anche a me piace.”

“Guarda quel crinale. Magari riusciamo a dargli una sbirciatina da lontano, a scorgere la punta bianca della sua coda.”

“Perché non mi avete chiamata Lydia?”

“Ottima domanda. Perché preferivamo Sarah come nome.”

“E la nonna si chiamava così.”

“Sì, anche per questo.”

Camminammo per altri cinquecento metri. Chiesi a Sarah come stava, e lei rispose che non era stanca. “Un sacco di gente dice che non abbiamo stagioni. Questo perché non osservano. Guardati intorno. Questi sono colori autunnali. Guarda l’ocra della pettegola su quella scarpata. E il grano saraceno è color ruggine, non così scuro come il marrone della malosma.”

Sarah osservò il paesaggio che ci circondava.

“Il mondo è intorno a noi. Cambia in continuazione. A volte ci vogliono milioni d’anni per vederlo. A volte basta qualche secondo.”

“Vale anche per noi?” chiese Sarah.

“Sì, vale anche per noi.”

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Osservai mia figlia da dietro come avevo fatto prima, scrutando la sua terribile bellezza, contemplando il mio terribile amore. Il fatto che avessimo lo stesso sangue non aveva molta importanza ai miei occhi. Non la amavo per il suo sangue. Mi ero innamorato di lei. Ricordavo l’attimo in cui era successo. Sarah aveva tre mesi, e sebbene fossi felice, per quanto spaventato dall’idea della paternità, fino a quel giorno l’amore per mia figlia era stato qualcosa di astratto, informe, distante. Mi stavo pulendo la camicia dalla sua saliva dall’odore pungente, quando guardai il suo volto impassibile e mi innamorai. Profondamente. Completamente. Irrimediabilmente. E adesso eccomi su quella montagna arida, in quei boschi, a seguire le sue orme. Se un orso o un puma fosse sbucato dalla boscaglia, l’avrei ucciso con le mie mani per proteggerla. Il mio unico compito nella vita era tenere in vita questo animaletto, e non ero in grado di farlo. Lì su quel sentiero, dietro di lei, al centro dei miei pensieri non c’era il desiderio di essere un buon padre, di essere un padre amorevole, solo di poter continuare a essere un padre.

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Quel giorno non vedemmo orsi né puma, anche se ce n’erano parecchi. Restammo seduti a goderci il panorama di Pasadena sotto di noi, con Los Angeles in lontananza, rannicchiata sotto la sua bruna foschia. Non c’era una distinzione precisa tra la foschia e la città sottostante, solo tra la foschia e il cielo azzurro sopra di essa. Immaginavo che lassù fossimo più vicini all’azzurro che alla foschia. Mangiammo formaggio cheddar e mele di un giallo diafano, bevendo dalle nostre borracce.

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Non potevo dirmi sorpreso del suo arrocco, ma in qualche modo quella mossa mi portava sempre altrove. Che due pezzi potessero muoversi contemporaneamente mi sembrava una magia, tanto che mi sarebbe piaciuto poter fare una mossa simile nella vita reale. Non riuscivo a immaginare come sarebbe stata una cosa del genere. “Molto astuta, Madame Nenarokov.”

“Dov’è la mamma?”

“A lezione.”

“Giusto.”

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Fuori, sembrava che potesse piovere, ma sapevamo che non avrebbe piovuto.

“Cosa succede quando salti le lezioni come hai fatto oggi?” chiese Sarah.

“A volte le recupero, ma è complicato. Di solito allungo semplicemente l’orario di ricevimento in modo che gli studenti possano venire a parlarmi, se vogliono. Diventa un problema solo se un insegnante prende l’abitudine di non farsi vedere a lezione.”

“Ah.”

“Sai com’è, a volte la gente si ammala.” Me ne pentii non appena lo dissi, ma sul suo volto non trapelò alcuna reazione.

“A Grace Tilly hanno regalato uno smartphone,” disse Sarah.

“Sul serio? E cosa ci fa Grace Tilly con uno smartphone?”

“Chiama la gente. Cerca delle cose in rete.”

“Le altre tue amiche hanno il cellulare?” le chiesi.

“Non ancora.”

“E allora chi chiama?”

“Niente smartphone, quindi.”

“Ne parlo con tua madre.”

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La cosa che mi spezzava davvero il cuore era che avevo finito per riconoscere quell’espressione vacua, indifesa, ancor prima che si delineasse completamente sul volto di Sarah. Questa volta le tremarono le palpebre. Cominciò ad ansimare in modo allarmante. Ebbe una convulsione e poi tornò con me con la stessa velocità con cui si era allontanata. Questione di secondi. E poi fu di nuovo concentrata come poco prima.

Quando Sarah aveva soltanto quattro mesi, mi spaventava ogni notte. Aveva un respiro irregolare che ti lasciava lì a domandarti quando avrebbe ripreso fiato. Saltavo giù dal letto e restavo in piedi, incombendo su di lei per tenerla d’occhio finché non lo faceva, e allora respirava come se nel mondo andasse tutto bene. Nessuno ci aveva mai avvertiti di questa cosa. Mi sentivo del tutto impreparato a prendermi cura di quella creatura.

“A cosa stai pensando?” mi chiese Sarah.

“Come, scusa?”

“Tocca a te muovere.”

“Ah.” Esaminai la scacchiera. Mi stava aggirando. Sentivo che la fine era vicina. “Credo di dover muovere il mio re.”

“Ti voglio bene, papà.” Disse di punto in bianco.

La guardai negli occhi, ma stava fissando i pezzi davanti a sé. “Anch’io ti voglio bene, pulce.”

“Ti piace fare il bagno?”

“Cosa?”

“Il bagno nella vasca, ti piace?”

“Direi di sì. Ogni tanto bisogna lavarsi. Perché?”

“Theresa dice che il bagno è meglio del sonno.”

“Meglio in che senso?”

“Non saprei. Più riposante, credo. Le ho detto che non mi piace dormire e mi ha risposto che dovrei fare il bagno nella vasca.”

“Perché non ti piace dormire?”

“Non lo so.”

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In quegli spaventosi, terribili attimi degli attacchi, intravedevo come sarebbe stato infine perdere, rinunciare a mia figlia. Quegli episodi erano piccoli annientamenti, e restavo annichilito insieme a lei ogni singola volta. Meri secondi. Secondi infiniti. Mi sentivo a disagio, persino in colpa, per quella sorta di perversa gioia che provavo nell’assistere all’attacco da solo. Volevo mia figlia tutta per me, egoisticamente. Volevo fare incetta di istanti e congelarli per poi centellinarli nel seguito della mia cosiddetta vita.

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Quando avevo sette anni, vidi mio padre schiacciato sotto il peso della mancata conferma dell’incarico universitario. Naturalmente all’epoca non capii cosa stesse succedendo, ma ricordavo un cambiamento nel suo atteggiamento, come passò dal dire con orgoglio, mi pareva, che era un docente dell’Università di Chicago al mormorare, quasi sottovoce, che faceva l’assistente alla Roosevelt. Soltanto anni dopo seppi che aveva stentato a provvedere a noi, che il libro incompiuto su Ralph Ellison, che era stato la sua passione e gli aveva fatto perdere la cattedra, adesso era un libro incompiuto che per lui non significava niente. Accettò occasionalmente altri lavori, tra cui quello di tassista, e si chiuse irrimediabilmente in se stesso. Fui io, quando avevo soltanto quattordici anni, a trovarlo nel seminterrato con solo parte della testa intatta. In seguito mia madre e io ci allontanammo, ma non provai mai un senso di perdita, cosa che ho sempre attribuito a un mio difetto caratteriale. Lei aveva trovato lavoro in un’agenzia di viaggi dopo che mio padre aveva perso la cattedra, ma non ne era mai parsa troppo soddisfatta. Ho sempre immaginato che partisse ogni mattina alla volta di luoghi esotici, luoghi assolati e orlati di palme, senza che neppure questi riuscissero a soddisfarla. Me ne andai di casa per entrare nei Marines, una decisione che lei disapprovò. Morì per un tumore allo stomaco passato inosservato quando studiavo all’università. Le tenni la mano mentre spirava, ed ebbi la strana sensazione di una mancanza di pathos, credo per entrambi. In realtà, io ero molto triste, ma lei pareva così grata della propria fine che dovetti rispettarlo. Figlio unico, con la sua morte restavo del tutto privo di una famiglia. Non sentii mai il peso di tale solitudine, o quantomeno non lo ammisi davanti a me stesso, finché non seppi che avrei perso la mia Sarah.

Non raccontavo mai a mia figlia aneddoti sui miei genitori, sulla mia infanzia. Era circondata da storie, ottime storie, sui genitori di Meg, sui fratelli di Meg, sull’infanzia di Meg. Invece io non condividevo molti ricordi della mia vita, convinto di non aver molto da condividere, di non ricordare molto, il che era in sostanza vero. Nella mia mente, nel mio cuore, non avevo cominciato a esistere pienamente che con la nascita di mia figlia.

Avevo preso a lavorare fino a tardi nel mio ufficio, o almeno a passare di lì prima di finire in un locale vicino al campus. Una sera ero nel mio ufficio verso le dieci quando Hilary Gill si affacciò alla mia porta aperta.

“Volevo ringraziarti,” disse. “Di nuovo.”

“E perché? Sei tu che hai fatto il lavoro.”

“Sai cosa intendo.”

Annuii.

“Perché sei così burbero con me?” mi chiese.

Rimasi colpito dalla sua schiettezza. Mi piacque. “Lo sono davvero?”

“Sì.”

Non dissi nulla ma chiusi la cartellina sulla mia scrivania.

“Tu non credi di esserlo?”

“So di esserlo.” Avevo l’impressione che si aspettasse o volesse delle scuse. Dato che stavo pensando a mio padre, accennai a lui. “Mio padre era un docente di letteratura inglese. Fui io a trovarlo dopo che si tolse la vita. Ero ancora un ragazzo. Ho sempre pensato che si fosse suicidato perché non aveva ottenuto la cattedra.”

Hilary non sapeva cosa dire.

“Adesso so che lo fece perché non era soddisfatto di sé. Dopo la morte di mia madre trovai la cosiddetta dissertazione tra le sue cose. Era praticamente inesistente, non c’era traccia di un vero lavoro. Non ottenne la cattedra perché non gli stava a cuore il suo lavoro. E se non gli stava a cuore, come avrebbe potuto spingerlo a togliersi la vita?”

“Va tutto bene?” mi chiese Hilary.

“Ti uccidi perché non vivi in questo mondo.” Feci una pausa abbastanza lunga da vedere la preoccupazione dipingersi sul suo volto. “Mi dispiace, Hilary.”

“Cosa sta succedendo?”

Mi alzai e cominciai a mettere le mie cose nella borsa.

“Zach?” Hilary si avvicinò e mi poggiò la mano sul braccio. “Cosa c’è?”

“Mia figlia sta morendo.”

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Fu un abbraccio piuttosto innocente, uno di quegli abbracci intesi a confortare un amico dopo la scoperta di una notizia scioccante nella sua tragicità. Accettai il suo gesto, accolsi l’abbraccio, cingendo a mia volta Hilary. Quando ci distaccammo, però, i nostri volti erano solo a qualche centimetro di distanza. Non so chi si sporse in avanti, chi prese l’iniziativa, ma Hilary Gill e io ci baciammo, non questo gran bacio, ma pur sempre un bacio.

Restammo a fissarci per qualche secondo.

“Mi dispiace,” dissi.

“Figurati. Sei sconvolto. Ti capisco.”

“No, davvero, mi dispiace.” Presi la mia borsa e feci per andarmene.

“Se hai bisogno di parlare con qualcuno,” disse, “io sono qui, ti ascolto. Lascia perdere il bacio. Sei sconvolto. Permettimi di essere tua amica.”

Ebbi un sussulto sentendo la parola bacio. “Non preoccuparti, sto bene.” La costrinsi ad arretrare in corridoio. “Devo tornare a casa.”

“Se vorrai parlarne, io ci sarò sempre.”

Fu abbastanza cortese o forse sensibile da non chiedermi i particolari della malattia di mia figlia. Lo apprezzai, anche se in quel momento non ero affatto contento della sua presenza. Senza aggiungere una parola, me ne andai.

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È vero che riesco a scorgere molte piccole fiamme in un fuoco. Era una notte gelida, e così accesi il fuoco nel caminetto di casa mia. Lo stavo attizzando quando Meg entrò nella stanza e si sedette sull’ottomana alle mie spalle.

“Hai avuto un’ottima idea,” disse. “Erano secoli che non accendevamo il fuoco. È così bello questo caminetto.”

Annuii. “Hai dato un’occhiata a Sarah?”

“È tranquilla, dorme.”

“Le piacerebbe un sacco,” dissi. “Ti ricordi come restava sempre ipnotizzata dal fuoco? Domani lo accenderò di nuovo per lei.”

“Le piacerà.”

Mi sedetti a una certa distanza dal legno scoppiettante. “Com’è che la vita è diventata un simile strazio?” le chiesi.

“Ti ricordi della tua idea di un negozio di mobili?” chiese Meg.

“Cioè?”

“Dicesti di voler aprire un negozio che vendeva solo poggiapiedi, e chiamarlo l’Impero Ottomano. Era il nostro primo appuntamento.”

“E adesso eccoci qui,” dissi.

“Eccoci qui.” Meg si schiarì la gola, un tic nervoso. “Aspetto sempre di svegliarmi. Dev’essere un brutto sogno.”

Spinsi un ceppo nel fuoco, provocando una fiammata.

“Cosa dobbiamo fare?”

“Dobbiamo essere forti per Sarah. Cos’altro possiamo fare? Non possiamo permettere che si spaventi. Non lo sopporterei.”

“Sì.”

“Sai, la perderemo prima di perderla.” Detestai subito l’impressione che poteva fare quella frase, quasi di fatuità nella ricerca dell’arguzia, ma non l’avevo intesa così, naturalmente.

Meg pianse. E anch’io piansi. Ma non feci lo sforzo di alzarmi per sedermi accanto a lei e abbracciarla. Restammo a fissare il fuoco piangendo.

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Quella notte non seguii Meg a letto. Agguantai invece una torcia per fare una breve escursione sul sentiero. Nel corso di quella camminata notturna, ebbi paura soprattutto prima di raggiungere il sentiero, temendo di venir visto da un poliziotto. Nonostante ciò, non procedetti in modo furtivo, ma con passi pesanti e rivolgendo il fascio della torcia ovunque. I puma sono animali notturni, e volevo che si accorgessero della mia presenza. Provai un certo sollievo quando trovai il sentiero. Non volevo allontanarmi troppo sulla montagna, solo quel tanto che bastava per sentirmi in mezzo alla natura selvaggia, da solo.

Mi sedetti su un masso e spensi la torcia. Non fu una mossa saggia, ma mi sentii costretto a farla. Ero immerso in una profonda oscurità. Il cielo era limpido. Volsi lo sguardo in alto verso il mare di stelle e ascoltai il torrente davanti a me. Pensavo che forse avrei sentito i passi felpati di un puma, ma era improbabile. Era più verosimile che sentissi un orso che faceva schioccare gli arbusti. In quanto umano puzzolente avevo poche probabilità che mi capitasse sia l’una che l’altra esperienza.

Mi arrivò un odore familiare. Era marijuana. In quei boschi c’era qualcuno che si stava sballando. Non mi dava fastidio che si stessero sballando. Mi dava fastidio che fossero lì. Tornai indietro lungo il sentiero, questa volta con la torcia spenta.

Sarah e io ci sedemmo per portare a termine la nostra partita. Non avevo molte speranze. Amavo quello sguardo assetato di sangue nei suoi occhi.

“Sei una persona malvagia.”

“Lo so.”

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“Ah,” disse, e fece la sua mossa. Txh2

Capii di essermi cacciato in un vicolo cieco. Sapevo cosa dovevo fare. Mi arresi.

“Non prendertela, papà.”