Ecco che arriva un vecchio soldato di Botany Bay1

un coltellino da tasca

Il modo in cui ci trattiamo a vicenda cambia a un ritmo che in tutte le altre aree dell’esperienza umana ci risulterebbe intollerabile. Potremmo definire tale ritmo lento, rilassato o, più correttamente, glaciale. Un ghiacciaio è una massa di ghiaccio e firn, neve compatta, che mostra segni di movimento, creatasi dove la produzione di neve è superiore all’ablazione e così perdurante da un anno all’altro, persistendo anche quando un cambiamento nel clima annulla le condizioni che le hanno consentito di esistere. Lo stesso accade con le oscenità, le offese e il dolore che ci infliggiamo a vicenda, con il pregiudizio, la negligenza, la tortura e la schiavitù. Come i ghiacciai, queste cose non sono confinate in un’unica parte della terra.

Nel caso ve lo siate dimenticati, il mio nome è Zach Wells. Non sarebbe così strano o terribilmente grave se ve lo foste dimenticati. Dopo tutto, la mia amata figlia dimenticherà me, il mio volto, la mia voce. È inevitabile. Questo significa che non posso impedire che accada. Significa che nessuno può impedire che accada. Immagino che Dio potrebbe farlo, ma naturalmente ha di meglio da fare, bombe da sganciare, tornado da scatenare, virus da diffondere. Infine c’è anche il fatto che, be’, non c’è alcun Dio. Ma c’è un diavolo.

Mentre mia figlia era ormai prossima a perdere la voce, quella giovane voce che era riuscita a sviluppare nella sua breve e meravigliosa vita, meravigliosa finché la vita non era diventata quello che la vita diventa, anche la mia voce cambiò, in modo altrettanto inevitabile, altrettanto necessario. La logica è un padrone inflessibile. Tuttavia, un’altra voce, non del tutto sviluppata, rimase costante, stabile, persino risoluta. Quella voce era priva di timbro, di volume, di profondità, di sonorità, era una voce scarabocchiata su un foglietto di carta con l’inchiostro blu, un’incessante supplica d’aiuto.

Un impiegato delle poste non vi dirà a chi appartiene una certa casella nell’ufficio postale. Lo sapevo, e così non mi presi il fastidio di entrare nel minuscolo ufficio postale di Bingham, nel New Mexico, per fare quella domanda. Non potevo neppure trattenermi al suo interno in attesa di vedere chi avrebbe aperto la casella in questione. L’ufficio postale consisteva in un unico locale. E così spedii uno scatolone rivestito di carta rossa alla casella postale 219, Bingham, NM, 87832. Poi attesi, ora dopo ora dopo ora, giorno dopo giorno dopo giorno, tre giorni nella mia Jeep, fingendo di esaminare mappe topografiche e fotografie aeree sul cruscotto, tre giorni nella tavola calda sull’altro lato della strada, continuando a studiare mappe e fotografie sul tavolo davanti a me. Dissi a tutti quelli che mi interrogavano sul motivo della mia presenza di essere un geologo petrolifero e di essere convinto che nella zona ci fosse il petrolio. Lasciavo il mio appostamento quando l’impiegato delle poste usciva per pranzo. Alle cinque del pomeriggio, quando staccava, andavo nella cittadina di San Antonio, vicino al raccordo tra la I-5 e la US 380, e dormivo in un Motel 6, con aria condizionata e televisione via cavo.

Il primo giorno mi appostai in uno dei tre séparé affacciati sulla strada della tavola calda Bingham Eatery. Avevano cambiato solo da qualche mese il rivestimento dei divanetti e degli sgabelli con del nuovo vinile che faceva a pugni con la vecchissima formica dei tavoli e del bancone. Il vinile odorava ancora di nuovo. Il contrasto tra i due rossi mi parve sconcertante, e fu un sollievo scoprire di non essere l’unico a trovarlo tale, dato che la prima cosa che la cameriera, DeLois, a quanto diceva il cartellino sulla sua divisa, mi disse fu: “Scusi per i colori, ma per il momento nessuno ha vomitato per colpa loro.”

“Qual buon vento la porta qui?” fu la seconda cosa che disse. Era una donna di mezza età, bionda e robusta, con le gambe lunghe fasciate dai collant. Indossava una vera e propria divisa, di un azzurro che mirava forse a dare un po’ di sollievo dalla stridente dissonanza dei rossi.

“Il lavoro,” risposi.

“Non poteva essere altrimenti, perché da qui non si va da nessuna parte. Nessuno è di passaggio a Bingham. Lei è qui per qualche strana faccenda o perché si è perso. L’avevo classificato come smarrito.”

“Sono davvero smarrito,” dissi, “ma so dove mi trovo.”

“Che genere di lavoro?”

“Sono un geologo. Sto cercando il petrolio.”

“Non avevo mai sentito parlare di petrolio nel New Mexico,” disse.

Tirò la fascia che le cingeva il grembiule. Adesso era tanto stretta da scavarle un solco all’altezza della vita.

“Non ancora,” risposi.

“Cosa prende?” mi chiese.

Guardai il menu, scritto a pennarello nero sulla lavagna appesa in alto sulla parete dietro il bancone.

“Le frittelle?”

Lei lanciò un’occhiata furtiva alla finestra della cucina e mi rispose scuotendo lievemente il capo.

“Porridge?”

DeLois rimase a fissarmi, immobile.

“Huevos rancheros?”

Lei annuì, poi riferì l’ordine al cuoco con un urlo.

“Un nome singolare, DeLois,” dissi.

“I miei genitori non riuscivano a decidere se chiamarmi Delores o Lois. Almeno è questo che mi hanno raccontato. In realtà credo che non fossero in grado di compitare e così mi sono ritrovata con questo nome. La scuola è una bella cosa.”

“Io sono Zach.”

un coltellino da tasca, un’incerata

Per qualche ragione, il minuscolo ufficio postale al servizio dei pochi abitanti di Bingham apriva alle sette e mezza del mattino. Era a malapena chiaro. La tavola calda non apriva che alle otto, e avevo l’impressione di dare nell’occhio e apparire sospetto seduto sulla mia Jeep. Spiegai le cartine della zona centrale del New Mexico ma lavorai ai dati sulla mia caverna nel Canyon, in modo che quel tempo non andasse completamente sprecato. Quando il cuoco e DeLois arrivarono e parcheggiarono dietro il locale, entrai a far colazione. DeLois scambiò quattro chiacchiere con me. Appresi che il cuoco si chiamava Jorge, anche se voleva essere chiamato George. All’ora di pranzo mi diressi a ovest verso San Antonio e mi fermai brevemente nella mia camera al motel prima di rifare il lungo viaggio fino al parcheggio dell’ufficio postale, dove restai seduto in auto finché non chiuse. Quel pomeriggio vagabondai nelle aride, desolate e monotone campagne domandandomi cosa diavolo stessi facendo laggiù, in mezzo al nulla. Quella sera chiamai Meg e le chiesi di Sarah.

“Oggi era molto tranquilla e silenziosa,” disse Meg. “Dove sei?”

“Ho bisogno di un po’ di tempo. Sto lavorando.”

“Sei nel Canyon?”

“Non ancora. C’è una caverna qui nel New Mexico cui voglio dare un’occhiata.” Odiavo mentire. “Lei si rende conto che non ci sono?”

Seguì una lunga pausa. “Non posso dire con certezza che si sia accorta della tua assenza.” Meg sembrava spaventata da quelle parole. A preoccuparla non erano i miei sentimenti, ma ciò che questo significava riguardo a Sarah.

“Ci saranno delle giornate così,” dissi. “Presto sarò di nuovo a casa. Mi dispiace essere scappato via.”

“Anche a me piacerebbe scappare.”

“Appena torno.”

“Non era questo che intendevo.”

“Mi dispiace.”

Dopo aver riagganciato, mi distesi e fissai il soffitto scrostato. Guardai un documentario sugli orsi e mi addormentai vestito.

Mattina numero tre. Mentre mangiavo le uova troppo strapazzate e i medaglioni di carne serviti su un piatto di plastica blu, sbirciai dalla finestra del séparé e vidi uscire dall’ufficio postale il pacco avvolto nella carta rossa che avevo spedito da Socorro due giorni prima. A portarlo era un bianco di corporatura media, con una zazzera di capelli bianchi e pantaloni e camicia mimetici kaki. Era accompagnato da un uomo più alto e massiccio, vestito in modo simile. Il secondo uomo portava una pila di scatole che caricò nel bagagliaio di un Hummer. Poi rientrò nell’ufficio postale. Il primo uomo lacerò la carta rossa e aprì la scatola, trovandola vuota. Quando il suo compagno tornò con un’altra pila di pacchi, ebbero un’animata discussione che si concluse con l’uomo più basso che prendeva a calci la scatola e la carta rossa sulla ghiaia del parcheggio. Salirono sul loro imponente fuoristrada e si diressero a est.

Raccolsi le mie carte, lasciai una generosa mancia e uscii per salire sulla mia Jeep. Li seguii verso est. Vidi solo un paio di veicoli parcheggiati ai lati della superstrada, davanti a gruppi di edifici fatiscenti o addirittura abbandonati. C’era però un traffico sufficiente perché la mia presenza non apparisse sospetta. Più avanti c’era l’Hummer, facile da scorgere in quel paesaggio. Lo vidi svoltare verso nord per poi imboccare una pista accidentata. Mentre proseguivo sulla superstrada vidi l’Hummer fermarsi davanti a un complesso recintato da un reticolato, formato da un grosso magazzino e da un edificio più piccolo. Lì c’era parcheggiato anche un vecchio scuolabus, la cui ruggine spiccava nel paesaggio biancheggiante quanto i resti della vernice gialla scrostata. Non era difficile capire che non c’era modo di avvicinarsi al complesso senza dare immediatamente e malauguratamente nell’occhio.

Rilevai la posizione grazie al segnale di progressiva chilometrica e proseguii a est per un paio di chilometri prima di fare inversione e tornare a San Antonio.

Quella sera telefonai a casa e ricevetti un rapporto sul deterioramento di mia figlia. A quanto pareva stava procedendo a gonfie vele. Sapevo che l’ironia e l’umorismo sono uno dei modi con cui gli esseri umani affrontano le tragedie, ma mi domandai se avesse senso ricorrervi in solitudine, se fosse normale trovare qualcosa di buffo nelle tribolazioni in assenza di un pubblico. Stabilii che non aveva alcuna importanza.

un coltellino da tasca, un’incerata, una mappa

I due uomini, Zazzera Bianca e il compare corpulento, si incamminarono verso la tavola calda, lasciando l’Hummer parcheggiato accanto all’ufficio postale.

“Oddio,” disse DeLois.

“Cosa c’è?” le chiesi.

“Quei tizi mi mettono i brividi.”

Mi guardò come se mi vedesse per la prima volta. “Stai alla larga da loro.”

I due uomini lanciarono un’occhiata alla mia Jeep mentre si avvicinavano, come cani che notano qualcosa fuori posto. Entrando fecero molto più rumore del dovuto. Sembrava stessero riparando nel locale da una terribile tempesta di neve, ma non c’era traccia di tempesta, neve, pioggia o altro, se non il pesante trapestio dei loro scarponi di tela marrone chiara. Mi scoccarono di sottecchi un’occhiata non troppo amichevole mentre prendevano posto al bancone. Non riuscii a sentire le domande che posero a DeLois, ma lei mi lanciò uno sguardo che pareva sottintendere il consiglio di andarmene. Tornai alle mie mappe, o almeno finsi di tornare alle mie mappe. Adesso sapevo chi mi mandava i vestiti che ordinavo, ma non chi mi mandasse i messaggi. Una cosa era chiara: non era uno di questi due uomini.

DeLois venne al mio tavolo e rovesciò il mio caffè per poi andarsene senza dire una parola, ma le sue scuse rimasero sospese a mezz’aria.

L’uomo più basso si schiarì rumorosamente la voce, ruotò sul suo sgabello, si alzò e si avvicinò al mio séparé.

“Come va?”

“Bene. È stato gentile ad avermelo chiesto.”

Si girò verso il suo massiccio compagno, poi mi rivolse uno sguardo ironico, un mezzo sorriso. “Non sei di queste parti.”

Resistetti all’impulso di fare del facile sarcasmo, optando per un “No.” Lo guardai negli occhi. “Mi chiamo Wells.”

Un’altra occhiata al bancone.

“Jeff,” disse.

“Piacere.” Non gli tesi la mano. Lo sgarbo fu ignorato.

“Perché sei qui?”

“Colazione.”

“Wells,” fece lui. “Cosa ci fai a Bingham?”

“Cerco il petrolio.”

All’inizio pensò che lo stessi prendendo in giro, e stava per lamentarsene con me o con il compagno, ma poi guardò le mie mappe. “Petrolio,” disse. “Qui nel New Mexico?”

“Lo sto cercando. Sono un geologo.”

“Per chi lavori?”

“Non sono autorizzato a dirlo,” risposi.

“Ah no, eh?”

“Parte del contratto. I miei capi preferirebbero che non si sapesse delle loro ricerche sul sottosuolo. Sono sicuro che capisci perché.” Il cuore mi batteva all’impazzata.

Jeff fece segno al compagno di raggiungerci. Si sedettero di fronte a me nel séparé. Avevano un’aria lievemente comica, tutti bardati in quelle uniformi militaresche. Nonostante ciò, mi facevano paura, ed ero quasi sicuro che ne fossero consapevoli.

“Be’, lui è Roger.”

Annuii.

“Il nostro Wells qui sta cercando il petrolio,” disse Jeff. Estrasse una sigaretta dal pacchetto e se la mise tra le labbra. “Qui nel New Mexico, non è incredibile?” Accese la sigaretta, soffiando il fumo verso il soffitto.

“Vietato fumare,” disse DeLois dal bancone.

Jeff la ignorò.

“Petrolio,” disse Roger, quasi a voler dimostrare di essere in grado di parlare.

“Cosa ti fa credere che ci sia del petrolio da queste parti?” chiese Jeff.

“Certe caratteristiche della superficie nelle immagini satellitari,” risposi.

“Dove?” chiese Roger.

Non risposi, finendo di bere il mio caffè. “Sto cercando in parecchi posti. Il lavoro preparatorio richiede un sacco di tempo.”

“Non c’è petrolio nel New Mexico,” disse Jeff.

“Non è ancora stato scoperto il petrolio nel New Mexico.”

“Allora, come sta andando?”

Sorrisi e raccolsi le mie mappe.

Jeff mi bloccò. “C’è qualche posto che sembra particolarmente promettente?”

Sostenni brevemente il suo sguardo, poi cedetti. Indicai un punto sulla mappa, il loro magazzino. “Qui intorno, stando alle immagini satellitari, ma devo ispezionare meglio la zona. Quella dietro l’ufficio postale sembrava interessante all’inizio, ma ora non più.”

“Proprio qui?” chiese Jeff, picchiettando l’unghia sporca dell’indice sulla cartina.

“Sì.”

Jeff guardò Roger. Roger guardò la mappa. L’omone ci mise un po’ a capire quello che Jeff gli stava dicendo.

“Lì c’è una piana alluvionale, che rende difficile interpretare la superficie. I sedimenti sono troppo dilavati.” Stavo sparando cose a caso, in sostanza. “Dato che non ci sono ancora dei campi, posso basarmi solo sulla biostratigrafia dei siti. A me pare che, tenendo conto che in zone simili del Texas c’è il petrolio, la capacità produttiva di queste aree potrebbe essere paragonabile.” Guardai i loro occhi vitrei. “Mi spiace avervi annoiato con queste cose.”

“Come funziona?” chiese Jeff.

“Cosa?”

“Supponiamo che qualcuno trovi il petrolio sulle mie terre: sarebbe mio?”

Scoppiai a ridere. “Nemmeno per sogno. Potrai anche possedere la terra, ma non possiedi quello che c’è sotto. La compagnia che lo trova ha il diritto di venire a prenderselo.”

“Ma che cazzo di senso ha?” fece Roger.

“E se lo troviamo noi?” chiese Jeff.

“Se lo trovate sulle vostre terre e riuscite a estrarlo, allora potete venderlo. Lo stesso vale per il gas.”

“Quindi, se lo trovasse una compagnia, io non ci guadagnerei niente?”

“Guadagneresti un sacco,” gli spiegai. “La compagnia petrolifera dovrebbe pagarti per stare sulla tua terra, per passare sulla tua proprietà per raggiungere il prodotto. Ci sono delle formule per stabilire l’entità della retribuzione.”

“Come fai a trovare il petrolio?” chiese Jeff.

“Ho studiato otto anni per impararlo,” dissi. “Se te lo dicessi, a cosa mi sarebbero serviti? Non so se mi spiego.”

Jeff annuì.

“Adesso dovrei mettermi al lavoro.” Lasciai sul tavolo i soldi per DeLois. “Signori.” Non colsero l’ironia.

un coltellino da tasca, un’incerata, una mappa, una bussola

In teoria avrei dovuto essere un geologo petrolifero che stava cercando l’oro nero nel deserto, e così andai nel deserto a cercare l’oro nero. A fingere di cercare l’oro nero. Parcheggiai in un punto desolato, ma facilmente visibile dal magazzino dei fratelli in mimetica. I cespugli di flourensia e le acacie non erano abbastanza fitte e alte da offrire un po’ d’ombra. Mi ero portato dietro alcuni strumenti per i rilievi del mio dipartimento all’università. Un po’ di attrezzature per il carotaggio e un rilevatore elettronico. Non sapevo come farlo funzionare e avevo i miei dubbi, come molti altri, sul fatto che funzionasse davvero. Nulla di tutto ciò aveva la minima importanza, ovviamente. Non sarei stato in grado di trovare il petrolio neppure se vi fossi stato immerso fino al ginocchio. Cadeva una lieve pioggerellina, e sollevando lo sguardo vidi le nuvole addensarsi a sudovest. Nel complesso recintato era tutto tranquillo. L’Hummer era lì, parcheggiato di fianco all’autobus, ma non vidi aggirarsi nessuno. Poi, quando stavo per andarmene, scorsi una donna che camminava con le spalle afflosciate dalla casa al magazzino. Mentre ero là fuori pensai a lungo anche a mia figlia, a quanto mi mancasse, a quanto fosse folle che mi trovassi lì, in mezzo al nulla, a fare Dio solo sapeva cosa. Pensai al lavoro, a come la sua importanza fosse svanita col passare degli anni. Cos’avevo pensato di imparare o di scoprire? Avevo creduto davvero che contasse qualcosa? E pensai a Hilary Gill. Immaginai che qualcuno avrebbe potuto seguire il suo lavoro fino alla pubblicazione. Era una cosa che qualcuno avrebbe potuto fare.

Vidi arrivare un pick-up con doppie ruote posteriori. Gli uomini scaricarono scatole e grossi sacchi per poi portarli nel magazzino. Non sembravano troppo pesanti, e vidi chiaramente che ridevano e scherzavano.

Raccolsi le mie cose, chiedendomi se tecnicamente quello che stavo facendo fosse fingere di raccogliere le mie cose. Mi avviai con la Jeep giù dalla collina, mi fermai davanti alla recinzione che correva lungo la parte del complesso rivolta a nord, scesi e feci due passi. Il magazzino privo di finestre (almeno sul mio lato) non era grande come mi era sembrato, lungo una trentina di metri e largo forse la metà. I muri e il tetto in lamiera ondulata avevano bisogno di qualche riparazione e di una mano di vernice. Mi sentivo terribilmente solo là fuori, così solo che cominciai a subire il fascino di quella sensazione.

Sentii un motore, non grande come quello dell’Hummer o come quello che l’autobus doveva contenere, forse un due tempi. Quando alzai gli occhi, vidi un quad a tre ruote che veniva verso di me dall’altra parte del reticolato. Era Jeff con la sua zazzera bianca. Dietro di lui vidi Roger e un altro uomo in piedi sulla soglia della casa.

“Ah, sei tu,” disse Jeff. Sul fianco aveva la fondina di un’arma.

“Sì, sono io,” dissi. “Jeff, giusto?”

“Trovato qualcosa?”

Mi strinsi nelle spalle. “Questo terreno è tuo?”

“Già.”

“Solo all’interno della recinzione?”

“Perché?”

“Semplice curiosità.”

“Dove dormi? Hai piantato la tenda da qualche parte?”

Non risposi. “Ragazzi, a essere sincero mi fate un po’ paura. La mimetica, la pistola. Il modo in cui mi avete guardato al ristorante.”

“Siamo innocui,” disse lui, in tono niente affatto innocuo. “Allora, hai trovato qualcosa quaggiù?”

“Ti dispiace se faccio qualche rilievo all’interno della tua recinzione?” Indicai quello che doveva essere l’alveo di un antico torrente. Il solco profondo e irregolare correva parallelo all’edificio più grande.

“Si può fare.” Fece una pausa, voltandosi verso la casa. “Se trovi qualcosa, lo dici prima a me, va bene? Questa è la mia proprietà, quindi lo dici a me prima che alla compagnia petrolifera, intesi?”

Sospirai come se stessi prendendo una decisione. “Se trovo qualcosa di promettente, ti garantisco che lo dirò prima a te.”

“Il cancello è da questa parte.”

Due uomini che in precedenza non avevo notato fecero scorrere il cancello mentre Jeff stava a guardare. Non me li presentò ma salì sul sedile del passeggero della mia Jeep.

“Ti accompagno,” disse.

“Non ti serve il triciclo?”

Lui rise, ma non era una vera risata.

“Che genere di attività avete là dentro?” chiesi mentre passavamo davanti al magazzino.

“È un magazzino.”

“Niente camion?”

“Sono tutti in giro.” Quelle domande non gli piacquero. “Allora, cos’è che sembra così promettente qui?” Indicò le colline, e poi il suo terreno.

Fermai la Jeep e scendemmo. Mi incamminai verso l’alveo del torrente e lui mi seguì. Mi chinai e raccolsi un paio di pietre, ne gettai via una e gli porsi l’altra. “Questa è una diatomea,” dissi. “Un microfossile.”

Jeff esaminò la pietra. Speravo che non avesse l’hobby di collezionare sassi o una passione per le pietre preziose.

“I microfossili sono gli scheletri di minuscole piante e animali che risalgono all’epoca in cui questo era un oceano. Sono disseminati in tutti gli strati. Mi danno un’idea sugli strati di roccia. Devo cercare in giro e catalogare tutti i diversi tipi che riesco a trovare. Userò anche altre attrezzature per misurare la densità del terreno e rintracciare la presenza di idrocarburi.”

“Va bene.”

“È una cosa noiosa,” dissi, “monotona.”

“È per questo che hai studiato tutti quegli anni?” chiese lui.

“Messa in questo modo non mi piace,” dissi. “Allora, va bene se monto la mia roba?”

“Divertiti.”

un coltellino da tasca, un’incerata, una mappa, una bussola, una pala

Come avevo fatto sulle colline, montai le attrezzature fingendo di prepararmi a usarle per i rilievi e a prendere appunti. Quello che in realtà feci fu di leggere un romanzo di fantascienza da aeroporto, dare uno sguardo al mio lavoro, pensare a mia figlia e bere acqua. Continuai così finché non ebbi bisogno di urinare. Fu allora che mi diressi verso il magazzino. Avevano smesso di sorvegliarmi, e così cercai una porta. Il cuore mi batteva all’impazzata. Ignorai l’impulso e il desiderio di guardarmi intorno per vedere se qualcuno mi stesse osservando. La mia scusa sarebbe stata che avevo bisogno di un bagno. Trovai una porta, afferrai la maniglia, la girai. Non era chiusa a chiave. Entrai. C’erano forse dodici o quindici donne intente ad aprire scatole, piegare vestiti, chiudere scatole. Solo una di loro si voltò o si prese il fastidio di voltarsi verso di me. Reagì con una certa sorpresa, forse perché non aveva mai visto il mio volto, o perché il mio volto era di colore come il suo. Distolse lo sguardo all’improvviso mentre sentivo una mano posarsi sulla mia spalla. Girandomi mi trovai davanti a Roger.

“Cosa stai facendo?” mi chiese. Sembrava uscito da un cartone animato.

“Sto cercando un gabinetto,” risposi con disinvoltura.

“Qui non c’è il bagno. Perché non pisci fuori?”

“Chi ha detto che devo pisciare?”

Roger scoppiò a ridere. Le battute scatologiche non mancano mai di strappare una risata ai bambini. “Vieni,” disse, e mi accompagnò fuori dal magazzino e verso la casa.

Indicò un paio di bagni chimici di fianco alla casa. “Scegli quello che preferisci.”

“Perfetto, grazie.”

Mentre entravo nel gabinetto Jeff stava uscendo dalla casa.

“Aveva bisogno di fare una cacata,” disse Roger. “Non ha visto niente.”

Dopo aver chiuso la porta del fetido gabinetto, non riuscii più a sentire nulla. Rimasi seduto lì quanto bastava perché sembrasse credibile.

Quando uscii, trovai Jeff ad aspettarmi.

“Allora, cosa ne pensi?” mi chiese.

“È un po’ imbarazzante,” risposi. “Cosa succederebbe se ti dicessi che credo ci sia il petrolio? Cominceresti a trivellare, e sarebbe tutto tuo. E i miei capi cosa ci guadagnerebbero? O, se è per questo, io?”

“E se volessi fare un buco nella mia terra per il gusto di farlo?”

“Ti costerebbe un sacco di tempo e denaro, e dovresti sapere come farlo. Probabilmente potresti scoprire qualche roccia ignea a seicento metri di profondità nella perforazione esplorativa, ma questo cosa ti direbbe? Non sono semplici affari, è scienza. Non è come cercare dell’oro in un torrente.”

“E se ti ingaggiassi?”

“Non mi conosci neppure. E neppure io ti conosco. Inoltre mi stanno pagando per quello che sto facendo.”

“Avevi promesso che sarei stato il primo a saperlo.” Si stava arrabbiando.

“È vero.” Volsi lo sguardo al paesaggio. Non riuscivo a immaginare un luogo più desolato. “Va bene, lo farò. Devo controllare questi dati. Ma tu vedi di ricordare che ti dirò solo se c’è la possibilità che qua sotto ci sia del petrolio.”

“Ho capito.”

“E se ti dico che c’è una possibilità, hai intenzione di appurarlo da solo?”

“Forse.”

“E io cosa ci guadagno?”

“Ti pagherò.”

Quel pomeriggio me ne andai con l’aria scontenta. Le ascelle mi puzzavano per il sudore che mi erano costate tutte quelle bugie. Non sapevo esattamente quello che stavo facendo. Se mi avessero scoperto, ero quasi certo che mi avrebbero ucciso. L’immagine di quelle donne nel magazzino era rimasta indelebilmente impressa nella mia mente.

Tornai nella mia stanza al motel, chiamai mia moglie, guardai la CNN e feci un bagno caldo nella vasca assurdamente piccola.

Dal taccuino che lasciai nell’alveo del torrente accanto al magazzino:

Riguardo ai precedenti rilievi nella zona: la Sezione A è sostanzialmente un avvallamento che digrada dalle montagne della Sierra Blanca-Jicarilla. Non è strutturalmente deformata come gli altri due siti esaminati. Consiste di undici dei venti scavi esplorativi che sono stati compiuti nell’area considerata. Sei scavi nella Sezione A sono distribuiti secondo un orientamento da est a ovest per consentire deduzioni ragionevoli sulla zona.

Quattro scavi esplorativi hanno penetrato rocce ignee negli strati sedimentari del Permiano. Inoltre, quattro dei dieci scavi hanno penetrato probabilmente rocce precambriane, indicando che lo strato sedimentario è di un minimo di 450 metri e di un massimo di 740.

Paragonando i rilievi di superficie dei primi siti improduttivi e le mie osservazioni su due dei siti che ho esaminato, mi sono convinto del fatto che uno di essi appare promettente. Anche se il rilevatore non ha offerto dati incoraggianti, sono rimasto molto colpito dai microfossili portati alla luce con un modesto scavo.

Rimasi disteso nella vasca a immaginare Jeff e la sua banda che leggevano quella pagina. Decisi che il giorno dopo non sarei tornato lì.

Però andai a fare colazione a Bingham. Volevo parlare con DeLois. Fu felice di vedermi. Era presto, e si sedette nel séparé di fronte a me.

“Temevo che saresti tornato.”

“Non bastano un paio di neonazi per farmi scappare dalla paura.”

Lei inarcò le sopracciglia. “A me fanno parecchia paura.”

“Cosa sai sul loro conto?” le chiesi.

“Erano già qui quando sono arrivata, cinque anni fa. Sono in tanti. Credo vivano insieme, ma non ne sono sicura. Immagino che lavorino in una delle cave o delle miniere. Da queste parti non ci sono altri lavori che valgano la pena.”

“Come sei finita qui?” le chiesi, sperando che non sembrasse una critica. Se la interpretò così, non lo diede a vedere.

“Per un uomo.”

Annuii.

“Sono cresciuta a Socorro. Mio padre era un militare e per qualche ragione pensava fosse un buen retiro per la pensione.”

“E l’uomo?”

“Lui? Un imbecille. Aveva quindici anni più di me. Faceva l’amministratore in una delle miniere d’oro. Sembra un lavoro fantastico, eh? In realtà anche quegli stronzi dei proprietari delle miniere erano dei poveracci. Ad ogni modo, è stata la solita vecchia storia. È andato a comprare un maledetto pacchetto di sigarette e non è più tornato.”

“Mi dispiace.”

DeLois si mise a ridere. “Non è stato un dramma. Ci ho messo quattro mesi ad accorgermi che era sparito.”

“E quei tizi?”

“Perché ti interessano così tanto?”

Feci spallucce. “Semplice curiosità.”

“Immagino siano delle specie di survivalisti o qualche altra stronzata simile. Hanno spesso delle armi nelle rastrelliere delle auto, ma non è così insolito da queste parti. Però qui non c’è niente da cacciare. Strano. Hanno queste ragazze che trasportano in autobus, un vecchio autobus scolastico, tipo una volta alla settimana. Da Socorro o San Antonio, credo. Non le portano mai qui.”

“I poliziotti della contea vanno mai a dare un’occhiata?”

“Un agente passa di qui ogni tanto. A nessuno interessa quello che la gente fa lassù. A dirti la verità, non mi stupirebbe se avessero messo su un laboratorio per la metamfetamina sulle colline. E tu?”

“Non ho un laboratorio per la metamfetamina,” dissi.

Lei scoppiò a ridere. “Cosa ci fai qui? Da queste parti non c’è il petrolio.”

“Forse sì.”

Mi lanciò un’occhiata. “Hai famiglia?”

“Una moglie.”

“Niente figli?”

“Una figlia. Avevo una figlia.” Lo dissi non solo perché non volevo parlare di Sarah, ma anche perché stavo tentando di adattarmi a un mondo senza di lei.

“Mi dispiace.”

“E tu? Figli?”

“Grazie al cielo non ne ho avuti da quel bastardo. Adesso è troppo tardi.”

Mi guardò per un po’ senza dire una parola. “Sii prudente.”

“Come scusa?”

“Non ho idea di quello che hai intenzione di fare, ma stai attento. Quella è brutta gente. Mi spaventano a morte, e dovrebbero spaventare anche te.”

“Mi spaventano eccome. Starò attento, DeLois.”

un coltellino da tasca, un’incerata, una mappa, una bussola, una pala, una borraccia

Avevo detto a un’estranea, in una curiosa tavola calda sul ciglio della strada, che avrei fatto attenzione e mi sarei preso cura di me, e mi resi conto, con sconforto, di non aver avuto la stessa premura per la mia paziente moglie. Avevo lasciato Meg sola a gestire e sopportare la situazione più triste che si possa immaginare, e mi sarei trovato in grave difficoltà, se non del tutto incapace, di spiegargliene la ragione. Non la sapevo neppure io, anche se, ovviamente, in un certo senso sapevo perché ero lì. Avrei voluto che tutto quello in cui mi stavo immischiando fosse semplicemente un gioco, e ancor di più che mia figlia potesse tornare a essere se stessa per giocarlo insieme a me, pianificando le mosse come su una gigantesca tavola con sessantaquattro caselle. Riflettei sul mio amore per Sarah, e questo mi condusse a riflettere sull’amore per mia moglie. La vita, in particolare la vita degli ultimi tempi, aveva scavato un solco tra di noi. Provavo ancora amore per lei e, da questa considerevole distanza, mentre facevo i conti con la prospettiva di perdere nostra figlia, mi rifiutai di rassegnarmi all’idea che anche il nostro amore fosse perduto. Le avrei scritto una lunga e appassionata lettera di spiegazioni. Inchiostro scuro su candida carta. L’inchiostro sulla carta ripiegata era sempre meglio di un’e-mail, forse meglio di una voce al telefono o di persona. Strani simboli scarabocchiati su fogli bianchi, segni che avrebbero potuto essere privi di senso quanto capaci di dare un senso, al pari dei misteriosi microfossili che avevo esibito come indizi geologici di una storia profonda e nascosta e di una futura ricchezza.

Maggio stava per cedere il passo a giugno. I meriggi stavano diventando più caldi, ma le mattine e le sere continuavano a essere sopportabili, e persino fresche quando le nuvole affluivano in massa, gravide di temporali. Questo accadeva solitamente nel pomeriggio, ma una volta la pioggia incessante mi impedì per tutto il giorno di allontanarmi dalla mia camera nel motel. L’unica sortita fu al piccolo supermercato che si trovava un paio di chilometri più avanti sulla superstrada. Volevo prendere pane, affettati, frutta e biscotti di ogni tipo. Mentre uscivo dallo svincolo lanciai un’occhiata al minuscolo parcheggio e vidi uno scuolabus. C’era un tizio appoggiato al veicolo con l’aria di stare aspettando, impegnato in una conversazione non troppo animata al cellulare. Poteva essere uno degli uomini che avevo visto al complesso. Parcheggiai senza che mi prestasse la minima attenzione. All’interno del supermercato camminai nel reparto frutta e verdura. Riconobbi un uomo che avevo visto nel complesso, un tizio pelle e ossa che era rimasto accanto alla porta della casa. Gli passai di fianco. Forse si accorse della mia presenza, ma non se ne curò. Era impegnato a sorvegliare parecchie donne che stavano facendo acquisti. Avevano la pelle scura e avrebbero potuto mimetizzarsi nell’ambiente se non fossero state tutte vestite in pantaloni kaki e polo. Mi diressi verso l’estremità opposta del supermercato e finsi di cercare qualcosa nel reparto formaggi. Ero molto vicino a due di quelle donne.

A bassa voce, dissi: “Estoy aquí para ayudar.”

Mi guardarono e si allontanarono frettolosamente.

Avvicinai altre due donne. Mi sentivo come un molestatore alle prime armi. Adesso il tizio magro non poteva vedermi, e dissi di nuovo quelle parole.

Una delle due donne si voltò a fissarmi. Era terrorizzata.

“Lo siento,” dissi.

Continuò a tacere, ma non scappò. Si voltò verso l’ingresso del supermercato, e poi di nuovo verso di me.

Tirai fuori dalla tasca il primo biglietto, e lo tenni aperto nel palmo della mano affinché lo vedesse. “Me l’avete mandato voi?” chiesi.

Sembrava che potesse mettersi a urlare da un momento all’altro. Tesi la mano per calmarla. Mi voltai per andarmene, non volendo spaventarla ulteriormente.

“Espera,” bisbigliò.

Mi girai di nuovo verso di lei. Fu allora che la voce del tizio pelle e ossa stridette nella corsia. “Ehi, datevi una mossa, chicas.” Il modo in cui disse chicas fece sembrare quella parola aspra e ingiuriosa.

“Rosalita Gonzalez,” disse lei sottovoce, e poi aggiunse: “Ciudad Juárez.”

“Andiamo,” gridò il tizio pelle e ossa.

La donna mi voltò immediatamente le spalle per dirigersi verso la cassa. La sua compagna le sussurrò qualcosa che non riuscii a sentire, ma la donna con cui avevo parlato la zittì in modo piuttosto palese. Mi affrettai a prendere quello che mi serviva nella speranza di trovarmi dietro di lei nella coda alla cassa, ma quando arrivai lì erano già uscite e gli uomini le stavano facendo salire sull’autobus.

Li guardai allontanarsi mentre pagavo.

“Quindici e cinquantatré,” disse il cassiere.

Gli diedi un biglietto da venti dollari. “Che scena surreale,” dissi.

“Quale?”

“Tutte quelle donne vestite a quel modo.”

Lui fece spallucce e mi diede i biglietti mentre il resto in moneta sgusciava fuori dalla macchinetta accanto a me. “Vengono tutte le domeniche. Sarà un gruppo religioso di qualche tipo, immagino.”

“Gli uomini che erano con loro sembravano piuttosto tosti,” osservai.

“Possibile,” rispose l’uomo. Guardai i suoi tatuaggi, e mi resi conto che non aveva un aspetto così diverso da quello dei tizi del complesso.

“Voglio solo dire che non sembrano i classici tipi da chiesa.”

Mi rivolse uno sguardo vacuo. Forse annuì. In ogni caso, caddi in preda al disagio e all’ansia.

Mi diressi a nord, verso la centrale di polizia al margine meridionale di Socorro. Si trovava su una strada d’accesso parallela alla superstrada e sembrava quasi un negozio di ferramenta. Nell’ufficio c’erano due agenti, entrambi bianchi, con un’inquietante somiglianza con Jeff e Roger.

“Cosa possiamo fare per lei?” mi chiese quello con i baffi. Era seduto, ma occupava un sacco di spazio in orizzontale.

“Non saprei dirlo con certezza,” risposi. Ero restio a spiegare il motivo della mia presenza, non perché temessi fossero complici o simpatizzanti dei nazisti che avevo incontrato, ma perché la mia storia sembrava semplicemente una follia. I biglietti nascosti negli abiti ordinati su eBay, un paleontologo travestito da geologo petrolifero accampatosi a spiare i loro vicini per smascherarne l’attività schiavistica. Era stata una pessima idea venire lì. Il mio silenzio attirò l’attenzione del secondo poliziotto.

“Signore?”

“Mi stavo chiedendo quanto ci vorrà ad arrivare a El Paso da qui.”

I due si scambiarono un’occhiata.

Il baffo disse: “Più o meno tre ore.”

“Altro?”

“Signore, come si chiama?”

“Grazie,” dissi.

“Mi scusi,” mi incalzò il baffo. “Forse dovrei appuntarmi il suo nome.”

“No, grazie.” Uscii. Ero sicuro che uno di loro, e forse anche l’altro, mi stesse osservando.

Il baffo mi seguì fuori dalla centrale e mi guardò mentre salivo in auto. Non mi era piaciuta la sua postura, il modo in cui sembrava sporgersi verso di me. Non mi era piaciuta la sua voce. Mi aveva fatto paura, ed era una cosa che non mi piaceva.

Quand’ero a metà strada verso l’auto, le cateratte del cielo si aprirono, inzuppandomi da capo a piedi. Rimasi seduto al volante ascoltando la pioggia che martellava il tettuccio. “Ciudad Juárez”, aveva detto la donna nel supermercato. Cos’aveva tentato di farmi capire? Sapevo che la città si trovava appena al di là del confine da El Paso, e adesso sapevo di poterla raggiungere in sole tre ore sull’interstatale. Senza avere la minima idea di cosa stessi cercando, mi diressi a sud.

un coltellino da tasca, un’incerata, una mappa, una bussola, una pala, una borraccia, un poncho

Attraversai il ponte verso il Messico, passando da una città americana piuttosto grande a una grande città messicana. Accostai sul ciglio della strada e rimasi seduto lì. Provavo sempre, o almeno immaginavo di provare, una strana sensazione quando mi trovavo in terra straniera, forse una specie di euforia, forse la promessa di qualcosa di insolito. Non potei negare di provarla anche mentre me ne stavo seduto lì, ma ebbe vita breve. Rosalita Gonzalez. Quante donne chiamate Rosalita Gonzalez dovevano esserci in Messico, a Ciudad Juárez? Non avevo idea di cosa stessi cercando, e neppure del perché. Che diavolo, non sapevo neppure cos’avessi fatto in New Mexico per quasi due settimane. Sapevo che stare lontano da casa era un atto di codardia.

Un poliziotto accostò dietro di me, scese dall’auto e si avvicinò al mio finestrino.

“Salve, señor,” disse. “Ha bisogno di aiuto?” mi domandò in un discreto inglese.

“No, agente. Stavo solo riflettendo.”

“Temo che dovrà riflettere altrove. Questa è una zona molto trafficata. Lei rappresenta un pericolo per il traffico qui.”

“Potrebbe dirmi come raggiungere la centrale di polizia?” gli chiesi.

“Ha un problema?”

“No, ho solo bisogno di andare in centrale.”

“Vuole la polizia municipale, la polizia statale o i federales?”

Non ci avevo ancora riflettuto. “I federales, credo.”

Mi diede le indicazioni. Non era vicino. “Lasci l’auto in un parcheggio,” disse.

“Va bene.”

“Se sosta troppo a lungo sulla strada, un agente come me le staccherà la targa dall’auto.”

“Gli americani hanno il vizio di ignorare le multe per la sosta vietata e tornarsene semplicemente a casa.”

“Parcheggio. Grazie.”

“Tutto bene, señor?”

Annuii. “Grazie.”

Seguii le indicazioni che mi aveva dato, con il mio paese visibile per quasi tutto il tragitto sulla sinistra, finché la strada non deviò a destra, lontano dal Rio Grande. Un’altra svolta a sinistra ed ero al quartier generale della polizia federale. Seguii il suo consiglio e pagai venticinque centesimi per sostare in un parcheggio. L’edificio non era del tutto anonimo, ma non aveva nulla di peculiare che valga la pena di descrivere. All’interno non trovai l’andirivieni che mi aspettavo. Non c’era un bancone, ma una scrivania dietro cui sedeva una donna minuta in abiti civili.

“Posso aiutarla?” mi chiese la donna in inglese.

Stranamente mi infastidì che bastasse un’occhiata per capire che ero americano. “Vorrei parlare con qualcuno di una persona scomparsa,” dissi.

Lei mi osservò con diffidenza e prese una penna. “Chi è la persona scomparsa? E dov’era quando ha perso i contatti con lei?”

“Non ho perso i contatti con nessuno,” risposi.

Mi interrogò senza aprire bocca.

“Credo di aver trovato qualcuno.” Spinsi lo sguardo al di là di lei, verso un’ampia scalinata. Gli uomini in uniforme che passavano non mi degnarono di uno sguardo. “Con chi dovrei parlare, del fatto che ho trovato una persona? Non sono sicuro che sia scomparsa, ma credo di sì. Non potrei semplicemente venire ricevuto da qualcuno?” Stavo parlando troppo, e mi accorsi che stentava a seguire il mio discorso in inglese.

“Prego, si sieda lì,” disse, recitando evidentemente una formula standard. Indicò alcune sedie di legno allineate contro una parete. Non c’era nessuno seduto. “Vedo se riesco a trovarle qualcuno.”

In breve tempo si accomodarono su quella fila di sedie due uomini, che avevano l’aria di essere insieme, e una donna con un bambino piccolo, non capivo se maschio o femmina. Dopo una mezz’ora buona, o forse quaranta minuti, stavo per tornare dalla donna alla scrivania quando un uomo alto e dai tratti spigolosi incrociò il mio sguardo mentre scendeva le scale. Indossava una camicia di un blu scuro con una grossa stella a sei punte ricamata sul cuore. Notai che i suoi stivali neri in fondo ai pantaloni blu scuro erano estremamente lucidi. Mentre si avvicinava mi alzai in piedi.

“Sono il tenente Deocampo.”

“Zach Wells.” Gli strinsi la mano.

“Come posso aiutarla?”

“Non saprei dirlo con esattezza,” risposi.

“Mi hanno detto che crede di aver trovato una persona. Posso chiederle cosa intende?” Diede un’occhiata all’orologio.

“Possiamo sederci da qualche parte?”

Non sospirò, ma fu come se l’avesse fatto. “Venga con me.”

Lo seguii sulle scale e lungo un corridoio affollato fino a una piccola stanza rettangolare che non era il suo ufficio. Avrebbe potuto essere una sala per gli interrogatori, ma sembrava in qualche modo troppo accogliente, e c’era una finestra.

“La prego, si accomodi, signor Wells.”

Lo feci, e guardai il cielo limpido fuori dalla finestra.

Deocampo si sedette di fianco a me. “Allora, signor Wells?”

“A quanto ho capito qui sono scomparse molte donne.”

“È vero. È una triste realtà.”

“L’altro giorno ho conosciuto una donna. Ha detto di chiamarsi Rosalita Gonzalez. Immagino sia un nome molto comune.”

“Molto comune.”

“Mi sono fatto l’idea che potrebbe essere una delle donne scomparse.”

“Cosa glielo fa credere?” mi chiese.

“Ho incontrato questa donna in un supermercato nel New Mexico. Mi ha detto il suo nome e ha accennato a Ciudad Juárez.”

“Non è certo un motivo sufficiente per pensare che sia scomparsa.”

“Credo che la tengano prigioniera.”

“L’ha incontrata in un supermercato?”

“Era sorvegliata.”

“Capisco. Perché non si rivolge alla polizia nel New Mexico? Sono un pubblico ufficiale in Messico. Non ho alcun potere negli Stati Uniti.”

“Certo.” Mi sentii un idiota. Non avevo idea del perché fossi seduto insieme a lui in quella stanza. Espirai e insistei. “Magari lei può dirmi una cosa. È stata denunciata la scomparsa di una certa Rosalita Gonzalez?”

Deocampo mi fissò per lunghi istanti. Attraversò la stanza per sedersi a un tavolino con un computer vecchissimo. Lavorò lì per qualche minuto, poi si fermò e osservò lo schermo in silenzio.

“La scomparsa di Rosalita Gonzalez è stata denunciata tre anni fa. Allora aveva ventitré anni.”

Non dissi nulla.

“Lei sa quante Rosalita Gonzalez ci sono in Messico e negli Stati Uniti?”

“Parecchie,” risposi.

“Quanti anni aveva questa donna?” chiese Deocampo.

“Difficile dirlo,” risposi. “Poteva avere ventun anni come quaranta.”

“Sono un poliziotto messicano, signor Wells.”

“Lo so.”

“Trecentosei,” disse.

“Come, scusi?”

“Trecentosei. Il numero di donne uccise o scomparse, in genere uccise.”

Annuii.

“Non posso aiutarla. Torni a casa.”

un coltellino da tasca, un’incerata, una mappa, una bussola, una pala, una borraccia, un poncho, una pista

In effetti volevo tornarmene a casa. Però gli dissi: “Devo sapere. Questa persona mi ha chiesto di aiutarla.”

“Davvero?”

“Sì.” Guardai l’agente negli occhi e mi resi conto di quanto sfiniti dovessero sembrare i miei. “C’è una fotografia di questa donna?”

Le sue spalle si afflosciarono mentre si appoggiava allo schienale della sua sedia.

“Lei cosa fa di lavoro, signor Wells?”

“Il docente universitario. Sono un paleontologo.”

Deocampo inarcò le sopracciglia.

“Studio i fossili.” La lingua stava diventando un ostacolo. “Dinosaurios.”

“Davvero? Mio figlio li adora.”

Annuii.

“Lei ha dei figli, signor Wells?”

“Ho una figlia.”

“Dovrebbe tornare a casa da lei.”

“Qualcuno ha bisogno di aiuto.”

“È davvero convinto che questa donna sia prigioniera,” disse, più a se stesso che a me. “Mi segua.”

Il tenente Deocampo mi accompagnò fuori dalla stanza, scendendo l’ampia scalinata che mi ero trovato davanti appena arrivato, procedendo lungo un largo corridoio fiancheggiato da ritratti di uomini in uniforme fino a un andito più angusto per scendere poi un’ultima rampa di scale. Aprì una porta massiccia, ma non chiusa a chiave, e mi fece cenno di entrare per primo. All’interno dell’ampia sala c’erano casse su casse, scatole impilate e un’intera parete di schedari che andavano dal pavimento al soffitto, tutti appoggiati contro i muri dipinti di quel verde pallido che si trova nei vecchi ospedali.

“Ecco che aspetto hanno trecentosei donne morte o scomparse,” disse.

Non dissi niente. Non c’era niente da dire.

Mentre camminava fece scorrere il dito lungo la superficie degli schedari. “Ecco,” disse. Estrasse il secondo cassetto dall’alto e trovò la cartellina verde che cercava, la aprì e la tese per mostrarmela. “Rosalita Gonzales,” disse.

Osservai la fotografia. Era vecchia, sciupata sul bordo inferiore. Ritraeva una donna in piedi davanti a una casetta accanto a una donna più anziana. La giovane teneva in braccio un cagnolino, forse un pechinese.

“È lei la donna che ha visto?”

“Non saprei dirlo,” risposi, allungando la mano e toccando la fotografia con la punta dell’indice destro. Seguii il profilo del suo volto, sfiorai il cane. “L’ho vista una volta sola, e questa fotografia non è molto chiara.”

Deocampo chiuse la cartellina. “Lei sembra un brav’uomo,” disse. “Questa vicenda ha creato molto dolore nella nostra città. È facile illudere la gente con falsa speranza. È così che si dice?”

Annuii. Non vedevo la necessità di correggerlo su una simile inezia, e neppure su qualcosa di più rilevante.

“Non è possibile che la polizia del New Mexico le presti ascolto?”

Mentre lo diceva, mi domandai perché non mi fossi rivolto alla polizia del New Mexico. Forse non l’avevo fatto perché li vedevo come dei bianchi ma, a essere sincero, mi avevano fatto paura, sembrandomi troppo simili agli uomini che stavo denunciando. Era però più probabile che non l’avessi fatto perché non avevo una storia credibile da raccontare.

“Ce ne sono altre,” dissi. “Credo che dei bianchi le stiano tenendo prigioniere. Schiave.”

Deocampo rimise la cartellina nello schedario e richiuse il cassetto. Lasciò la mano poggiata sulla maniglia.

“Dubito che la polizia americana mi crederebbe. Penso che la mia storia sembri una follia. È questo che sembra, no?”

“Non è così folle. Lei è convinto di aver visto una donna scomparsa. Capita tutti i giorni. Qui sparisce una donna tutti i giorni.”

“Cosa dovrei fare?” chiesi.

“Lei dove abita?”

“A Los Angeles.”

Mi guardò, pensai, come se quell’informazione l’avesse aiutato a farsi un’idea più accurata di tutta quella storia e di me. “Torni a casa, signor Wells. Vada da sua figlia.”

“Non chiamerà nessuno, vero?”

Deocampo diede un’occhiata al suo orologio. “Quanto tempo ha? Ha tempo per un giro in auto? Un’ora?”

“Certo.”

Qualcuno diceva che nell’arco di una ventina d’anni erano morte o scomparse trecento giovani donne. Altri dicevano che erano quasi settecento. La gente fa così con i numeri. Dice che non sono settecento ma solo due o trecento, come se cento non fosse un numero terribile, così come cinquanta, o venticinque. Nessuno sapeva chi avesse ucciso o rapito queste persone. Forse i cartelli della droga, diceva qualcuno. Magari bande erranti di predatori sessuali. Adoratori del diavolo. Magari invasori dallo spazio. Uomini. Erano uomini. Erano sempre uomini. Sempre uomini.

Le cifre erano enormi, oscene, fescennine. Olga Perez. Centinaia di donne non hanno un nome. Edith Longoria. Centinaia di donne non hanno un volto. Guadalupe de la Rosa. Nomi. Nome. María Najera. Era così semplice, sicuro, facile parlare di cifre a El Paso, in un altro mondo. Nessuno sente la mancanza di cinquecento persone. Nessuno sente la mancanza di cento persone. A Juárez, era una persona. Una figlia. Un’amica. Un volto. Un nome. Qualcuno sente la mancanza di una persona. Magari di Rosalita Gonzalez.

L’auto di Deocampo era blu reale, fine anni ottanta, una Buick berlina, immacolata come il giorno in cui era uscita dalla catena di montaggio. Persino i tappetini parevano intonsi. Mi ripugnava l’idea di poggiarci i miei scarponi. Il tenente notò che mi ero irrigidito.

“Non si preoccupi,” disse. “Poi pulirò i tappetini. Li lavo tutte le settimane.”

“Si vede.”

“A mia moglie piace l’auto pulita. E la casa pulita. E il marito pulito.”

Il percorso ci riportò lungo il fiume da cui ero venuto. Il pomeriggio era diventato fastidiosamente caldo, ma il tenente non parve scomporsi nonostante la camicia abbottonata fino al collo e la cravatta. Svoltò a sinistra e percorremmo un tratto in salita attraversando un’area industriale che aveva visto tempi migliori. Fermò l’auto e scendemmo. Lo seguii oltre una banchina di carico di un’azienda defunta da tempo fino a un cortile pieno di metallo rottamato e cumuli compatti di terra riarsa. Da lì dominavamo una distesa di modeste abitazioni, quasi tutte a un piano solo e con cortili grandi come francobolli. Dall’altra parte del fiume svettavano i palazzi di El Paso.

“Qui abbiamo trovato i cadaveri di otto donne,” disse Deocampo. Diede un calcio alla terra con i suoi stivali lucidi. “Questa è la realtà che affrontiamo ogni giorno. Non so mai quando squillerà il telefono e dovrò andare a cercare un cadavere. Le famiglie vengono tutte le settimane con storie e fotografie. Non ho tempo di seguire tutte le piste che ho qui, tanto meno di pensare a quello che succede dall’altra parte del confine. C’era una testa proprio dove adesso lei ha posato il piede.”

Abbassai lo sguardo e mi spostai di lato.

Guardai la città, relativamente sicura, di El Paso. Sembrava Oz.

“Cosa potrebbe fare se le portassi qui Rosalita Gonzalez?”

“Signor Wells, torni in California. Faccia denuncia alla polizia del New Mexico e poi vada a casa da sua figlia.”

Mentre tornavamo al quartier generale, Deocampo fece una deviazione, fermando l’auto nel centro della città, su Avenue 16 de Septiembre.

“Perché ci siamo fermati qui?” gli chiesi.

Indicò un grande edificio a tre piani. “Lo vede quello?”

Guardai il palazzo.

“I primi due piani sono un bordello.”

“La ringrazio, ma sono a posto.”

“Al terzo piano c’è il cartello, con i suoi uffici.”

“Un cartello della droga?”

“Esatto, un cartello della droga.” Si mise una sigaretta tra le labbra, senza però accenderla. “Ecco cos’abbiamo di fronte quaggiù. Il cartello ha i suoi uffici. Voi avete la guerra alla droga, noi le pallottole che ci sparano. È un delirio. A Ciudad Juárez danno la caccia alle donne. Una volta non era così. Forse un giorno non sarà più così.”

“Mi dispiace.”

Deocampo si strinse nelle spalle. “Vada a casa. Lei non può salvare nessuno. Io non posso salvare nessuno. Torni a casa dalla sua famiglia.”

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1 Verso iniziale di un’antica filastrocca per bambini, in cui a ogni strofa si aggiunge un nuovo dono al vecchio soldato. (N.d.T.)