Camaïeu

Tornai a casa da mia figlia.

Ero stato via solo per qualche settimana, ma l’estraneità della casa al mio ritorno mi diede la sensazione di essere rimasto lontano per anni. Come un vigliacco che torna con passi furtivi sul campo di battaglia, trovai tutto quello che mi aspettavo, ma immerso in una luce insolita, con ombre strane e inconsuete. Quando vidi il volto di Meg, mi chiesi se mi avrebbe rivolto di nuovo la parola, ma lo fece, perché la sua compassione, il suo amore, le consentivano di capire che il mio dolore non era meno profondo e intenso del suo, che ciascuno di noi doveva affrontarlo a proprio modo. La mia assenza l’aveva però defraudata della possibilità di scappare come avevo fatto io, di nascondersi dal mondo che ci era stato dato.

Mi pose una domanda piuttosto ragionevole. “Dove sei stato?”

“Te l’ho detto, nel New Mexico.”

“Cosa ci facevi lì?”

Risposi con sincerità. “Non lo so.”

Lei annuì.

“Sarah sta dormendo?”

“Sì. Si è addormentata senza difficoltà.”

“Ha chiesto di me?”

“No.” Bastò quella semplice risposta ad abbattermi, ma un sì sarebbe stato altrettanto devastante.

“Attacchi?”

“Un paio al giorno. Ne ha avuto uno abbastanza grave due giorni fa. Gli altri sono stati lievi. Le solite assenze.” Meg cominciò a piangere.

Rimasi seduto sul divano accanto a lei, stringendola a me. Ci riavvicinammo con una dolcezza smarrita da molto tempo.

Progressi straordinariamente veloci. Fu così che la dottoressa Gurewich descrisse il decorso della malattia di mia figlia. Sembrava la promessa di una scuola privata. Progressi straordinariamente veloci. Era come precipitare. “Demenza in rapido avanzamento,” la definì Gurewich, che sembrava farsi più distante e distaccata a ogni visita. Sarah non sapeva di essere sull’orlo di un dirupo, e le era bastato fare qualche passo per scomparirvi. Ma era anche lì, presente insieme a me, nel tempo e nello spazio, nello stesso corpo, addormentata mentre stavo seduto sulla poltrona accanto al suo letto. Stava sopraggiungendo il mattino, e le tapparelle erano alzate per lasciar entrare la nuova luce. Lei era ancora bella, come sarebbe stata per sempre. Quel mattino si svegliò e mi riconobbe. Anche se nulla indicava che mi avesse riconosciuto, non si era ritratta come davanti a un estraneo. Si lasciò accompagnare in bagno. Le diedi le spalle mentre si sedeva sulla tazza e faceva la pipì. Il rumore della sua urina cessò, e colsi la sua frustrazione con la carta igienica. Quando mi voltai la vidi armeggiare con il rotolo; non riusciva a strappare la carta. Chiamai Meg, ma poi mi ricordai che era andata alla lezione di yoga, avendo finalmente un po’ di tempo da dedicare a se stessa. L’infermiera non era ancora arrivata. Sarah mi guardò, forse per chiedere aiuto. Strappai qualche foglio e pulii la vagina di mia figlia. Quand’era piccola, le avevo cambiato spesso il pannolino, assicurandomi di asciugarla tra le sue minuscole pieghe. Non mi ero mai sentito tanto imbarazzato, tanto spaventato, tanto inadeguato in tutta la mia vita, anche se stavo compiendo questo gesto così intimo per la persona che mi era più cara. Sentirmi così vicino a lei, e al tempo stesso così strano e bizzarramente in colpa, mi lasciò confuso e disorientato. Prima di gettare la carta nella tazza le diedi una rapida occhiata. Aveva una sfumatura rosata.

Se mia figlia aveva già avuto un ciclo, non ne ero al corrente. Era una di quelle cose di cui in quanto padre dovevo essere consapevole pur restandone serenamente all’oscuro. Ed eccomi lì a pulire la vagina della mia bambina, cancellando le prove della sua maturità di donna. Non sapevo cosa fare. Non c’erano assorbenti in vista nel bagno, e così ripiegai un fascio di carta igienica e glielo misi nelle mutandine mentre le infilavo. Dopo averle sollevato i pantaloni del pigiama tirai l’acqua, e lei mi guardò sorridente.

“Tutto bene?” mi chiese, e parve sorprendentemente padrona di sé.

“Sì,” risposi. “Che ne dici di fare colazione?”

“Non mi dispiacerebbe.” Mi sembrò di nuovo decisamente più grande, diversa dalla bambina che ricordavo, e tuttavia non avevo motivo di presupporre che sapesse chi ero.

“Sai chi sono?” le chiesi.

Ignorò la domanda.

Le misi la vestaglia e ci spostammo in cucina, dove preparai due scodelle di latte con i cereali. Restammo seduti a tavola l’uno accanto all’altra, davanti alla finestra e al panorama delle colline. Sarah riuscì a portarsi un paio di cucchiaiate alla bocca, e poi smise di mangiare, credo per il timore di riprovarci. Le mani la stavano tradendo di nuovo.

Basil si avvicinò e premette il capo contro la gamba di Sarah. Lei abbassò una mano e lo grattò distrattamente dietro l’orecchio. Un gesto automatico che rivelava la persona dentro il guscio. Ne fui intenerito, e rattristato.

“Ho un’idea,” dissi. “Torno subito.” Mi alzai e andai nello studio, dove presi la scacchiera e i pezzi. Tornato in cucina, fui felice di vedere che Sarah aveva riconosciuto quegli oggetti. Anche se li maneggiava in modo maldestro, riuscì a disporli correttamente. Mosse per prima. La partita procedette in modo prevedibile e prudente finché non tentò di usare un cavallo. Lo afferrò e lo tenne sospeso sopra la scacchiera, posandolo infine lontano da tutte le caselle regolamentari.

Non dissi nulla, non la corressi e feci la mia mossa.

Adesso lei era da qualche altra parte. Forse stava avendo un attacco, ma non ne ero sicuro. Rimasi seduto lì con lei, osservandola, notando un lieve tremore alla sua mano destra.

“Tocca a me muovere?” chiese.

“Sì.”

“Sono stanca. Daniel ha lavato il pavimento ieri.”

“Davvero?” Guardai il pavimento. Non sapevo chi fosse Daniel, ma il pavimento aveva bisogno di una passata. “Ha fatto un ottimo lavoro,” mentii.

“È stato Daniel.”

de dicto/de re

Fra tutti i mondi possibili, era in questo che ero approdato. Mi chiedevo come passassero gli anni per i genitori che avevano perso un figlio, come questi genitori affrontassero i compleanni, i giorni del Ringraziamento. La mia figlia immaginaria sarebbe cresciuta nei miei sogni? Si sarebbe diplomata alle superiori e sarebbe andata all’università? Avrebbe avuto dei figli? La mia figlia immaginaria si sarebbe seduta al mio capezzale quando sarei stato in punto di morte, dandomi la possibilità di ringraziarla per la perfezione che aveva donato al mio mondo? Nonostante la brevità del tempo che avevamo trascorso insieme. Mia figlia appariva in tutti i miei sogni notturni, e prevedevo il disprezzo per me stesso e il senso di colpa che avrei provato anni dopo, quando avrebbe mancato di apparire, o meglio, quando avrei mancato di evocarla.

de se

Meg entrò in casa dalla porta della cucina portando un vassoio con due caffè e un sacchetto di bagel. “Be’, guarda un po’ chi si è già svegliato,” disse.

Sarah si alzò e andò incontro a Meg. “Grazie,” disse, prendendo i bagel.

Abbassai lo sguardo sulla sedia accanto a me e notai il cuscino intriso di sangue. “Abbiamo un piccolo problema,” dissi.

In quel momento Sarah volse le spalle a Meg per spostarsi al bancone della cucina. Meg vide i suoi pantaloni macchiati di sangue.

“Non sapevo esattamente come gestire la cosa,” dissi.

Meg posò le mani sulle spalle di Sarah e tentò di condurla con delicatezza fuori dalla stanza. Sarah oppose resistenza, divincolandosi e scuotendo il capo. Meg ci riprovò.

“No,” disse Sarah. Si piegò leggermente su di sé, forse per i crampi. Non sapevo.

Gli occhi di Meg si riempirono di lacrime. Ci riprovò.

Mi alzai, senza però avvicinarmi.

Sarah mi guardò. Stava tremando. “Cos’hai intenzione di fare?” mi chiese. Mi parve così spaventata che venne da piangere anche a me.

Meg tentò di confortarla. “Va tutto bene, tesoro. Dobbiamo solo tornare in bagno. Lì saremo più comode. È una buona idea, no?” Non la spinse né tirò, carezzando invece il viso di Sarah. “È una buona idea?”

Sarah annuì.

Rimasi seduto al tavolo come un volatile ottuso. Un piccione, magari, o un pollo. Riflettei sulla mia bella figlia che viveva questa tappa nel suo sviluppo fisico senza essere minimamente consapevole del proprio corpo e di sé, senza le annesse paure che avrebbe potuto provare in un mondo più normale, mentre la sua comprensione delle verità più basilari e scontate sulla vita quotidiana si incrinava non solo ai margini, ma dal centro, espandendosi come una ragnatela, crescendo e collegando una distruzione alla successiva. Mia figlia, una piccola vita sulla scena del mondo, del tempo, era tuttavia la stella intorno a cui orbitava il mio pianeta. La mia fonte di gravità, di calore e di luce si stava sgretolando, e lo stesso accadeva a me, senza che potessi aiutarla, e neppure stabilire con lei un contatto che mi consentisse di scusarmi, dirle addio o esprimere il mio amore. Forse non esisteva il paradiso che tanti sciocchi propagandavano, ma esisteva senza dubbio un inferno, e aveva un odore di sangue, di cereali freddi e di cane.

Chiamai a me Basil e mi feci consolare da lui. Posando il mento sulla mia coscia mi fece capire che anch’io lo stavo confortando. Portai il cuscino macchiato in lavanderia.

Meg rientrò in cucina con Sarah, che aveva indossato abiti puliti, un paio di pantaloni della tuta e una maglietta gialla. Mia figlia tornò sulla sedia di prima, adesso priva del cuscino, e giocherellò con i pezzi sulla scacchiera con l’aria di non avere idea di una partita in corso o della possibilità di farne un’altra.

Scostai una sedia per Meg e mi riaccomodai al posto di prima.

“È stata la sua prima volta,” disse. Non stava piangendo, ma l’espressione sul suo volto avrebbe potuto accompagnare un lamento.

“Chi è Daniel?” chiese.

“Daniel?”

“Sarah ha detto che Daniel ha lavato il pavimento.”

Meg si strinse nelle spalle. Cos’altro avrebbe potuto fare? Questi comportamenti erano in linea con quanto ci aveva spiegato la dottoressa. Ci aveva detto che avrebbero potuto verificarsi anche accessi di rabbia o paranoia. Il solo pensiero mi gettava nel panico.

“A che ora arriva l’infermiera?” chiesi.

“Oggi non viene. Ha chiamato per dirci che ha un’emergenza.”

“Meglio così,” dissi. “Sarò a casa tutto il giorno. Puoi uscire se hai delle faccende da sbrigare.”

“Gli assorbenti sono nel nostro bagno,” disse lei.

“Cosa?”

“Assorbenti. Per Sarah.”

“Va bene.”

Meg annuì e si voltò a guardare fuori dalla finestra. Su un ramo della jacaranda c’era una ghiandaia di Steller. Era insolito che venissero fin quaggiù.

In certi periodi la vita sembrava semplice e lenta, o semplice e veloce, in qualche modo estranea al mondo degli adulti, ma adesso tutto sembrava così difficile, così reale, ogni gesto una fatica e un mistero, anche se, stranamente, non c’era azione che paresse sbagliata. Come avrebbe potuto peggiorare la situazione? Simile a un grande felino, scrutavo il volto di mia figlia in cerca di un barlume di gioia o di semplice riconoscimento, pronto a balzarvi addosso e a ghermirlo.

fac et spera

Passai la giornata a tentare di tenere in vita mia figlia. Era proprio come quando l’avevamo portata a casa, neonata. Mi sembrava incredibile che quelli dell’ospedale ci avessero permesso di andarcene con quella bestiolina. Si assicurarono che avessimo un seggiolino sull’auto, ci fornirono un passeggino economico e ci lasciarono andare per la nostra strada. Mi sembrava anche incredibile che Meg stesse camminando, per poi mettersi sul sedile posteriore con la neonata e allacciarsi la cintura di sicurezza dopo aver spinto una persona fuori dal proprio corpo. Era tutto così surreale. Continuò a essere surreale quando arrivammo a casa. La surrealtà svanì o divenne normalità mentre i giorni passavano e noi ci abituavamo, ma adesso era tutto più surreale che mai.

Ci sedemmo in vari posti in casa. Le lessi qualcosa. Guardammo cartoni animati per cui Sarah era diventata troppo grande, senza che fosse chiaro se li stava guardando o era in preda a un attacco. Riuscii persino a guidarla in una breve camminata su un sentiero corto e agevole ai piedi della montagna. Quando rientrammo, un po’ accaldati e sudati per l’afa della prima estate, la lasciai in cucina mentre andavo a fare due gocce. Restai lontano soltanto un minuto. Quando tornai trovai Sarah seduta sul pavimento, che faceva le coccole a Basil. Quella vista mi fece provare un barlume di felicità. Poi sentii un ronzio. Proveniva dal forno a microonde. La luce era accesa, e attraverso il vetro vidi una tazza piena di forchette che ruotava in senso orario. Non so se vidi una scintilla, ma di sicuro ne immaginai una, se non molte, mentre mi precipitavo ad aprire lo sportello. Il cuore mi batteva all’impazzata.

Mi parve di sentire Sarah che diceva “papà”. Tuttavia, quando mi voltai era ancora assorta nelle carezze al cane e non dava neppure segno di essersi accorta della mia presenza. Quella parola uscita dalle sue labbra era stata la musica più bella della mia vita, e in quel momento capii che probabilmente non l’avrei più sentita.

Meg tornò a casa. Passammo una giornata tranquilla con nostra figlia. Dissi a Meg del forno a microonde, e capimmo di non poter più lasciare Sarah neanche un minuto da sola. Mangiammo. Andammo a letto. Noi due, Meg e io, restammo distesi l’uno accanto all’altra, senza nulla da dire. Non c’era nulla da dire. Finché Meg non disse la cosa giusta.

“Ti amo,” disse.

“Grazie,” risposi. “Anch’io ti amo.”

Nel mio sogno, Hilary Gill stava fumando una sigaretta, ma evidentemente non se la stava godendo. Faceva una smorfia a ogni boccata e tossiva quando esalava nuvolette azzurre che sprofondavano fino alle sue ginocchia coperte dalla gonna. Il fatto più degno di nota era forse che fosse viva, un aspetto che non sfuggiva alla Hilary Gill del sogno.

“Perché un chiodo nella porta?” domandò. Stava armeggiando con il computer che teneva in grembo, tentando di regolare lo schermo in modo da vederlo meglio.

“Cosa?” le chiesi.

“Un chiodo nella porta? Cosa c’entra con la morte? ‘Morto come un chiodo nella porta,’ si dice.2 E ad ogni modo, cos’è il chiodo di una porta?”

“È un lungo chiodo che un tempo veniva usato per fissare tra loro diverse parti di una porta,” risposi. Ero seduto a un tavolo, non lontano da lei. Mi accorsi con stupore di aver parlato.

“Cosa c’entra con i morti?” chiese lei. “O con la morte?”

“Veniva infilato fino in fondo, martellando la capocchia fino a conficcarla nel legno in modo che non potesse venir estratta, e per questo si definiva ‘morto’.”

“Che sciocchezza,” disse lei.

“Be’, questo è quanto.”

“Il lavoro sul campo è la parte migliore, non ti pare?” chiese Hilary Gill.

“La parte migliore di cosa?” domandai io.

“Di quello che facciamo. Sì, insegnare non è male, solo un po’ sfiancante, tedioso. La roba amministrativa è abbastanza semplice ma monotona. Le attività collegiali deve averle inventate Stalin, ne sono certa. E pubblicare tanto per pubblicare è perverso. Chi cazzo se ne frega di questa roba? Cambia forse qualcosa per qualcuno?”

“Credo di sì. È tutto parte di una conversazione, no?” Mi sentivo come un bambino con gli occhi sgranati, e forse lo ero.

Hilary Gill scoppiò a ridere. “Non avrei mai immaginato che fossi così ingenuo.” Tirò una lunga e vigorosa boccata dalla sigaretta e fece di nuovo quella smorfia. “Mi dispiace per tua figlia.”

Mi strinsi nelle spalle.

“Avresti dovuto scopare con me quando ne hai avuta l’occasione.”

“Cosa?”

“Avresti dovuto scopare con me. Adesso ti sentiresti davvero una merda, anche più di così. Oltre a stare perdendo tua figlia, ti sentiresti in colpa per avermi spinta al suicidio scopando con me e poi smettendo di farlo. Una tempesta perfetta del senso di colpa.”

“Non ho mai desiderato scopare con te,” dissi.

“Non è un problema ammetterlo.”

“Non ho mai desiderato scopare con te,” ripetei.

“Così mi mortifichi,” disse lei, mentre una nuvoletta azzurra le usciva dalle labbra per poi fluttuare verso il basso. “Non sorprende che mi sia uccisa. Capisci cosa intendo?”

“Credo di sì.”

Schiacciò la sigaretta sul palmo senza fare una smorfia. “E perché Lisbona si meritò un simile trattamento e un tale strazio?” disse. “Come Voltaire, disprezzo un dio del genere. Al diavolo Leibniz, quel leccapiedi. Qual colpa han commesso? Questo, il migliore di tutti i mondi possibili. Tutto è bene. Dio sa. È un mistero. La sua volontà. Ah! Un padrone di casa assente, tutt’al più. Gli infanti schiacciati e insanguinati sul materno seno?”

Ascoltavo la defunta Hilary Gill nel sogno ed ero disposto ad accettarla come fantasma nel mio mondo, anche se non avevo idea di cosa stesse dicendo. Ad ogni modo, essendo il mio sogno, la mia costruzione, dovevo, logicamente, necessariamente, comprendere il suo messaggio.

“La Lisbona che fu conobbe maggiori vizi?” domandò lei.

amor tenebrescit

L’infermiera si chiamava Kendall. Non posso dire che mi piacque molto quando la conobbi. Era una giovane donna bianca con una serie di tatuaggi sul braccio che non mi fecero una grande impressione, se non per i colori. Forse c’era un panda. Sembrava piuttosto competente. Dopo tutto, non era lì per stimolare mia figlia, per insegnarle qualcosa, per arricchire la sua esperienza del mondo. Era lì per pulirle il sedere, nutrirla, e adesso, a quanto pareva, per impedirle di incenerire la casa. Mi vergognai di averla liquidata in modo così affrettato per la sua mancanza d’istruzione. Forse dipendeva dal fatto che mi riusciva fin troppo facile immaginarla fidanzata a uno dei bianchi miliziani del complesso nel New Mexico.

Se Sarah avesse reagito in qualche modo alla sua presenza, forse sarebbe stato diverso. Osservai mia figlia in cerca di un qualunque cambiamento nella sua espressione. Purtroppo, il volto di Kendall era altrettanto vacuo di quello di Sarah, ma senza la scusa della demenza. Poi mi resi conto che stavo soltanto cercando qualcuno da incolpare per qualcosa. Kendall seguì Sarah in giro per la casa mentre me ne stavo seduto in diverse stanze fingendo di leggere o di prendere appunti, fingendo tanto davanti a me stesso che agli altri. Ero libero di uscire di casa, ma mi accorsi di non poterlo fare.

Sulla scrivania del mio studio avevo disposto gli appunti del New Mexico, e su un foglio bianco avevo scritto soprappensiero, più e più volte, “Rosalita Gonzalez”. Riuscivo a vedere il volto della donna con la stessa chiarezza del suo nome scritto davanti a me. Aveva sopracciglia scure e ben delineate sopra gli occhi ravvicinati, di un marrone chiaro. Il suo viso era rotondo, come quello di tante donne inuit le cui fotografie avevo visto sui libri. La sua pelle di un marrone chiaro, come quella di mia figlia. Aveva una cicatrice che andava dalla tempia sinistra al centro della fronte. I suoi denti erano dritti e ben allineati, lo sapevo, anche se non l’avevo vista sorridere.

Sentii degli strepiti che arrivavano dalla cucina e mi alzai in piedi, come se questo potesse rendere più acuto il mio udito. Era Sarah. “Stai lontana!” urlò. Andai in cucina.

“Va tutto bene, tesoro,” disse Meg. Era accanto alla porta aperta sul retro.

Kendall era in piedi vicino al bancone, tra Meg e Sarah, che si appoggiava con una mano al bordo del tavolo. Scoprii con stupore che stava inveendo contro sua madre.

“Lei chi è? Cosa vuole?” disse Sarah.

“È tua madre,” disse Kendall. Aveva una voce così strana nella sua piattezza che neppure io le avrei creduto.

Sarah si rivolse a me. “Aiutami, Daniel!”

Guardai il volto terrorizzato di Meg.

Sarah mi corse incontro, cingendomi la vita con le braccia. In quel momento capii chi fosse Daniel. Quand’era bambina, mi ero inventato una serie di racconti intrecciati in cui compariva il mio amico immaginario Daniel, che mi salvava sempre dai pericoli.

Meg stava piangendo. Si voltò e uscì di casa, lasciando aperta la porta sul retro.

Quella sera rimasi seduto da solo con Sarah alla finestra della cucina. Ancora adesso mi turba l’idea che potessi restare seduto da solo mentre ero con mia figlia. La luna era piena, luminosa e ben visibile. Vidi, o quantomeno immaginai, un fugace accenno di gioia sul suo viso mentre la fissava. Mi concentrai sul mio respiro, tentando di calmarmi. Il pensiero che mia figlia fosse così lontana da sé mi inquietava profondamente. Se non mi fossi concentrato a respirare, avrei rischiato semplicemente di smettere di farlo.

simula me cognoscere

Sul campus era scesa quella quiete estiva che il corpo docente sembrava amare così tanto. Forse perché era il momento di concentrarsi sulla ricerca, avviandola o portandola a termine. Più verosimilmente era il mero sollievo della tregua, la gradita bonaccia che seguiva lo sfinimento e precedeva il nuovo sforzo. In ogni caso, in assenza di studenti il campus offriva una sorta di pace. Andai lì, in teoria per lavorare su un paio di articoli che erano entrati in uno stallo privo di speranza. Riuscii in qualche modo a convincermi di provare un genuino interesse per le mie ricerche, ma non ero certo ignaro del fatto che il lavoro rappresentava soltanto un’altra fuga dai miei affanni domestici.

All’ora di pranzo vagabondai nel campus per poi finire nella mia caffetteria preferita, dove presi un muffin ai mirtilli. Mentre tornavo indietro, passai davanti all’ufficio di Hilary Gill. La porta era aperta. La stanza era stata svuotata da tutte le sue cose, dai suoi libri, dai suoi ninnoli, ed era stata pulita con cura. Le superfici erano immacolate e sembravano umide sotto le luci che erano state lasciate accese. Pareva quasi che quella stanza fosse stata purificata dal suo sangue e dal suo respiro. Immaginavo che si fosse trattato proprio di questo. Mi venne in mente che non sapevo a che età Gill si fosse tolta la vita. Non l’avevo mai chiesto a nessuno, non avevo letto nulla al riguardo e, francamente, non mi importava. Era tragico che la sua vita fosse diventata così difficile, ma nessuna vita è tenuta a continuare; nessuna vita continuerà in eterno. Speravo che avesse trovato quello che cercava, quello di cui aveva bisogno. Persi il desiderio di lavorare e raccolsi i miei appunti.

Mentre uscivo dall’edificio mi imbattei in Finley Huckster.

“Si crepa, eh? Ma più che il caldo è l’umidità.” Mi disse. “Non ti dà fastidio quando la gente lo dice?”

“Già, si crepa.”

“Allora, come sta andando l’estate? Come sta tua figlia?”

“È in un momento difficile.” Stavo quasi per dirgli che era morta, ma in qualche modo, per quanto potesse sembrare vero, mi sembrava un tradimento. “Lo stiamo affrontando tutti insieme.”

“Mi dispiace.”

“Ti ringrazio, Huck.”

“Hai da fare? Ti andrebbe una partita a squash?”

“Oggi no.” Spinsi lo sguardo oltre di lui, verso il campus spopolato.

“Ho un appuntamento in centro.”

“Allora un’altra volta.”

“Puoi contarci.”

“Lo sai, se ti va di parlarne con qualcuno, io ci sono.”

“Grazie, Huck. Come sta la famiglia?”

“Tutto bene.”

“Be’, allora squash la prossima settimana,” dissi.

“Sicuro.”

Non c’era niente di deprimente come un bar del centro alle tre del pomeriggio. Non avevi la scusa di cercare noccioline miste e popcorn come spuntino all’ora di pranzo. Ed era troppo presto per l’happy hour. E così quella visita non poteva essere dovuta che alla depressione o a un appuntamento che andava tenuto nascosto. La mia bettola prescelta, per usare il termine in modo poco calzante (prescelta, non bettola), era sulla Fourth Street, a est della Spring, a un paio di isolati dal quartiere malfamato di Skid Row. Avevo sempre ammirato l’ingresso a forma di serratura e la porta che non si chiudeva a dovere. L’ultima volta che c’ero stato, mi ero cacciato in una rissa. Forse era quello cui aspiravo anche quel pomeriggio. Il barista indugiò a lungo con lo sguardo su di me, e temetti se ne fosse ricordato. In ogni caso, non disse una parola e non parve curarsi più di me. Ero l’unico, patetico cliente in quel locale patetico, ma lui mi lasciò comunque il mio spazio, aggiustando o fingendo di aggiustare il sifone della soda.

Centellinai il bicchiere di scotch scadente con ghiaccio per venti minuti. Alla fine, il barista si rivolse di nuovo a me. “Sta aspettando qualcuno?”

“Non sono affari tuoi,” risposi, da vero stronzo. Volevo essere preso a calci in culo, volevo che gli stessi tizi di quella sera di mesi prima entrassero e mi riempissero di botte.

Passarono altri venti minuti. Entrò una donna. Ero quasi sicuro che fosse una prostituta, ma non lo sapevo con certezza. Non potevo dire di conoscere la vita di strada. Chiunque fosse, non mostrò alcun interesse nei miei confronti. Magari sembravo uno sbirro. Improbabile. Era più verosimile che le sembrassi un serial killer in pantaloni kaki e camicia Oxford. Si parcheggiò in un séparé d’angolo senza ordinare nulla.

Gettai una cospicua mancia sul bancone e feci un cenno al barista. “Scusa se ho fatto lo stronzo.”

“Non preoccuparti, amico. È per questo che siamo qui.” Era più acuto di quanto non avessi immaginato.

Mentre facevo a piedi i tre caldi e squallidi isolati per tornare al parcheggio all’aperto dove avevo lasciato l’auto, l’idea di rientrare a casa mi ispirava un senso di orrore, un orrore diverso dal solito orrore di ordinaria amministrazione. Mi resi conto di stare cincischiando. Mi capitava di rado di cincischiare. Giocherellai con le chiavi dell’auto nella tasca dei pantaloni, tormentai il cinturino dell’orologio, scostai la carne dei pollici dalle unghie con i lati degli indici. Rimasi seduto al volante nella sauna della mia Jeep finché l’anziano custode non se ne accorse e, temendo che morissi e contaminassi il parcheggio, chiamò la polizia.

scio nomen meum

Basil stava abbaiando. Basil non abbaiava mai. Mi affrettai a raggiungere la porta sul retro dal vialetto d’accesso. Non si sentivano che i latrati di Basil, un’acuta protesta che lo faceva sembrare più giovane. Una volta entrato, per poco non andai a sbattere contro la schiena di Meg. Al di là di lei c’era Sarah, che la fronteggiava tremante, con occhi stralunati, stringendo un coltello da cucina dalla parte della lama. Il sangue sgorgava copioso dal palmo della sua mano.

“Daniel,” disse rivolgendosi a me, “lei chi è?!”

“È tua madre, tesoro,” risposi.

“Daniel?”

Mi avvicinai a lei. Sentii Meg che tremava mentre la sfioravo passandole accanto. “Sì, Sarah. Sono io, Daniel.”

“Perché?” mi chiese lei. La sua domanda aveva tanti livelli. Anch’io mi stavo chiedendo perché. Mi stava domandando perché la sua mente si stava offuscando? Perché stava morendo? Perché i suoi genitori si comportavano in modo così strano con lei ed erano così spaventati?

“Non so perché, tesoro.” Feci un altro passo verso di lei. Dovevo toglierle di mano il coltello.

Adesso si sentiva distintamente il pianto di Meg.

“Lasciami prendere il coltello, Sarah. È mio.”

Lei andò in trance. Un attacco. Mi precipitai su di lei, aprendole a forza le dita e sottraendole il coltello. “Dammi un asciugamano,” dissi a Meg.

Meg si precipitò a prenderlo.

La lama era penetrata quasi a metà dell’indice, del medio e dell’anulare. Il sangue scorreva inarrestabile. Meg mi porse una salvietta e la avvolsi intorno alla mano. “Io le tengo stretta la mano. Tu guida.”

Meg era in vestaglia, ma mi precedette di corsa mentre portavo Sarah tra le braccia. Salii sul sedile posteriore dell’auto di Meg, stringendo saldamente Sarah nel timore che si riprendesse di colpo dall’attacco. Quel ritorno in sé cominciò con un sussulto, una gamba che scalciava. Sarah chiudeva e riapriva gli occhi, tentando di capire dove fosse. Guardò il mio volto, e mi parve di cogliere un lampo di riconoscimento, ma poi notò l’asciugamano intriso di sangue avvolto intorno alla sua mano. Che fosse per quella vista o per la sensazione di dolore che si fece strada fino alla sua coscienza, Sarah emise l’inizio di un urlo prima di perdere i sensi. Forse svenne per la perdita di sangue. Non lo sapevo, ed ero terrorizzato. Meg passava col rosso, piegata sul volante, senza dire una parola. Arrivammo al pronto soccorso dell’Huntington Hospital e trasportai Sarah all’interno. La vista della ragazzina svenuta e della copiosa quantità di sangue attirò rapidamente l’attenzione. Se ci furono rivolti sguardi di rimprovero, non me ne accorsi. I dottori si misero al lavoro sulla mano di Sarah. Rispondemmo a tutte le domande sul suo stato di salute e descrivemmo l’incidente. Soltanto allora un’infermiera inarcò un sopracciglio, ma una collega sentì la parola Batten e scacciò dalla stanza ogni timore di maltrattamenti di minore.

Mentre aspettavamo, Meg in vestaglia, io coperto di sangue, riuscimmo in qualche modo a chiamare la dottoressa Gurewich e, con nostra sorpresa, lei arrivò nel giro di pochi minuti. Spiegò chiaramente di non poter fare nulla, ma di voler comunque stare lì insieme a noi. Mi trastullai con il pensiero che la gente si fa spesso un dovere di dichiarare la propria inutilità per essere d’aiuto. Non posso cambiare la situazione, ma sono qui per voi. Ad ogni modo, la sua presenza ci offrì un qualche conforto.

Meg le raccontò tutto.

“Le sue condizioni non miglioreranno,” disse la dottoressa. “È possibile che ci siano dei momenti di lucidità. La demenza è un mistero, e si manifesta in modi molto diversi nelle persone, soprattutto nei bambini. Capisco quanto sia stato terrificante per voi.”

“Terrificante è riduttivo,” dissi. Allungai una mano per posarla su quella di Meg. “Cosa dobbiamo fare? Questa paranoia è insostenibile.”

Era chiaro che per la dottoressa era molto difficile dire quello che doveva dire adesso. “Dovete prendere in considerazione l’idea di affidare Sarah a una casa di cura.”

Naturalmente mi era già passata per la testa, ma non avevo la forza di soffermarmi su quell’idea, e di sicuro non ne avevo messo a parte Meg. Fui grato alla dottoressa Gurewich per aver usato il nome di mia figlia, evitando di ridurla a un mero pronome.

transit lux, umbra permanet

Sarah aveva riportato gravi danni ai nervi e ai tendini, e anche dopo l’intervento chirurgico non era chiaro in che misura la menomazione sarebbe stata permanente, ma tutto questo era tragicamente irrilevante. La stessa Sarah non sarebbe mai stata permanente. Fu questa la cosa più triste del vedere la mano fasciata e immobilizzata contro il suo petto piccolo e piatto, che qualunque menomazione apparisse insignificante, un mero inconveniente. Non aveva detto una parola, non aveva fatto neppure un verso, lucido o meno, dopo la frenetica corsa in auto fino al pronto soccorso. Anzi, nulla lasciava intendere che fosse consapevole di un qualsiasi cambiamento nel proprio stato, se non che era palesemente sconcertata dal fatto di non avere libertà di movimento.

L’idea di organizzare il trasferimento in una casa di cura, il compito di individuare e contattare una struttura adeguata, sembrava, in astratto, quasi impossibile, ma di fronte alla nuda verità della vita reale, era inevitabile che accadesse proprio questo, e così fu. Trovammo un posto non troppo lontano da noi, nei pressi della città di Sierra Madre, ai piedi delle alture come casa nostra. Immaginavo che il contesto simile e familiare potesse offrire un qualche conforto a mia figlia.

Il personale era abbastanza gentile, pur mostrando comprensibilmente un certo distacco professionale davanti alla nostra situazione, o a qualunque altra, se è per questo. La stanza di Sarah sembrava quella di un qualsiasi collegio, a parte la vistosa mancanza di spigoli. La testiera e la pediera del letto erano curve e imbottite. L’unico tavolino era ovviamente rotondo, in legno, con un parabordo di vinile che ne seguiva la circonferenza. Il nome della casa di cura era al tempo stesso innocuo e solenne, quasi carico di presagi nefasti.

La struttura era gestita da una donna coreana di mezza età, May. Era forse la persona più positiva che avessi mai conosciuto. Se avesse avuto una coda, avrebbe scodinzolato senza posa. Aveva invece un largo sorriso, tanto radioso da far venire i brividi. Per un attimo mi domandai se il suo entusiasmo avrebbe potuto curare persino mia figlia, ma solo per un attimo. Si piegava verso Sarah e le parlava senza fingere che fosse una persona diversa da quella che era diventata. Lo faceva tutte le volte.

“Oggi non abbiamo fame?” chiedeva May quando il cibo le cadeva dalle labbra flosce. “Non è un problema, cara. A volte capita anche a me di non avere fame.”

Andai a far compagnia a Sarah e trovai May nella stanza. Le teneva la mano sana, sorridendo, e rimase lì per un po’ anche dopo il mio arrivo.

“Questa notte è andato tutto bene,” disse May.

Mi domandai cosa intendesse dire esattamente. Era chiaro che May era intenerita dal fatto che Sarah era una bambina. Nella struttura non avevo visto altri bambini.

“Mia figlia è morta a sette anni,” disse May.

“Mi dispiace.”

“È successo trentun anni fa. Tumore.”

“Col tempo diventa più facile?”

Lei abbassò lo sguardo sulle proprie ginocchia per un attimo, e poi lo risollevò per guardarmi negli occhi. “No.”

Annuii.

“Lei è ancora qui,” disse May.

Vidi il Cristo sulla sua manica. Non mi offese e non mi disturbò neppure. Era, a suo modo, qualcosa di tenero. “Grazie, May. Sono sicuro che tua figlia sia ancora con te.”

“No, non lo è.” Disse in tono piatto. Dopo di che si alzò, sorrise e uscì.

Quando May ebbe lasciato la stanza, guardai mia figlia e mi resi conto che era svanita durante quella breve conversazione, e che anzi lei, Sarah, non era nella stanza né in quel corpicino, non era stata lì, né vi sarebbe stata. Mentre la guardavo, ebbe un attacco; non fece quasi differenza. Le pulii le labbra e il mento con un asciugamano di cotone bianco.

Meg si sentiva in colpa per l’incidente in cui Sarah si era ferita e credo lo avesse ingigantito in un senso di colpa per la sua malattia. Era irrazionale, cosa piuttosto evidente a chiunque fosse fuori dalla sua testa, ma non per questo meno reale ed effettivo. Forse saremmo potuti sopravvivere alla morte di nostra figlia, ma il percorso che la stava conducendo alla morte ci stava uccidendo, e sicuramente separando. Facevamo i turni per restare accanto a Sarah, e non stavamo quasi mai insieme. Le settimane passavano.

I mesi passavano. Sarah svaniva sempre di più. Anche il sorriso di May svanì. Il sole continuava a splendere ogni giorno. La luna si spostava nel cielo. E io continuavo a stare seduto in quella stanza, adesso in una poltrona reclinabile accanto al letto o alla sedia a rotelle di mia figlia.

Un mercoledì guardai fuori dalla finestra e vidi un’ombra. Era il meriggio di una giornata di sole. Un giovane orso era sceso dalla montagna. Aveva trovato il distributore di acqua zuccherata per i colibrì e se ne stava seduto sul suo culone a leccarlo. Quella vista mi colmò di gioia; era l’orso che Sarah aveva cercato per tutta la sua vita. Spinsi la sua sedia davanti alla finestra. Guardai gli occhi vacui di mia figlia. Guardai l’orso. Era così grosso, così reale, così vivo. Cinsi la mia bambina con le braccia e piansi. “Ti prego, devi vedere l’orso, tesoro. Ti prego.”

Pesavo più di novanta chili. Avevo grandi mani. I fili della biancheria da letto di Sarah non dovevano essere più di centottanta. La sentivo un po’ ruvida sui palmi delle mani. Il tessuto del copricuscino non era affatto liscio. Sarah non si mosse molto. Non si muoveva mai molto. Non si sarebbe mossa molto mai più, non si sarebbe mossa affatto. Dissi a mia figlia che la amavo. Lei sapeva che la amavo.

Mentre uscivo dalla casa di cura, May mi osservò a lungo, con un sorriso benevolo.

“Fuori c’era un orso,” dissi.

“L’ho visto,” rispose May. “Lei sta dormendo?”

“Sì.”

“Allora la lascio riposare.”

“Grazie, May.”

ursa

2 L’espressione compare all’inizio del Canto di Natale di Charles Dickens. (N.d.T.)