13. Favorire la diversità limitando la violenza
Come si è visto nei capitoli precedenti, le diversità culturali, che riguardano le lingue, la musica, le abitudini di vita e le tradizioni religiose, vengono apprese nelle prime età della vita. Queste conoscenze, organizzandosi nei sistemi della memoria implicita, collegata alle strutture più profonde del cervello, determinano l’architettura neuropsicologica dell’identità culturale di un individuo. I sistemi neuropsicologici sono collegati con quelli emozionali e in particolare con le reazioni difensive. Per questa ragione è molto difficile rinunciare all’idea che la lingua materna, la religione e le abitudini di vita nelle quali siamo cresciuti non rivestano un significato fondamentale. Nei secoli passati, e soprattutto nel Novecento, in nome della patria, della lingua e della religione sono state perpetrate guerre devastanti e stermini di massa. Allora, come limitare gli aspetti violenti legati all’identità culturale, senza rinnegare la propria patria e le proprie tradizioni culturali e religiose? Riesco a immaginare una via possibile: educare precocemente i bambini al plurilinguismo e alla conoscenza teorica e pratica di diverse tradizioni religiose.1 Conoscere più lingue e più religioni, sin dalla più tenera età, permette di capire i punti di forza e di debolezza presenti in ogni tradizione culturale e religiosa.
13.1. La libertà dell’azione umana
Il movimento volontario, diversamente dagli atti motori riflessi e dai ritmi locomotori, dipende da una decisione interiore (intenzione), in grado di iniziare e controllare una sequenza di azioni al fine di raggiungere uno scopo. L’intenzionalità è stata collegata con la capacità di elaborare a livello interiore delle rappresentazioni del mondo, ovvero delle mappe mentali. Soltanto mediante la generazione di un modello interiore della «realtà esterna» è possibile simulare (mentalmente) un obiettivo che non esiste nella realtà, ma che può essere realizzato nel futuro. Grazie alla capacità d’immaginazione, presente negli esseri umani, è possibile realizzare un’azione libera. La libertà consiste nella capacità di scegliere una delle possibili opzioni immaginate (Fabbro 2017).
Secondo Keith Oatley,
l’intenzionalità significa il raggiungimento di uno stato desiderato dell’ambiente, che può esistere nel futuro ma non esiste nel presente … l’intenzionalità deve essere espressa usando una rappresentazione simbolica dell’ambiente, per esempio la rappresentazione di uno stato desiderato o di una mira. (Oatley 1978, p. 159)
Dunque, il movimento volontario è possibile perché un individuo può scegliere tra più alternative, fino alla condizione più estrema che consiste nella scelta consapevole di non agire. La natura e l’organizzazione dei movimenti volontari è tale da migliorare con l’esperienza, rendendo possibile l’apprendimento di complesse strategie motorie, coinvolte nella costruzione di strumenti, nell’espressione verbale e nell’esecuzione musicale.
13.2. Favorire l’educazione plurilingue
Nonostante la profusione di proclami a favore dell’insegnamento precoce delle lingue, l’Italia – come pure altri Paesi europei (Francia e Inghilterra) – non sembra essere affatto interessata all’educazione plurilingue. Numerosi studi di neurolinguistica suggeriscono, invece, l’utilità dell’apprendimento precoce delle lingue. L’età ideale è quella della scuola dell’infanzia e della scuola primaria. L’apprendimento non deve essere di tipo esplicito (grammaticale), ma di tipo implicito, attraverso metodi d’immersione, cioè mentre vengono svolte altre attività come, ad esempio, il gioco e la socializzazione. L’apprendimento precoce delle lingue avviene in periodi critici che riguardano in particolare l’acquisizione fonologica e morfosintattica. Bambini immersi in una seconda lingua prima degli 8 anni sono in grado di apprendere le lingue con facilità e senza difetti di pronuncia o errori grammaticali. Ciò dipende dal fatto che i sistemi della memoria implicita coinvolti nell’acquisizione delle lingue sono ancora sufficientemente plastici.
Nella cultura occidentale la conoscenza delle lingue è sempre stata considerata un elemento distintivo. Nel mondo attuale, globalizzato, è diventata una necessità. Capita sempre più spesso di dover interagire con persone e situazioni nelle quali sono utilizzate lingue diverse. Inoltre, la formazione universitaria italiana prevede l’uso sempre più diffuso delle lingue straniere, in particolare dell’inglese. In numerosi corsi di fisica, ingegneria, biologia e medicina, sono consigliati libri e manuali in inglese; non solo, in numerose università italiane vengono addirittura premiati i docenti che tengono i loro corsi in lingua inglese. A livello neuropsicologico è stato evidenziato che i bambini che conoscono più di una lingua sviluppano maggiormente sistemi di regolazione del comportamento e dell’autocontrollo, mentre negli anziani bilingui si riduce significativamente il rischio di ammalarsi del morbo di Alzheimer. L’insegnamento efficace delle lingue straniere nella scuola primaria differenzia ormai le scuole considerate di serie A (scuole bilingui o internazionali) dalle scuole giudicate di serie B (spesso scuole statali), dove, purtroppo, si fa soltanto finta di insegnare una seconda lingua.
Un aspetto critico della formazione plurilingue dei bambini della scuola dell’infanzia e primaria è la padronanza della lingua da parte dell’insegnante. Purtroppo nella maggior parte dei casi gli insegnanti di lingue nella scuola dell’infanzia e primaria non conoscono a sufficienza la lingua straniera che dovrebbero insegnare. Non è, infatti, possibile apprendere una seconda lingua, per poi insegnarla a bambini piccoli, solo in un corso universitario o ministeriale di poche centinaia di ore. La soluzione potrebbe essere quella di utilizzare insegnanti di lingua specificamente preparati per operare nella scuola primaria, oppure insegnanti stranieri che lavorano in Italia in una condizione di scambio. Occorre riconoscere l’esistenza di un problema (ossia che in genere in Italia non è possibile apprendere le lingue straniere nella scuola dell’infanzia e primaria) e cercare di risolverlo senza ricorrere alla solita strategia basata su rassicuranti autoinganni.
13.3. Favorire la conoscenza e la pratica di diverse tradizioni religiose
I processi di globalizzazione a livello economico, culturale, turistico e informatico hanno portato in primo piano il problema della diversità. Un punto nevralgico d’incontro tra differenti culture, lingue e religioni è l’ambiente scolastico. Nel XXI secolo è ormai chiaro, soprattutto in ambito scientifico, che il sogno positivistico di un’umanità «liberata» dalle religioni è un’illusione. Una delle caratteristiche distintive degli esseri umani è, infatti, la ricerca di una dimensione spirituale e religiosa. Secondo il grande psicologo americano William James (Tarozzi 1911), quasi tutti gli esseri umani sono credenti, o in una qualche religione positiva, o – nel caso degli atei – nella «religione» dell’ateismo. In un certo senso, possiamo dire che negli esseri umani sia presente una predisposizione alla religiosità, così come esiste una predisposizione per il linguaggio. Tuttavia, come non esiste una lingua universale, così non esiste un’unica religione universale: allo stato attuale si contano più di 10000 religioni differenti (Fabbro 2010).
Dopo l’evento traumatico dell’11 settembre 2001, numerosi scienziati (ad esempio, Daniel Dennet e Richard Dawkins) si sono scagliati contro le religioni, giudicandole fonte di separazione, integralismo e violenza. Per queste ragioni, a loro parere, le religioni devono essere abolite. Tuttavia, cercare di lottare contro un’esigenza profonda e costitutiva dell’essere umano, come ci hanno insegnato grandi psicologi, quali Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, non è soltanto pericoloso, ma rischia di produrre più danni di quanti cerchi di evitarne. Come nel caso dell’apprendimento delle lingue straniere è, invece, utile aumentare la conoscenza reciproca e favorire il rispetto di tutte le tradizioni culturali e religiose. In questo senso un passo fondamentale che la scuola italiana deve cercare di promuovere consiste nella sostituzione dell’insegnamento della religione cattolica con l’insegnamento, nelle scuole di ogni ordine e grado, delle più diffuse tradizioni religiose.
L’insegnamento della sola religione cattolica è, infatti, anacronistico; a livello pratico ha scarsissima efficacia, ottenendo spesso l’effetto contrario. Ovviamente, lo stesso ragionamento vale per l’insegnamento di una delle altre religioni: l’ebraismo, l’islam, l’induismo oppure il buddhismo. A mio parere, è necessario muoverci verso un insegnamento teorico-pratico di tutte le maggiori tradizioni religiose. Non si tratta di sviluppare conoscenze su argomenti che fino a trent’anni fa potevano sembrare esotici, ma di cercare di affrontare questioni reali, dal momento che numerosi allievi della scuola primaria provengono da famiglie che aderiscono alla religione cristiana, all’islam, ai testimoni di Geova, oppure all’induismo o al buddhismo. Inoltre, l’insegnamento della storia e delle pratiche religiose dovrebbe essere obbligatorio e organizzato da insegnanti che hanno conseguito una laurea statale, dopo un percorso di studi adeguati. Dovrebbero essere istituiti dei corsi di laurea in Teologia e Scienze religiose in tutte le università statali (superando quindi il vincolo, sancito dai Patti Lateranensi, che prevede gli studi superiori di Teologia soltanto nelle università confessionali, prevalentemente cattoliche). Oltre alle conoscenze teorico-dottrinali, sarebbe utile avvicinare i bambini alle diverse pratiche religiose. Lo strumento per ridurre la separazione integralista e la violenza non è l’indottrinamento scientifico o religioso e neppure l’abolizione delle religioni, ma la conoscenza e il rispetto reciproco che la scuola, di ogni ordine e grado, dovrebbe promuovere.
13.4. Favorire il pensiero critico
I poeti dell’antichità, dal Mediterraneo all’India, composero poemi (i Veda, l’Epopea di Gilgamesh, l’Avestā, la Bibbia ebraica, l’Iliade e l’Odissea) che riguardavano l’origine degli dèi e le vicende di un principe o di un re, il quale spesso assumeva caratteristiche divine: dopo numerose lotte, trionfava sui nemici e finalmente instaurava l’ordine nel cosmo. Il poeta arcaico era dunque un «maestro di verità», un funzionario del sovrano che collaborava all’ordinamento del mondo (Detienne 1967, capp. 1-3). Ciò che di fondamentale è accaduto nella Grecia antica è che, accanto al discorso magico-religioso, si è sviluppato, attraverso il dialogo, un discorso razionale. Si trattava di un discorso laico, nato all’interno dei gruppi di guerrieri dove prevaleva uno spirito egualitario e collaborativo. Infatti i guerrieri greci crearono diversi istituti e riti (assemblee deliberative, divisioni del bottino, giochi funebri), organizzati in spazi circolari, dove ciascuno era con gli altri in una relazione paritaria. Le parole dei guerrieri non chiamavano in causa forze religiose trascendenti, ma intendevano raggiungere, mediante la discussione, un obiettivo pratico che concerneva l’approvazione o la disapprovazione delle proposte formulate. Le assemblee dei guerrieri prepararono le future assemblee politiche e introdussero nel pensiero greco la consuetudine al dialogo, alle idee di eguaglianza, e all’avversione verso tutte le forme di potere autoritario (ibid., cap. 4). Il passaggio da una visione della realtà che dipendeva esclusivamente dalle opinioni di un «maestro di verità» a concezioni condivise, attraverso l’esposizione di diversi punti di vista (dialogo), rappresentò il passaggio da visioni prevalentemente soggettive alle concezioni oggettive della realtà (Nagel 1987). La prospettiva dialogica favorì la nascita nella Grecia antica del pensiero filosofico. Anassimandro di Mileto, ridisegnando la concezione del mondo e mettendo in discussione le visioni mitico-religiose e quelle del senso ordinario, fu considerato il primo filosofo e il primo scienziato dell’Occidente (Rovelli 2011, pp. 60-63). La scienza moderna fu fondata da scienziati e filosofi come Galileo Galilei, René Descartes e Isaac Newton. Si procedette a identificare e misurare qualità oggettive come la forza, la massa, la temperatura, la velocità ecc. Tutti i corpi si ritennero costituiti da unità materiali, molto piccole e indivisibili (materialismo), in relazione causale tra loro (meccanicismo). Gli scienziati eleborarono delle teorie matematizzate sui fenomeni che desideravano conoscere; le ipotesi teoriche dovevano essere verificate valutandone la coerenza interna oppure mediante un esperimento. La ricerca scientifica aveva come obiettivi centrali la spiegazione e la previsione. Per avere valore un esperimento scientifico doveva essere replicabile. La scienza aveva quindi una valenza predittiva (Galimberti 2012, pp. 73-74). La capacità di generare spiegazioni e di prevedere gli eventi, insieme al progresso tecnologico, è alla base dello strabiliante successo della scienza negli ultimi secoli.
Negli anni trenta dello scorso secolo, il filosofo di origine austriaca Karl Popper ha cercato un metodo per distinguere le asserzioni scientifiche da quelle metafisiche. Gli scienziati iniziano le loro ricerche formulando delle ipotesi sulla natura del mondo che devono essere sottoposte a un controllo sperimentale. Per Popper i controlli sperimentali non servono per dimostrare che una particolare teoria è vera, ma piuttosto per cercare di confutarla: basta un singolo esperimento per confutare una teoria. Un’ipotesi ha lo status di teoria scientifica soltanto se è potenzialmente falsificabile (Popper 1934; Smolin 2006). Le teorie scientifiche sono, quindi, delle «visioni del mondo» elaborate attraverso un processo di risoluzione di problemi (Einstein 1934). L’obiettivo della scienza non è trovare delle teorie vere, quanto cercare la teoria migliore tra quelle disponibili. Attualmente, le teorie scientifiche più accreditate sono la teoria dell’evoluzione, la relatività generale e la meccanica quantistica. Tuttavia, le ultime due sembrano contraddirsi (Smolin 2013; Rovelli 2014).
Un approccio critico al metodo scientifico è quello di Paul Feyerabend (1987), secondo il quale due opposte tendenze ispirano la conoscenza scientifica: l’atteggiamento dogmatico e quello pluralistico. L’atteggiamento dogmatico è, tra gli scienziati, maggioritario e spesso inconsapevole. Si è originato nelle visioni del mondo assolutistiche sviluppatesi nell’antico Vicino Oriente (Needham 1956). L’ossessione per l’unità e il biasimo della varietà sono il nocciolo duro di questa visione (Fabbro 2014a). I dogmatici moderni agiscono, secondo Feyerabend, in maniera subdola e sottile, usando le leggi, il denaro, le istituzioni educative e i risultati della tecnologia per sostenere la validità della loro visione unitaria (dogmatica) della conoscenza scientifica.
La visione scientifica pluralistica ha una storia molto antica. Nacque anch’essa nel Vicino Oriente dall’incontro tra lingue e culture differenti, quella dei sumeri, degli assiri, dei babilonesi e dei greci. I primi sistemi per ordinare le conoscenze furono, infatti, le liste di parole volte a classificare gli oggetti e composte in differenti lingue per facilitare gli scambi commerciali. Queste rudimentali forme di conoscenza nascevano dunque, in un contesto multiculturale e plurilinguistico e avevano finalità eminentemente pratica. In seguito, alle liste di parole si sono aggiunte le storie, che possiedono, com’è noto, una dimensione temporale; storie semplici, come le storie mediche del corpus ippocratico, e storie complesse, come quelle riguardanti l’origine del mondo, l’epica o la tragedia. A queste tradizioni teoriche si sono affiancate altre tradizioni storiche ed empiriche, quelle dei muratori, degli operai metallurgici, dei pittori, degli architetti e degli ingegneri (Feyerabend 1987).
L’abitudine ad agire guidati da automatismi, l’adesione a ideologie e credenze mitiche, la propensione al pensiero dogmatico rappresentano modalità di default nel funzionamento della mente. Si tratta di modalità di pensiero pervasive, deresponsabilizzanti e veloci, perché costano poca fatica (Kahneman 2011). Il pensiero critico, l’educazione al dialogo costruttivo, l’educazione alla conoscenza scientifica, filosofica, letteraria e artistica, invece, costano fatica (Arendt 1978; Illich 2005). Per questi motivi, accanto all’educazione plurilingue e plurireligiosa, è necessario favorire anche l’educazione alla conoscenza scientifica e al pensiero critico, ponendo particolare attenzione ai problemi sollevati dal dilagante utilizzo di tecnologie disumanizzanti (come le tecnologie di controllo sociale e mentale sviluppate attraverso le cosiddette «reti di informazione»). Questi sono gli obiettivi prioritari di una scuola e di un’università libere. L’obiettivo primario dell’educazione scolastica non è formare dei professionisti, ma educare alla conoscenza, alla tolleranza e al pensiero critico.
13.5. Favorire percorsi di autoconoscenza
Le scuole italiane ed europee riconoscono come loro fondamento la tradizione culturale e filosofica della Grecia antica. Di particolare importanza è il monito «conosci te stesso» iscritto sul frontone del tempio di Delfi e più volte ribadito da Socrate. La maggior parte dell’impegno formativo, dalla scuola primaria all’università, si concentra soprattutto sulle discipline curriculari (letteratura, arte, filosofia, scienze, ingegneria, medicina ecc.), mentre poca attenzione viene dedicata ai percorsi di autoconoscenza e di autoguarigione. Conoscere se stessi è, secondo filosofi e psicologi, un percorso che aiuta gli individui a dare senso alla propria vita, a conoscere i propri punti di forza e di debolezza nel rapporto con se stessi e con gli altri.
Tuttavia la conoscenza di se stessi non è un processo facile che si può ottenere seguendo un corso di aggiornamento di qualche giorno o settimana. Si tratta di un percorso molto impegnativo, spesso doloroso, perché le componenti più significative della nostra personalità sono nascoste a noi stessi e spesso non sono piacevoli. Molto interesse è riposto nell’introduzione delle pratiche di meditazione di consapevolezza (mindfulness) nella scuola, negli ospedali, nelle carceri. La meditazione di consapevolezza è un percorso che, insieme al rafforzamento dell’attenzione volontaria, permette di coltivare la gentilezza e l’equilibrio (equanimità), favorendo l’autoconoscenza. La purificazione delle scorie presenti nella nostra interiorità è un percorso lungo e difficile, ma senz’altro necessario. Numerose tradizioni spirituali indicano che per raggiungere la pace, il nemico da neutralizzare non si trova fuori di noi, ma nella nostra interiorità (Fabbro 2010, 2014a).