13.

La violenza aumentava. Il ragazzo di Rieti era in coma e i consegnator cominciavano ad avere paura. I salutisti, che li accusavano di trasportare il contagio insieme alle cose, li consideravano incarnazioni del virus da attaccare prima di essere infettati. I minimizzatori li odiavano perché avevano il privilegio di spostarsi che a loro era negato. I disoccupati perché loro almeno un lavoro l’avevano. Tutti quanti perché andavano in bici contromano e sul marciapiede, anche se per strada non c’era nessuno. Con un tweet la ministra della Salute (e dei Saluti a Distanza) aveva lanciato l’idea di vietare ogni consegna, e il Parlamento aveva discusso la proposta fingendo di ignorare che la sua approvazione avrebbe comportato fame e carestia.

Nel tentativo di calmare gli animi, la Previdenza del Consiglio emanò un provvedimento d’urgenza per limare qualche divietino, abbassando a ottanta euro il tetto per uscire a fare la spesa e portando a un chilo la quota pro-die di cacca di cane concessa. Per dare un segnale alla popolazione, vietò ai consegnator di caricare la bici e il monopattino sui mezzi pubblici, ma il vento dell’insofferenza ormai si era alzato e nessuno poteva fermarlo. Gli insulti e gli assalti erano ormai un rischio concreto. Le città erano piene di appartamenti vuoti e uffici deserti, causa smart working e fallimenti, ma a ogni chiusura cresceva anche la gente per strada perché cresceva il numero di quelli che una casa non l’avevano più.

Michele appoggiò la bici al tronco di un albero e si accovacciò a sbirciare dentro il borsone alla ricerca del panino alla mortadella che si era portato da casa per pranzo. Aveva dato appuntamento in un parco al Cometa e al Moviola e quando arrivò avevano già iniziato a mangiare. Avevano scelto una radura buia dove non si inoltrava nessuno tranne i cani, e infatti era pieno di merde di cane. A pochi metri scorreva un rigagnolo in cui spesso nuotavano i topi.

– Come butta, fratello? – gli chiese il Cometa sbucciando una banana.

Michele si sedette su una radice e cominciò a liberare il suo panino dalla stagnola.

– Non male, Cometa. A parte il fatto che ho dormito zero stanotte.

– Non potevi farti una canna?

– Non ha funzionato.

Il Moviola si mise in bocca una forchettata di tonno, prendendolo direttamente dalla scatola, e commentò con la bocca piena:

– Sono meglio gli Sciallox.

Michele non voleva dirlo agli altri, lo avrebbero preso in giro, ma per tutta la notte si era rigirato nel letto pensando a Miriam. Appena i pensieri rallentavano e si diradavano, lei tornava a trovarlo per farsi immaginare. Michele spostava le lenzuola, si girava su un fianco o a pancia in giù, ma più si sforzava di rilassare il corpo e di svuotare la testa, più il suo cervello ricreava le parole e i movimenti di lei, oppure inventava situazioni non ancora vissute, in cui lei lo baciava e lo toccava come se fosse ancora permesso. Per calmarsi si era masturbato ed era la prima volta in vita sua che lo aveva fatto immaginando una persona vera. Ma non era servito. Per mandarla via aveva provato a dirottare il pensiero su altri pensieri, ad affastellarli l’uno sull’altro, annodarli insieme o scioglierli in fili diversi. Aveva perfino tentato di pensare a sua madre, l’anti-afrodisiaco più potente del mondo, ma Miriam era tornata a trovarlo. Alle quattro si era alzato per bere e in cucina aveva incontrato il nonno che faceva le parole crociate.

– Non riesco a dormire, nonno.

Il nonno aveva sollevato gli occhi sopra gli occhiali.

– È che al buio tutto è di più, Michele. Anche i germi. I rumori, le cose e i ricordi sono più forti e più veri. Anche l’amore. Per questo fanno paura. Di giorno ci si sente più forti, perché la luce nasconde.

Un raggio di sole si insinuò tra i rami e gli illuminò gli occhi. Era ancora imbambolato con il panino in mano. Il Cometa e il Moviola lo guardavano ridendo.

– Oh, fratello. Ti sarai mica innamorato? – gli chiese il Cometa, lanciando in un cespuglio la buccia della banana.

Forse era così che succedeva con l’amore. A un certo punto qualcuno occupa il mondo, ed è doloroso e faticoso come una malattia che contagia solo due persone. Spesso una sola.

– Oh! Dico a te, fratello! Altro che Sciallox, sembri stordito oggi.

– Ci facciamo una canna?

Siccome il Moviola e il Cometa sorridevano, anche Michele sorrise. Stavano quasi per mettersi a ridere quando sentirono un fruscio e si voltarono a guardare. Fu allora che videro i cinghiali. Erano due, scuri, grossi, un maschio e una femmina, forse, e stavano immobili ai margini della radura a fissarli come se fossero loro gli intrusi. Il Moviola, che da bambino in Ghana non ne aveva mai visti, si spaventò da morire. Scattò in piedi e corse verso la bici. Michele e il Cometa, invece, rimasero immobili. I cinghiali si avvicinarono. Potevano sentirne l’odore, di rancido e sterco. Il cinghiale più grosso alzò il muso e cominciò a grufolare rabbioso, sembrava un urlo, sembrava un lamento, e allora anche il Cometa e Michele si alzarono e corsero alle bici e ci saltarono in sella. Pedalarono più forte possibile, ridendo, tutti e tre come imbecilli e bambini, felici di quella fuga impensata.

Avrebbero riso e mangiato un gelato, o si sarebbero fatti una canna, se ne avessero avuto il tempo, invece si lasciarono dopo essersi abbassati la mascherina per fare un selfie in un brutto piazzale che una volta, a ogni ora del giorno, vomitava migliaia di esseri umani dalle uscite della metropolitana: dovevano tornare al lavoro. Michele consegnò psicofarmaci in condomini popolari, case di ringhiera, palazzi signorili. Attraversò un quartiere di grattacieli in costruzione che non sarebbero mai stati terminati. Una ruspa gialla livellava la terra sul fondo di un’immensa buca scavata per la nuova linea della metropolitana che il Comune aveva appena destinato alla realizzazione di un nuovo cimitero interrato. L’incontro con i cinghiali gli aveva fatto capire che la vita non si ferma, che si continua a respirare, a mangiare e a innamorarsi anche quando tutto sembra fermarsi e morire, che anche in città gli uccelli volano: i corvi scacciano i passeri e i piccioni, grigi sul grigio, attraversano inosservati la storia, come passanti in metro; che si può far finta di niente perché i gelsomini si arrampicano sui muri, il basilico cresce e sfiorisce sui balconi e l’erba è capace di spaccare l’asfalto per avere la luce. Ogni tanto si fermava e guardava in alto dove migliaia di storni facevano disegni insieme, senza toccarsi, e le ultime rondini attraversavano il cielo.

Intorno alle 7, esausto, si avviò verso casa. Il nonno lo stava aspettando per cena. Non avevano più parlato della sua scelta di non andare all’università, ma Michele sapeva che prima o poi sarebbe successo. Pedalando lungo il viale che portava a casa sua, ripensando a Miriam e ai cinghiali, qualcosa di scuro e pesante gli volò accanto e andò a schiantarsi davanti alla ruota. Michele perse l’equilibrio e cadde sull’asfalto picchiando la spalla. Un attimo dopo sentì un violento profumo di gerani. Impiegò qualche minuto prima di rimettersi in piedi, dopo aver raccolto il suo telefonino distrutto tra i frantumi del vaso di fiori che qualcuno aveva lanciato da un balcone. Gli facevano male la clavicola e il braccio, ma le macchine, le moto e le ambulanze gli passavano accanto scansandosi. Quando finalmente un’ambulanza si fermò, Michele si rifiutò di farsi portare al Pronto soccorso. Entrare in quel posto pieno di germi avrebbe messo in pericolo il nonno. Alle 9 di sera era a casa, con il dolore per la spalla gonfia sedato dai farmaci. Attilio gli portò la cena rimanendo fuori dalla stanza. Piazzò una sedia sulla soglia per essere sicuro che si addormentasse. E Michele si addormentò.

Il nonno lo osservò per quasi un’ora. Nel sonno Michele si era voltato su un fianco, mentre la luce delle piste penetrava a strisce dalla finestra. Esiste un momento in cui un bambino diventa un uomo, un istante? Quando era piccolo, Michele pretendeva di toccargli la pelle del gomito quando lui cantava sottovoce per farlo dormire, ma dopo un po’ il braccio piegato gli si indolenziva. Adesso Michele stava respirando con il naso, dalla soglia Attilio riusciva ad ascoltare il rumore.

C’era stato un momento in cui ad Attilio il corpo del nipote era sembrato perfetto, talmente perfetto che non poteva che essere eterno, che non sarebbe mai cambiato, perché poi è questa la grande tragedia della vita, a pensarci, che le cose appena prendono forma, una forma che coincide con quello che dovrebbero essere, la forma in cui puoi acquietarti e che puoi fissare nella memoria, cambiano subito, diventano altro e si disperdono nel tempo e nella memoria. Aveva una forza, Michele, che non sapeva di avere. Adesso russava leggermente. A sei anni aveva picchiato il naso cadendo dalla bici. Da allora, quando dormiva, sembrava facesse le fusa.

A mezzanotte Attilio decise di andare a letto. Fu una notte tranquilla e agitata, piena di sogni e passato. Ma alle sette era di nuovo in piedi ad aspettare che Michele si svegliasse. Si fece il caffè, lungo, come piaceva a lui, conservando nel filtro metà della polvere bagnata della caffettiera precedente e si mise a guardare il telegiornale. Non aveva voglia di andare in cyclette o di vedere Sparlamento. Dieci minuti prima delle nove, suonò il citofono. Era Miriam.