27.

Negli ospedali non arrivava più niente e quando qualcosa arrivava, arrivava in ritardo. C’era penuria di medicinali, camici, mascherine, guanti, siringhe, bombole di ossigeno, sacche di plasma e sangue, cateteri, lenzuola, disinfettanti, detersivi per i pavimenti, alimenti per la mensa. I posti letto continuavano a diminuire e i morti ad aumentare: nonostante il lockdown il picco doveva ancora venire. I virologi imputavano il fallimento all’insufficiente disciplina della popolazione, a una recrudescenza del virus, al clima caldo, ai ritardi del vaccino, agli inafferrabili e bastardissimi super diffusori. La gente, però, si era convinta che la colpa fosse soprattutto dei consegnator e del loro sciopero maledetto, di cui nonostante l’intervento dell’esercito non si intravedeva la fine.

La repressione di Happydemia aveva generato altri focolai di protesta, non soltanto nelle aree del pianeta in cui erano stati proclamati lockdown, ma anche in quei posti dove la vita andava avanti più o meno come prima. Allo sciopero dei rider delle medicine si aggiunsero, dentro e fuori dai confini nazionali, le proteste di chi trasportava libri, computer, acqua minerale, casse di frutta e verdura, elettrodomestici; e quelle dei raccoglitori agricoli, dei macellatori, dei pescatori, dei pulitori, degli infermieri. Uno dopo l’altro, in ordine sparso, migliaia di esseri umani decisero che sedersi era l’unico atto possibile; che bisognava fermarsi e aspettare che la vita ripartisse in modo più giusto; che a chi faticava – raccoglieva, trasportava, puliva, curava – fosse riconosciuto di esistere, di essere uomo, donna o bambino.

La Terra in quei giorni vacillò sotto il peso di un miliardo di culi che – sollevando le gambe, i piedi, le ruote dal suolo – decisero di ribellarsi alla forza di gravità e all’inerzia su cui si reggeva l’immenso sistema del mondo. Accadde a Rieti tra gli amici di Bruno Di Bruno, il consegnator di vent’anni ferito per primo, accadde a Piacenza e a New York, a Parigi, a Stoccolma. Accadde nei campi di fagioli del Messico e in quelli di cocaina della Colombia, in Cina, in Cile, in Cilento, tra i raccoglitori di pomodori di Mondragone e nelle bidonville del Brasile. Per decenni la sovrabbondanza di merci aveva omologato le differenze sociali fino a nasconderle: adesso riapparivano. Anche la riforma del sonno, che veniva gradualmente attuata, stava innescando un commercio clandestino tra i ricchi che compravano il privilegio di continuare a dormire di notte e i poveri che glielo vendevano. Lo sciopero della fame si accendeva ovunque per combustione spontanea resistendo alla precettazione forzata e alle proteste di chi delle cose aveva bisogno per nutrirsi, per coprirsi, per lavorare o solo per sorridere.

In quei giorni, per la prima volta da secoli, le merci rimasero immobili: piantate nella terra in cui erano nate, imprigionate nelle stalle e nelle gabbie in cui erano state nutrite e gonfiate di estrogeni perché crescessero più in fretta, stivate negli hangar, nei silos, nei container, nei tir o abbandonate a marcire nei depositi e a impolverarsi nelle fabbriche. Ma a protestare non fu tanto chi produceva le cose, i fabbricatori, gli operai, perché l’automazione li aveva divisi o trasformati in programmatori e sorveglianti, in lavoratori, cioè, che, comandando e ubbidendo alle macchine, non vedevano più nessuno contro cui ribellarsi. Erano ancora tanti, ma invisibili, passati di moda. L’epidemia aveva accelerato un processo in corso da decenni. L’esplosione dei contagi dentro le fabbriche e gli aiuti di Stato spronavano i padroni a investire ancora di più nei processi e sempre meno negli uomini.

Le macchine non si ammalavano, non protestavano e non si sottraevano alle statistiche.

Le macchine producevano le merci, i computer stavano producendo i compratori.

Il mondo era sommerso di cose, ma non c’era più nessuno a raccoglierle e distribuirle.