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Il finanziamento straordinario universale europeo previsto dal Piano d’emergenza istantaneo per salvare il salvabile fu stanziato in una bella mattina di ottobre. In tutti gli Stati membri, ma soprattutto in Italia, il decreto era fitto di incertezze sul profilo e il numero dei destinatari, sull’ammontare, sulle procedure e sui meccanismi di spesa e riscossione, oltre che naturalmente sulle tempistiche (che è la parola più brutta mai creata) di erogazione (altra parola bruttina). I governi di destra, sinistra, centro, basso, alto furono unanimi solo sulle linee generali del decreto ribattezzato “Ius Soldi”: il diritto alle sovvenzioni sarebbe stato usufruibile dai soli cittadini europei, altrimenti a lavorare sul serio non ci sarebbe andato più nessuno, nemmeno i poveri che continuavano a premere sui confini implorando un lavoro di merda.

Lo studio sui Big Data, che sconsigliava di estendere la misura a più dei due terzi della popolazione, era stato ritenuto affidabile, non si sa perché e non si sa bene da chi, tanto da diventare la legge non scritta del nuovo capitalismo. L’orientamento prevalente, perciò, fu privilegiare disoccupati e nullafacenti (a beneficiare del sussidio furono infatti anche migliaia di ereditieri) poiché disponevano di molto tempo per dedicarsi alla loro nuova occupazione, il consumo. Nonostante alcune critiche, un esercito di volenterosi esegeti scese in campo per cantare la moralità della nuova stagione politica.

Almeno da citare en passant, l’editoriale pubblicato dal maggiore quotidiano italiano e firmato dalla sua firma più illustre in cui si dimostrava, zoologia alla mano, la legittimità naturale del parassitismo sociale, indispensabile per il buon funzionamento di ogni società. “Prendiamo esempio dalla formica,” scrisse l’editorialista di professione, “l’insetto più laborioso del Creato. Ebbene, numerose specie adottano comportamenti che i critici ispirati dall’invidia sociale e da una errata concezione di uguaglianza si ostinerebbero a definire parassitari. Alcune specie, come la Tetramorium caespitum e numerose varietà amazzoniche, attaccano i formicai confinanti, ne catturano gli abitanti e li trasformano in schiavi da cui farsi portare da mangiare. In modo simile si comportano le Polyergus, le Lasius, le Aphaenogaster e le formiche del comunissimo genere Formica, che rapiscono le larve di altre specie per trasportarle nel proprio formicaio e farsi servire. Le Hypoponera determinano la casta sulla base dell’alimentazione: le larve che vengono nutrite di più saranno regine, quelle che mangiano di meno operaie. Questi fenomeni di ‘dulosi’, o schiavismo animale, sono nulla in rapporto al comportamento delle Strumigenys xenos che, per sopperire alla mancanza di operaie, si stabiliscono in altri formicai nutrendosi delle scorte raccolte dalla Strumigenys perplexa” (Che infatti è perplexa).

In Italia le incertezze erano più incerte che altrove, e le discussioni infinite. Il rischio di scontentare qualcuno paralizzava ciascuno. Il Previdente del Consiglio adottò una prudente politica dell’opacità che in Italia era storicamente testata. Per prima cosa, a scopo precauzionale, i decreti avrebbero dovuto essere scritti nell’antilingua tipica della Pubblica amministrazione nazionale, in modo da scoraggiare gli ignoranti, i pigri e i non motivati, e soprattutto da riservarsi la possibilità di interpretazioni correttive ove mai qualcuno avesse fatto questioni. In pratica, non ci si doveva capire un cazzo. In secondo luogo si cominciò, con calma, a lavorare su un colpo di genio che i rumors di Palazzo attribuivano al ministero degli Affari Miei in persona e che, a detta di tutti, dimostrava una volta vieppiù la proverbiale fantasia del Paese: per accrescere il divertimento e bloccare il malcontento, il sussidio sarebbe stato legato a una specie di Lotteria nazionale che ogni mese avrebbe estratto a sorte i beneficiari. Per studiare il meccanismo fu creata un’apposita commissione che si mise immediatamente al lavoro ma che, come sempre, sparì nelle nebbie.

Nell’attesa delle disposizioni finali, era stato risolto, o almeno rimandato più in là, anche il problema dello sciopero di consegnator e raccoglitori. Grazie a un’azione combinata di incentivi e gratifiche, gli scioperanti, ormai stremati dalla fame, furono indotti a ritornare al lavoro senza fare tante storie. Fu approvato un sostanzioso ritocco alle paghe: dieci centesimi in più a consegna o a cassetta caricata sul camion, che a mettersi di buzzo buono avrebbero garantito un extra di mille euro al lavoratore capace di effettuare diecimila consegne o sollevare diecimila cassette in un giorno. In aggiunta all’adeguamento economico, il governo varò alcuni provvedimenti di alto impatto simbolico: nel codice penale fu introdotta una specifica aggravante di pena per la consegnatorfobia cui si aggiunse il divieto assoluto di coltivare vasi di gerani sui balconi. Parallelamente fu intrapresa un’energica iniziativa di carattere culturale per riconferire dignità al lavoro fisico in quanto tale, commissionando piani di comunicazione, campagne di sensibilizzazione e capillari manifestazioni sul territorio.

La prima fu in piazza Cadorna, a Milano, dove al posto della scultura Ago, filo e nodo – creata dai coniugi Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen per onorare il genio di sarti e stilisti ormai caduti in disgrazia da quando si poteva lavorare da casa in mutande – fu eretto un gigantesco Monumento Equestre al Consegnator Ignotor, raffigurante un omino in bicicletta (in questo senso “equestre”) con pettorina gialla fluo realizzata con migliaia di neon. Iniziative analoghe furono assunte dai sindaci di molte altre città, per esempio a Cerignola, Foggia, città natale del sindacalista Giuseppe Di Vittorio, dove una mattina, davanti alla facciata del Teatro Mercadante in piazza Giacomo Matteotti, comparve la statua in bronzo del Bracciante Felice che brandiva un pomodoro in bronzo laccato di rosso.

Visionando questo e altri progetti durante un Consiglio dei ministri, il Previdente si dichiarò quasi entusiasta, ma rilevò che per dare più concretezza al messaggio – e chiudere per sempre il discorso – ci sarebbe voluta anche una gratificazione individuale, qualcosa di tangibile su cui ogni lavoratore avrebbe potuto poggiarsi, in futuro, per rivendicare la propria dignità di uomo.

– Nominiamoli tutti quanti Cavalieri del lavoro! Che ci vuole? – urlò il ministro degli Affari Miei.

Il Previdente sollevò un sopracciglio. L’idea non era male. Costava niente e gli avrebbe permesso di appuntare di persona migliaia di spillette incontrando eventuali elettori. Il segretario del Partito del Lavoro Guadagno Pago Pretendo si proclamò subito favorevole per due motivi: suo cognato aveva un negozio di onorificenze a Roma che da anni versava sull’orlo del fallimento e inoltre, essendo quasi l’ora di pranzo, aveva fretta di mangiare. Si era fatto mettere il turno del sonno dalle 14 alle 18 in modo che coincidesse con la pennichella. Il Consiglio dei ministri approvò in fretta e finalmente si andò. Previdente, ministro degli Affari Miei e segretario lasciarono Palazzo Chigi con le rispettive scorte, per recarsi all’Osteria dell’abbacchio dove cucinavano la migliore pajata di Roma.

Il ministro degli Affari Miei era così contento che aveva dato ad Alfonso, il suo autista-cugino, il pomeriggio libero.

– Previdente, avrei anche una proposta per riformare l’articolo 1, che mi pare vecchissimo. “L’Italia è una Repubblica fondata sui Cavalieri del lavoro.” Che ne dici?

– Ne riparliamo, collega. Ne riparliamo.

A quell’ora le strade di Roma erano quasi deserte per l’effetto combinato del lockdown e delle turnazioni del sonno. In giro si vedevano quasi esclusivamente barboni, che con la crisi erano aumentati al punto da costringere il governo a creare per loro un’apposita categoria professionale, con tanto di cassa previdenziale e regime fiscale, scongiurando così il pericolo che anche loro prendessero il reddito universale di cittadinanza. Per quanto numerosi fossero, difficilmente votavano e non amavano fare shopping. Sarebbero stati soldi buttati. Al Pantheon il corteo previdenziale scavalcò un’intera famiglia che dormiva per terra, aggrovigliata su una distesa di cartoni. Anche ai senza casa, come a ogni altro cittadino, erano stati assegnati turni precisi di veglia e riposo che cominciavano a dispiegare i loro benefici effetti sulla società. Nell’aria si respirava più calma. La violenza si era attenuata, anche perché per le strade c’erano meno testimoni a raccontarla. Non si facevano eccezioni, nemmeno per i ministri (quello degli Affari Miei aveva scelto di dormire fino a mezzogiorno perché detestava svegliarsi presto) o per il Previdente che, invece, continuava a coricarsi a mezzanotte e a svegliarsi alle otto.

L’epidemia non faceva più notizia. Era diventata un’abitudine. I vecchi morivano a mazzi, ma sarebbero dovuti morire ugualmente, prima o poi, e le loro pensioni rientravano nel circolo virtuoso dell’economia permettendo allo Stato di erogare i sussidi che permettevano agli altri di sopravvivere. Moriva anche qualche giovane ogni tanto, ma non si poteva mica pretendere troppo. La speranza del vaccino era diventata un’abitudine. Prima o poi sarebbe arrivato, come il Messia per gli ebrei che lasciano sempre la porta socchiusa, caso mai si decidesse a venire.

Il Previdente del Consiglio camminava contento. Si aggiustò il ciuffo e levò lo sguardo sul cielo azzurrissimo di quell’ottobrata romana, sentendosi grato e in pace con il mondo. Stavano attraversando una crisi epocale, ed erano ancora tutti lì, al loro posto, quasi come se niente fosse accaduto. Non avevano nulla da rimproverarsi, checché ne dicessero gli invidiosi, i sospettosi, i lamentosi: stavano gestendo il disastro meglio di altri paesi, e in ogni caso non l’avevano voluto né provocato ma erano riusciti a fare il possibile per attenuare la sofferenza di tutti, anche la propria. Sua zia glielo diceva sempre che per passare la nottata bastava stare fermi, dando un’aggiustatina qui e una là. Mentre la delegazione entrava nell’osteria, il Previdente del Consiglio decise che era arrivato il momento di togliersi l’ultima curiosità. Si avvicinò al segretario e gli posò una mano sulla spalla, avvicinando la bocca all’orecchio.

– È da tanto che volevo chiedertelo, collega. Mi spieghi perché non è venuta in mente a voi l’idea del reddito universale? Siete il partito dei lavoratori e degli intellettuali, quelli che dovrebbero avere le idee…

Il segretario si bloccò sulla porta. Non ci aveva mai pensato. Si prese qualche secondo per riflettere e formulare una risposta all’altezza:

– Non saprei, in effetti sono anni che non abbiamo più idee, – rispose candidamente. – È che le idee deconcentrano. Per governare non servono a niente.