Negli ultimi tempi Pitamiz si era lasciato un po’ andare. Passava le giornate a poltrire accoccolato come un gatto sul divano in attesa dell’arrivo di Miriam per la dose quotidiana. Dopo essersi avvolto bene nel plaid si rigirò sull’altro fianco godendosi la luce grigia del pomeriggio di novembre che filtrava dalla finestra come un sonnifero naturale. La riforma del sonno aveva riformato la sua vita. Gli affari di Happydemia andavano a gonfie vele, ma ormai l’unica cosa che gli interessasse era sognare. I morti non si contavano più, anche se lui da mesi esisteva soltanto dentro quel sonno affollato di avventure e felicità che Miriam sapeva iniettargli. Aprì e chiuse le palpebre, le riaprì, le richiuse, e quando altrove scattò una serratura, non se ne accorse neppure perché era troppo impegnato a trasformare in macchie di luce le forme che gli apparivano a occhi aperti.
Ogni volta che aveva riprovato il Vividone nelle dosi prescritte dai medici, l’effetto era stato più scialbo, malinconico: gli era perfino capitato di sognare i genitori e di svegliarsi infelice perché per lui il passato puzzava di morto. I chimici dei suoi laboratori si stavano dannando l’anima per capire come mai l’effetto desiderato si verificasse soltanto con la ragazza. A nessuno era venuto in mente che la soluzione era semplice: raddoppiare la dose. Oltre il soffitto si sentirono dei passi e Pitamiz si risvegliò. Era Miriam che scendeva le scale e veniva da lui. Quando l’aveva assunta le aveva chiesto di trasferirsi nell’appartamento di sopra, e lei aveva accettato purché lui non ci mettesse mai piede. Si raddrizzò a sedere cercando di resistere all’impulso di arrotolarsi la manica sul braccio pieno di lividi. Miriam era entrata e richiudeva la finestra. Si voltò sorridente.
– Come si sente oggi? Ha fatto un bel sogno?
– Ho sognato che andavamo sulla luna, io e te, – disse Pitamiz.
– Ah sì, e com’era?
– Non pesavamo. Non pesavamo niente.
Pitamiz si abbracciò le ginocchia piegate contro il petto: – Tu l’hai mai guardata la mappa della luna? Quando ero piccolo ci passavo ore. C’è il Mare della tranquillità, l’Oceano delle tempeste, il Golfo degli astronauti, il Lago dei sogni e la Palude del sonno...
– Un posto perfetto per lei.
Miriam tirò fuori l’occorrente dal mobiletto dei medicinali e lo dispose sul tavolino davanti al divano, mentre Pitamiz scopriva il braccio.
– Sai che a volte vorrei non avere un corpo? È così sopravvalutato. Bisogna curarlo, invecchia e porta il dolore. Basterebbe un po’ di chimica e di realtà virtuale per farne a meno. Altro che riforma del sonno. Il futuro è diventare la mente. Hai letto Essere macchina di Mark O’Connell? L’ho consigliato anche al Previdente…
– E lui che ha detto?
– “Forse più in là.” Però, pensaci: senza corpo potremmo vivere ovunque, provare soltanto le emozioni che ci piacciono, amare quelli che amiamo. Non ci sarebbero più bisogni, inquinamento e malattie, avremmo tutti più spazio e lasceremmo il lavoro alle macchine. Anche la morte sarebbe abolita.
– È tutto quello che abbiamo, il corpo.
– Il corpo è un estraneo.
– Anche la mente lo è, – disse Miriam avvicinandosi con la siringa. – Faccia il bravo adesso, mi dia il braccio…
Non era facile trovare una vena nuova. Il laccio emostatico non bastava più a gonfiarle. Miriam fece scorrere i polpastrelli guantati sulla pelle bianca e sottile dell’avambraccio fin quando non sentì il lieve ingrossamento che stava cercando. Pitamiz la fissava con gli occhi spalancati, sentendo il cuore che aumentava i suoi battiti ma con la certezza che, presto, avrebbe rallentato per farlo riposare. Miriam spinse l’ago nella vena sul polso e premette con il pollice. Le palpebre di Pitamiz ebbero un tremito e, subito dopo, il suo corpo si rannicchiò sul divano come un feto. Dopo poco dormiva. Miriam adagiò la siringa sul tavolino e si sfilò i guanti. Avrebbe potuto riempire un’altra siringa e farlo morire, come in fondo desiderava Pitamiz. Gli posò il palmo sulla fronte: era tiepida e immobile, non si sarebbe svegliato. Prese il telefono e scrisse veloce, poi si sciolse i capelli.
Suonò il campanello e Miriam corse ad aprire. Sul pianerottolo Michele si stava togliendo la mascherina e scompigliando i capelli. Rimasero fermi a guardarsi per qualche secondo, poi Michele si chinò e Miriam aspettò che si togliesse le scarpe. Era bello con la tuta rossa. Insieme al Cometa si erano iscritti a un corso per soccorritori e quello era stato il loro primo giorno di prova sull’ambulanza. Era cambiato dalla prima volta che si erano visti. I suoi sguardi e i suoi gesti erano diventati più fluidi. I capelli più corti. Sarebbe cambiato ancora. Sarebbe cambiata. Miriam si ricordò il verso di una poesia che aveva imparato a memoria, L’amore è tempo e corpo di Jules Le Jour: “Oggi per noi l’amore è uno specchio vivo, di occhi, carne e dita”. Prese la mano di Michele e lo trascinò dentro. Attraversarono la sala diretti al terrazzo. Sul divano Pitamiz respirava imbozzolato nella coperta e nella sua stessa mente.
Fuori ormai era quasi buio. Un’ombra di sole si posava sul tetto di fronte. Si fermarono un attimo sulla scala a chiocciola per guardare i piccioni in fila su una grondaia. Le ambulanze lontane non la smettevano mai. La porta della mansarda era aperta. La camera da letto aveva il soffitto con le travi e le pareti dipinte con scene di caccia e di fiori. I mobili che sembravano antichi. Miriam lo spinse sul letto e, quando fu disteso, gli salì sopra sollevando il vestito sulle gambe e piegando la testa in avanti per fargli cadere addosso i capelli come un riparo. Michele allungò le dita per accarezzarle una guancia, ma lei le fermò e si avvicinò con gli occhi.
– Hai il naso storto, lo sai?
– Non ti piace?
Miriam si avvicinò ancora e i capelli gli fecero il solletico, e lei forse lo capì perché si tirò su e li buttò dietro la schiena. Oscillando sui fianchi, gli sfiorò il viso con una mano e lentamente portò l’altra dietro un orecchio per sganciare la mascherina, arcuando le pieghe ai lati degli occhi.
– Non mi dispiace per niente, perché ce l’ho anche io.
Michele spalancò la bocca e gli occhi. Il naso di lei era più storto del suo, ma non fu questo a meravigliarlo. Fu che i lineamenti di Miriam sembravano ridisporsi intorno al suo sguardo, alle guance, agli orecchi, ai denti, alla bocca: sembrava la mappa di un pianeta con montagne, avvallamenti e pianure. Per risvegliare la sua attenzione, Miriam inclinò la testa a destra e Michele capì che per baciarsi non era necessario muovere il collo, non lo sarebbe mai stato, perché i loro nasi storti si sarebbero incastrati anche da dritti. Il naso di Miriam deviava a sinistra come il suo, quindi anche di fronte avrebbero avuto sempre tantissimo spazio. Michele provò a sollevarsi sui gomiti, ma lei lo spinse giù, si piegò in avanti e dischiuse le labbra finché le punte dei loro nasi si sfiorarono senza toccarsi, l’odore del fiato si intrecciava a quello delle gambe, dei capelli, delle ascelle, e le mani di Michele le si posarono sui fianchi, le scivolarono sulle cosce, la accarezzarono dietro il collo e cercarono i seni che saltarono fuori dal vestito come se non vedessero l’ora. Miriam si tolse in fretta il vestito e lo buttò a terra. Era un ordine che Michele eseguì. Erano nudi, la pelle non segnava più confini tra i corpi, li cancellava, interno esterno, mio tuo, dentro fuori non si distinguevano più. La pelle parlava toccandosi. Miriam si inclinò di nuovo in avanti, aiutandolo a entrare, e intanto entrò con la lingua nella bocca di lui. A Michele mancò il respiro, ma il respiro di Miriam adesso era anche suo. Era bello baciarsi, era come non essere soli, non sapere più dove finivi e dove iniziavi, era come scivolare in un’altra persona e trasformarsi in qualcosa di più di sé stessi, scoprire che il sesso, il sogno e la morte sono la nostra sola possibilità di metamorfosi.
E forse fu per paura di perdersi e scomparire, oppure per essere certo di esistere di nuovo che, all’improvviso e senza ragione, Michele cominciò a ridere. Miriam si bloccò incerta, pensando di aver fatto qualcosa di buffo.
– Che cosa fai? Ridi?
Michele scosse la testa sul cuscino per negare l’evidenza, senza riuscire a fermarsi. Fu allora che anche Miriam scoppiò a ridere dopo averlo picchiato sul petto con le mani.
– Adesso mi dici che cosa stai pensando.
– Che ci siamo congiunti ma non siamo congiunti.
Miriam si abbassò per baciarlo di nuovo.
– Ma neanche disgiunti.