Pedalando lungo il viale alberato che dalla periferia lo avrebbe portato all’appuntamento con Miriam, Michele intuiva le sagome buie della gente affacciata a osservare le finestre di fronte. Spiare la vita degli altri era diventata un’abitudine diffusa di cui nessuno parlava, per non rovinarla. Si guardava meno la tv, si stava meno su Internet e si spegnevano le luci presto per assistere a ciò che accadeva dentro le case degli altri. Molte storie d’amore erano nate così, da finestra a finestra, il problema era che dalla sua camera Michele vedeva solo la pista dell’aeroporto.
Con Miriam doveva vedersi dietro il giardino dei fenicotteri e dei pavoni. Intorno al suo corpo dava spettacolo settembre. Arrivarono insieme e si riconobbero subito. Lui tolse il casco e scrollò la testa, spargendo ovunque i suoi dread. Lei fece lo stesso, e a Michele sembrò che i capelli di lei, aprendosi a ventaglio, venissero rallentati dall’aria.
– Sembri un asterisco, – disse lei.
– Anche tu, – disse lui.
– Ok. Affare fatto. Sembriamo due asterischi.
Aveva qualche anno più di lui, lo si capiva dalla sicurezza con cui si muoveva, ma gli ricordava anche la ragazza che aveva quasi baciato alle medie. Quando sorrideva agli angoli degli occhi le si formavano due piccole pieghe più belle delle labbra e i suoi capelli scuri brillavano al buio. Indossava pantaloni da maschio con le tasche sui lati e una mascherina nera con i bordi di pizzo. Per l’emozione Michele non riusciva a legare la bici. Miriam lo osservò, tenendosi lontana.
– Mi dispiace averti fatto uscire a quest’ora, ma non sapevo proprio come fare. Grazie.
Michele chiuse gli occhi per dire prego e Miriam li spalancò per sorridere. Lui cominciò a rovistare nello zaino. Cercava una scatolina lunga, una confezione monodose con dentro una fiala di vetro, e intanto si domandava per quale ragione qualcuno avrebbe mai dovuto ordinare una fiala alla volta, era un mistero, forse volevano metterlo alla prova davanti a lei che continuava a guardarlo toccandosi la fronte – lo aveva subito notato che si toccava la faccia con le dita, le sopracciglia, gli zigomi, le orecchie piccole, anche se era anti-igienico – e finalmente, proprio sul fondo, annidata nella più intima piega dello zaino, Michele sentì la scatola sotto i polpastrelli e gliela porse. Miriam disse grazie di nuovo.
Ora Michele avrebbe dovuto parlare, ma non sapeva che dire. Per fortuna gli venne in mente che sarebbe stato gentile mostrarsi preoccupato.
– Spero niente di grave oggi con il telefono…
Miriam si arricciolò una ciocca intorno all’indice, sopra la spalla sinistra.
– Ma no, figurati. Dovevo solo cambiare batteria. Ma con questa cosa del lockdown la gente è andata fuori di testa. Davanti al negozio c’è stata una rissa tra due negazionisti, erano senza maschere ma lo negavano, e una con la maglietta nera con la scritta “Ricordati che devi morire” che doveva essere delle Brigate Semmelweiss.
Michele aveva già sentito parlare delle Brigate Semmelweiss, ma non sapeva bene che cosa volessero e non voleva fare la figura dell’ignorante. Forse Miriam lo capì.
– Sai, quei fanatici che pretendono che nessuno esca più di casa?
– Ma se nessuno esce più di casa, muore.
– È meglio morire in casa, per loro.
– È meglio morire all’aperto, per me.
– Sì, ma i negazionisti sono quasi peggio. Dovevi vederli. Sceglievano le parole con più esse ed effe per sputacchiarsele addosso. Uno le ha urlato in faccia: “Sussiste il fondatissimo sospetto che il virus non esiste. È stato sintetizzato! L’infezione è un’invenzione”. E per farla incazzare di più, l’altro ha aggiunto: “Se assassinassero l’assessore di Sassari con un sasso non sussisterebbe assoluzione possibile!”.
– Oggi ho consegnato un pacco a una così, – commentò Michele.
Miriam impennò leggermente le spalle come a dire che culo e Michele si sentì allegro.
– Non ho capito se credono davvero che il virus non esista o se ne fregano e basta.
– Credono che non esista perché preferiscono che non esista. Non vogliono essere disturbati.
Parlare con Miriam era facile perché parlava tantissimo. Stava per dirle che la vecchia voleva essere chiamata la Ricrescita felice, quando un grido li fece tacere. Sembrava un dinosauro.
– Mi sa che i negazionisti ti hanno beccato, – disse Michele.
– Mi sa che abbiamo svegliato il pavone invece.
– Fa un verso strano. Deve essere arrabbiato.
– È un paululato, il verso dei pavoni si chiama così. Lo sapevi?
Era un’altra cosa che Michele non sapeva. Per fortuna al paululato seguì una raffica di starnazzi gutturali e squittii più acuti e ridicoli. Miriam alzò un dito per indicare i suoni nell’aria.
– Questi sono fenicotteri, invece.
– Forse si sono offesi.
– Sì, loro sono delle Brigate Semmelweiss…
Miriam si arricciolò un’altra ciocca.
– Senti, io ho ancora un’ora da aspettare… Il cliente sta partendo adesso da Roma con il suo aereo privato. Lo so che è tardi, ma ti va se stiamo ancora un po’ insieme?
Era una domanda che a Michele non avevano mai fatto, nessuna ragazza almeno.
Miriam estrasse dallo zaino un mazzo di chiavi e si mosse per attraversare la strada.
– Allora? Vieni?
Il portone era proprio sull’angolo della casa di fronte. Dopo alcuni tentativi falliti, Miriam infilò la chiave giusta nella serratura della pesante grata di ferro battuto che conduceva all’interno. Attraversarono un atrio rivestito di mosaici passando davanti a una testa in marmo che sembrava scolpita nella cera e arrivarono in un piccolo giardino.
Si sedettero uno di fronte all’altra, ma a distanza di sicurezza, su due panche di pietra addossate ai muri. Il profumo violento di un glicine viola tardivo che traboccava dall’alto inondava l’aria.
Michele avrebbe voluto vederla oltre la mascherina, oppure no, in realtà non lo sapeva, perché se le avesse visto la bocca e il naso magari gli sarebbe sembrata normale e invece voleva che rimanesse speciale.
Miriam gli raccontò che il suo cliente abitava da solo in un appartamento di quattrocento metri quadri, ma aveva anche una dépendance che usava come dispensa. Lo disse troppo ad alta voce e lui si preoccupò che gli altri condomini chiamassero la polizia per farli arrestare, invece lei spiegò che il cliente era l’unico inquilino. Il palazzo era disabitato da anni, si erano tutti trasferiti nelle case in campagna, come la quasi totalità di quelli che vivevano in centro. Miriam gli spiegò che l’agenzia per cui lavorava – Gli invipsibili – collaborava con Happydemia per rifornire i clienti importanti, quelli che si rifiutavano di dare il loro indirizzo agli psychorider in modo da rimanere anonimi. A lei era stata affidata una ventina di clienti, ma il più importante era quello che stava per arrivare. La maggior parte prendeva psicofarmaci, soprattutto antidepressivi, qualcuno cose più strambe, soprattutto allucinogeni, c’era un club che organizzava orge, vernissage di arte contemporanea, presentazioni di libri, concerti punk e quartetti da camera. Michele nella penombra le osservava le labbra che, muovendosi sotto la mascherina, ne increspavano il pizzo. Per non apparire invadente, alzava lo sguardo sul rettangolo nero del cielo, meravigliandosi che, da quando i bar chiudevano alle dieci di sera, erano apparse tantissime stelle.
Dopo un’ora, il telefono di Miriam emise un suono cupo, prolungato, e i suoi occhi cambiarono umore. Il cliente stava per atterrare. Quando furono alla grata, Michele immaginò di baciarla, ma Miriam sembrava agitata. Aveva già aperto il cancello.