7

Ci sono.

Svoltò in un cunicolo di corridoi, illuminati da una luce al neon che faceva le bizze. Lungo le pareti erano appese fotografie in bianco e nero. Ritraevano camerate di culle e lettini, bambini sorvegliati da suore e balie. Alcuni cartelli raccontavano la storia della Real Casa dell’Annunziata e della Ruota degli Esposti. L’ospedale un tempo era stato un orfanotrofio.

Fanny accese il registratore e dettò quelle informazioni.

«Orfanotrofio.»

Scandì quell’ultima parola e la ripeté così tante volte da spogliarla del suo significato. Orfanotrofio. Orfanotrofio. Restava solo un senso di vuoto e freddo. Orfanotrofio.

I bambini venivano abbandonati nella Ruota. Le suore li battezzavano, li accudivano. A volte i genitori lasciavano ai bambini degli oggetti; a volte cambiavano idea e tornavano a prenderseli. Più andava avanti, più Fanny provava pietà e rabbia. Una pietà e una rabbia tanto forti che non potevano essere rivolte solo a qualcosa di esterno e sconosciuto. Quando svoltò l’angolo si fermò.

La Ruota era lì, una specie di macchinario infernale, uno strumento di tortura medievale.

Fanny aveva i piedi ben piantati a terra, ma oscillò come se un’onda l’avesse travolta. Si appoggiò a una parete. La stanzetta era umida, c’era odore di tufo e di legno, di cantine fredde. Avanzò di qualche passo, toccò la Ruota, posò le mani sul legno lucido, ne accarezzò i bordi sfrangiati e imperfetti. Su una lastra di metallo c’erano due fori che davano verso l’esterno.

Pensò a tutti i bambini che in quei secoli avevano vissuto nella Real Casa dell’Annunziata. I figli della Madonna. L’eco delle loro risate e dei loro pianti era come un’onda che si propagava attraverso il tempo. Nella sua testa scorrevano i volti delle fotografie, e tra quelle facce sconosciute le sembrò di vedere anche se stessa.

«Io sono una di voi.»

La rabbia la sopraffece. Avrebbe voluto spaccare la Ruota. Avrebbe voluto farlo per tutte le creature che erano state rifiutate dalle madri e dai padri nel corso della storia, dall’inizio dei tempi, risalendo il fiume dei secoli, fino a lei. Diede un calcio alla parete.

Concentrati, si disse subito dopo. La Ruota era reale, non una fiaba. E lei era lì, lo stesso giorno, a quattordici anni di distanza. Rise di quella coincidenza. Esplorò la stanzetta in lungo e in largo, registrando ciò che vedeva. Ma lì dentro non c’erano indizi né risposte.

«No, non qui», disse.

Dora le aveva insegnato a osservare le cose da ogni angolazione.

Uscì dall’ospedale. La strada su cui si apriva l’antico ingresso dell’Annunziata era strozzata dalle auto. La gente tornava a casa, carica di pacchi e spese.

Fanny cercò il buco esterno della Ruota. Quando lo trovò rimase pietrificata. Come facevano le madri a ficcare i bambini lì dentro? Era così stretto che gli avrebbe spaccato le ossa.

Si guardò intorno. Un tabaccaio chiudeva proprio in quel momento, un negozio di mobili aveva la saracinesca già abbassata. I palazzi che affacciavano su via Annunziata erano vecchi e degradati proprio come tutti gli altri edifici del quartiere. Fanny studiò le finestre, cercando di stabilire quali avessero una buona visuale sulla Ruota. Chissà se qualcuno aveva visto qualcosa, quella notte. Ma come adesso, anche allora dovevano essere tutti riuniti in casa, per cena, con i vetri chiusi a scacciare il freddo.

Le tenebre pian piano l’avvolsero. Ormai la strada era deserta, la pioggia cadeva più forte. Fanny però non riusciva a staccarsi da lì. Ogni volta che ci provava tornava subito indietro, come se un magnete l’attraesse. Rientrò nell’ospedale, passando per la basilica dell’Annunziata, dove una suora piccola e vecchissima pregava rannicchiata su un banco.

Quando fu di nuovo nella stanza della Ruota, Fanny si sentì addosso il peso del tempo. Era esattamente dov’era stato Gennaro, quattordici anni prima. Forse alla stessa ora.

Cos’era successo?

Respirò piano, gli occhi sgranati nel buio, le orecchie tese. Dalle labbra le sfuggiva un canto. Era sempre la stessa melodia, le faceva compagnia mentre aspettava. E aspettava. E aspettava.

Rumore di passi.

Al principio pensò di averlo immaginato. Fanny premette le mani sui bordi della Ruota, si protese per sbirciare dalle fessure all’altezza degli occhi. Il rumore si avvicinava, era un pestare sordo, che riecheggiava tra i palazzi. Una voce baritonale esplose nell’aria come un fuoco d’artificio, intonando la strofa di qualche villanella. Cantava di un amore perduto.

Davanti a lei sfilarono due gambe lunghe, robuste. Erano fasciate da calze a rete stretta, sorrette da un paio di tacchi a spillo rivestiti di lustrini. Fanny si precipitò ancora una volta nel vicolo. All’angolo della strada, vide una donna. Se ne stava sotto un ombrello trasparente e fumava una sigaretta, in attesa di qualcosa o di qualcuno.

Fanny si appostò sotto l’androne di un palazzo.

Era una gigantessa impacchettata in una pelliccia rossa. Le unghie erano pittate di colori sgargianti, ogni dito diverso dall’altro; i capelli di una sfumatura d’arancio sporco, e in faccia aveva il trucco pesante dei clown. Era un arcobaleno in un mondo di brume.

Di tanto in tanto, qualche auto si fermava. Si scambiavano battute, si pattuivano prezzi. Spesso l’auto andava via. Un paio di volte, la donna salì a bordo, e in entrambi i casi fu di ritorno poco dopo. Ogni volta che tornava fumava una sigaretta e mangiava una mentina.

A un certo punto, tre ragazzini passarono di corsa, con in mano delle stelle filanti. Offesero la prostituta con parole oscene: finocchio, frocio!, rott’in culo, facci vedere dove lo pigli.

«Lo piglio dove lo pigliano le mamme vostre!» strillò la prostituta. Una voce cavernosa, ma tremula. «E da lì siete usciti pure voi, piezze ’e strunze!»

Fanny non la perse d’occhio un solo istante, incurante del freddo che penetrava sempre più a fondo. La terza volta che la vide sparire su un’auto e poi tornare, si decise.

Attraversò la strada, si piantò davanti a lei e accese il registratore nascosto nella tasca del parka.

«Buonasera, signora.» Nessuna risposta. «Da quanto tempo lavorate qui?»

La donna abbassò i suoi occhi di ghiaccio. Sbatté le ciglia, tra stupore e fastidio, e distolse lo sguardo.

Fanny ripeté la sua domanda. Più e più volte. Alla fine, la donna si chinò sotto il suo ombrello trasparente. Aprì le labbra, morbide e gonfie. Le sbuffò in faccia un alito di fumo e menta.

«Vatténne, cessa.»

Fanny non si scoraggiò.

«Devo solo sapere ’sta cosa, signora. Da quanto tempo lavorate qui?»

La donna aveva smesso di darle retta. Sbirciava la strada, nella speranza che qualche auto la portasse via. Ma dato che non veniva nessuno, e che Fanny non demordeva, batté sui tacchi, arrivò in fondo al vicolo e bussò a un portone di ferro. La porta si aprì, liberando luci violette, una nube di fumo, musiche da bar. Sparì lì dentro.

Pochi istanti dopo, anche Fanny bussava a quella porta.

Aprì un uomo. Una sigaretta gli pendeva dalle labbra, sull’avambraccio scoperto aveva il tatuaggio di un re di cuori. Un rossetto nero gli macchiava le labbra.

«Che vaje truvanno?» disse. Squadrava Fanny come se fosse stata uno scherzo.

«Mio padre», disse la ragazza. «Sta qui dentro, devo riportarlo a casa.»

L’uomo non disse nulla, ma neppure le chiuse la porta in faccia. Fanny intuì che la sua storia doveva suonargli plausibile, se non addirittura familiare. Decise di rincarare la dose.

«Per favore, stiamo quasi a Natale e a casa lo aspettiamo tutti. Io, la mamma, i miei fratelli. Uno è pure malato. Per favore...»

«Tieni cinque minuti», disse l’uomo.

La lasciò entrare.

Il locale era fumoso. Tavolini di metallo con una dozzina di avventori ubriachi intenti a giocare a carte; relegata in un angolo, una slot machine che emetteva trilli fastidiosi; un tavolo da biliardo dal panno scorticato.

Fanny individuò la prostituta. Era abbarbicata su un alto sgabello, davanti al bancone; le gambe intrecciate, sorseggiava un drink da un bicchiere di rame. Fanny camminò tra i tavoli, nascosta dal cappuccio del parka. Ma gli uomini la guardavano con occhi spenti, troppo ubriachi per credere che la creatura che passava tra loro fosse reale. Dalla tasca del cappotto, Fanny prese tutti gli spiccioli che le erano rimasti e li posò sul bancone.

«Vi offro da bere.»

La donna ebbe un brivido, il barista si volse a fissarla, stupito, divertito, mentre puliva i bicchieri con un panno sudicio.

«Cicerenella, perché non te ne vai a casa tua? Questo non è posto per signorine perbene.»

La prostituta spinse via i soldi.

«Insisto», disse Fanny. Si arrampicò sullo sgabello e fece di nuovo scorrere le monete sul banco. «Come vi chiamate?»

La donna la squadrò da capo a piedi.

«Clemenza», rispose dopo un lungo silenzio. «Ma a piacere tuo, cicerenella. Chiamami come ti pare.»

«Da quanto tempo lavorate in quel posto, Clemenza?»

«È il mio ufficio da prima che mamma ti metteva nei piani, cicerenella. Mo si’ cuntenta?»

Fanny annuì. Era contenta.

«E lavorate sempre, Clemenza? Pure sotto Natale? Tenete molti clienti?»

«Stai facendo una ricerca scolastica, cicerenella? È per questo che mi fai tutte ’ste domande?»

Clemenza si accese una sigaretta. Seguì il dissolversi del fumo verso il soffitto.

«Non sai quanta gente sta sola, in giorni come questi.»

Fanny non commentò quelle parole. Guardò il piccolo tatuaggio sul petto della donna. Era un geco. Ricordò quello che le aveva insegnato Gennaro. I gechi sono fate e le fate indicano il cammino.

«Mi piace», disse, indicando il tatuaggio.

La prostituta si portò una mano al petto e accarezzò il geco, teneramente. Come fosse stato un animale vero, che le teneva compagnia in quelle notti solitarie.

«Significa cambiamento. Significa sopravvivere alle avversità.»

Sul banco c’era una ciotola di olive. Clemenza ne prese una, la succhiò, sputò il nocciolo sul palmo. Non sapendo dove lasciarlo, se lo tenne in mano. Fanny le offrì la carta con i gusci delle caldarroste, che ancora aveva in tasca. Clemenza accettò quel gesto. Fanny sentì che la guardava in modo diverso e parlò.

«Quattordici anni fa, la notte del 21 dicembre, una donna lasciò una bambina nell’ospedale dell’Annunziata. Erano le nove di sera. La mise nel buco della Ruota degli Esposti.»

Clemenza giocava a creare anelli di fumo, che si disperdevano tra le luci soffuse del bar. Accartocciò la sigaretta nel posacenere. Si sistemò i capelli, si aggiustò il rossetto, finì il suo drink. Forse pensava che se l’avesse ignorata Fanny sarebbe sparita. Ma Fanny non aveva alcuna intenzione di sparire.

Clemenza si volse verso di lei e premiò la sua ostinazione con una domanda.

«E tu da me che vai trovando?»

«Un ricordo. Se lo tenete.»

La pupilla si allargò. Il pomo d’Adamo, che più di ogni altra cosa tradiva la sua vera natura, si alzò e si abbassò.

«Non è che avete visto qualcosa?» Fanny si avvicinò, Clemenza fissò il vuoto. Sembrava incapace di reggere uno sguardo troppo a lungo.

«Avete visto quella donna?»

«Io nunn’aggio visto niente, nun saccio niente. E mo vavattenne!»

Con una manata, gettò a terra le monete di Fanny. La ragazza le raccolse. Fissò la schiena di Clemenza, i suoi capelli arancioni.

«Grazie, signora, e scusatemi se vi ho disturbata. Buona sera e buon Natale.»

Fanny sfilò tra i tavolini e salì di fretta le scale che portavano all’ingresso del locale.

«E tuo padre?» si informò l’uomo all’entrata, mentre la ragazza tornava al gelo.

Non gli rispose. Con i pugni stretti camminò verso via Annunziata. Era scossa da brividi violentissimi. Passò di nuovo davanti all’ospedale, dove il buco della Ruota la fissava. Pensò che ridesse di lei.

Cosa credevi di fare?

Fanny arrivò in fondo al vicolo, quando una voce la chiamò.

Clemenza era sotto il suo ombrello trasparente, le faceva cenno di tornare indietro. Fanny le corse incontro e la prostituta la riparò dalla pioggia.

«Io sono una femmina onesta», disse, aggiustandosi il corpetto sotto la pelliccia. «Ma mi pigliano in giro. I guaglioni come a te, a me mi pigliano in giro. Sempre. Si inventano fesserie...»

«Io non sono come loro», disse Fanny.

Clemenza soppesò lei e le sue parole.

«Non so niente di una creatura lasciata nella Ruota. Ma ci stava una donna. Veniva da laggiù.»

Clemenza indicò la fine di via Annunziata, dove c’era il bivio con via Egiziaca a Forcella. Da quel punto Fanny poteva intravedere le finestre dell’ospedale Ascalesi.

«Faceva freddo assai, quella sera, me lo ricordo bene. Vidi ’sta femmina che correva, che correva malamente, come se non si faceva capace di stare all’erta. Teneva qualcosa stretto al petto, e io mi credevo che era un animale. Passò davanti al buco, poi si fermò e tornò indietro. La vidi che faceva qualcosa, vicino alla Ruota. ’A verità? A me pareva proprio una povera disgraziata che confessava qualche peccato mortale. Mica potevo sapere che stava ficcando una creatura là dentro! Questo me lo hai contato tu mo, se pure è vero. Poi la donna si allontanò dalla parete, e la cosa che prima teneva stretta al petto non la teneva più. Mo, io solitamente mi faccio i fatti miei. Ma quella femmina chiagneva. Uh, e come chiagneva! E allora le domandai se stava bene. E sai che mi disse quella? Mi disse: Statte zitta, per amor di Dio! Tu a me non m’hai vista! Dopo, se ne fuggì.»

Poi Clemenza rimase in silenzio. Un silenzio che Fanny non osò rompere.

In fondo agli occhi della prostituta poteva vedere la donna che le aveva descritto. La vedeva correre e fermarsi con le mani appoggiate alle mura dell’ospedale. La vedeva come se l’avesse avuta davanti adesso.

«E voi...» riuscì alla fine a mormorare. «Voi vi ricordate tutto questo?»

Clemenza si accese una sigaretta. Si passò una mano tra i capelli arancioni.

«Ci sta una cosa che non mi tolgo dalla testa, dopo tutti ’sti anni. Il colore dei capelli di quella femmina. Erano lunghi, rossi. Belli. Parevano un fiume di lava.»

Un fiume di lava.

Fanny ammutolì. Le venne l’istinto di portarsi i capelli dietro le orecchie. I suoi capelli corti, neri, ricci.

«Cicerenella, stai bbuono?»

Forse era la seconda o terza volta che Clemenza glielo domandava, ma la prima che la sentiva.

«Sì», disse. «Sì. Grazie per il vostro aiuto, Clemenza. Siete una brava fata.»

Fissò il tatuaggio del geco. La prostituta aggrottò la fronte.

«Cicerenella, ma stai bbuono ’o vero?»

Fanny la rassicurò che stava bene e si affrettò a voltarsi. Sentiva lo sguardo di Clemenza su di sé.

Una donna dai capelli rossi. Una donna dai capelli rossi che piangeva. Quella donna aveva percorso quella stessa strada quattordici anni prima, aveva calpestato quelle stesse pietre.

Chi era? Da dove veniva? Dov’era andata? Per quale ragione l’aveva abbandonata?

La rivelazione di Clemenza aveva turbato Fanny. Era andata alla Ruota per cercare la verità, ma non si aspettava di trovare davvero qualcosa. E invece c’era riuscita. Aveva sottratto un segreto al tempo.

Cosa succede se non la trovo?, si chiese mentre inseguiva il profumo dolce e aspro del mare. Cosa succede se la trovo?