Le sirene erano arrivate. Volteggiavano sulla sua testa, disegnando cerchi sempre più stretti intorno al castello. Erano coperte di piume e avevano ali enormi e artigli affilati. Ma non era questo a farle paura. Erano i volti. Non bestie, né uccelli, ma donne. Donne con le guance graffiate dai venti, sciupate dal tempo, bruciate dalla salsedine.
«Lo capisci che dicono?» disse Pulcinella.
In punta di piedi sul parapetto, Pulcinella sembrava orchestrare il canto delle sirene. Agitava le braccia, con le mani disegnava forme invisibili nell’aria. Il vuoto e il mare lo lasciavano indifferente.
«Non lo capisco», disse Fanny. «Pare un canto che non tiene parole.»
«Non tiene bisogno di parole. Però dice qualcosa. Ascolta.»
Fanny chiuse gli occhi, perché a occhi chiusi si ascolta meglio. E lo sentì anche lei, quel senso tremendo di nostalgia. Era una vita che l’accompagnava, quella nostalgia di cose mai avute. Un sentimento che non poteva esistere, che faceva a pugni con se stesso.
Riaprì gli occhi. Il castello e il mare erano scomparsi, adesso era in un vicolo sudicio. Riconobbe la struttura imponente dell’Ascalesi, le sue mura scuoiate. D’un tratto, un suono tremendo squarciò l’aria, e dal buio e dalla nebbia emerse un uccello di enormi dimensioni. Volò rapidissimo, perse il controllo e andò a sbattere contro la finestra del terzo piano dell’ospedale. Precipitò e si schiantò a terra, morto.
Fanny corse a vedere. Non era un uccello, ma una sirena. La sua bocca umana era distorta in una smorfia di atroce sofferenza. La ragazza si chinò per toccarla, ma poi con la coda dell’occhio colse una fiamma guizzare alle sue spalle e dimenticò ogni cosa.
Una donna dai capelli rossi – sembravano davvero un fiume di lava – correva verso via Annunziata.
Fanny le andò dietro. La vide fermarsi nei pressi dell’ospedale, dov’era il buco della Ruota, e premere le mani contro le mura esterne dell’ospedale.
Anche Fanny si fermò, eccitata all’idea di scoprire chi fosse. Ma ogni passo che faceva verso di lei era più pesante e difficile del precedente. Era colpa dei gechi, che erano ovunque. Usciti dalle grate dei tombini, dalle crepe dei palazzi, dagli spiragli delle porte, i gechi si arrampicavano sulle sue gambe.
«Mamma!» Fanny la chiamò.
La donna dai capelli rossi si girò. Non aveva un volto, ma una maschera nera.
Pulcinella scoppiò in una risata pigolante che le gelò il sangue nelle vene.
«Figlia mia», disse beffardo, spalancando le braccia.
Fanny si svegliò gridando. Il buio di Monte Echia la soffocava, e da qualche parte, nelle sue viscere, ribolliva un canto malato di nostalgia. Fanny scrutò la ragnatela di tenebre.
Non è possibile.
Quelle voci le sembravano dolorosamente reali.
Le ossa le facevano male, la pelle scottava. Aveva la febbre alta. Forse quello che udiva, quel coro di donne, non era che un’allucinazione, un delirio.
Si raccolse più stretta nel telo, sperando che i brividi si placassero, ma erano brividi che venivano da dentro. Si addormentò e si risvegliò più volte, nel corso di quella nottata tremenda, e la luce smorta del giorno non portò alcun miglioramento. Nonostante il malessere, Fanny occupò la mattinata a registrare le informazioni che le aveva dato Clemenza.
All’ora di pranzo la febbre salì ancora, insieme alla nausea. Non mangiava nulla da quasi ventiquattr’ore, moriva di sete. Nel pomeriggio fece il titanico sforzo di scavalcare le transenne per comprare del cibo. Non aveva abbastanza soldi per le medicine. Riuscì ad abbeverarsi a una fontana, e l’acqua calcarea, ferrosa, le irrorò la gola infiammata. Mentre strappava il pane, a morsi feroci, Fanny indugiò davanti al mare. Le acque nere, frastagliate da onde bianche come denti pronti a mordere, sembravano urlarle contro.
Vattene a casa. Che fai ancora qui?
Il mare aveva ragione. Fanny tornò indietro, ma quando si trovò ancora una volta faccia a faccia con la grotta di Monte Echia ebbe una strana idea: io sono a casa.
Con le ultime energie scavalcò le transenne. Mise un piede in fallo e cadde nel fango. Dovette strisciare per mettersi al riparo da quella pioggia che non lasciava respirare la città.
Non ce la faccio. Da sola non ce la faccio.
In quel silenzio infinito disse una parola: «Mamma...»
Non sapeva perché l’avesse detta, non sapeva a chi fosse rivolta. Dalla tasca del parka prese la catenina e fissò la chiave e la moneta. La lanciò lontana da sé, la sentì rimbalzare contro la roccia.
Gli occhi si chiusero. Aveva male ovunque, pensò che sarebbe morta.
Per la quarta notte di seguito, dalla gola profonda del monte si alzò il canto delle sirene.
Fanny aprì le palpebre. Era stato un rumore a svegliarla, ma pensò che fosse il residuo di un sogno. Poi percepì il clic di un accendino, l’odore di tabacco, uno scalpiccio di passi. Con lo sguardo seguì i movimenti di una sagoma, nascosta dietro il telo. Sentendosi protetta dalle tenebre del monte, Fanny osò scostare un lembo dagli occhi.
L’uomo era robusto, aveva capelli bianchi e la sua fronte stempiata era una lastra di rughe nere. Dal modo in cui camminava, avanti e indietro, seguendo più che i passi il corso dei pensieri, si sarebbe detto che fosse in preda a un’agitata eccitazione.
All’improvviso, la colpì alle narici un aroma di cuoio speziato, seguito un istante dopo da un odore nauseabondo, di panni ammuffiti e alghe marce.
«Mastro Giorgio.»
Una voce chiamò l’uomo dall’imbocco della grotta e mastro Giorgio arrestò il suo andirivieni.
«Assessore.»
Le scarpe lucide del nuovo arrivato sfiorarono gli scarponi di mastro Giorgio. Fanny impiegò qualche istante a riconoscere l’uomo in grigio che aveva visto proprio lì, sotto Monte Echia, il giorno del convegno su Virgilio, e che tanto profondamente l’aveva turbata.
«Posticino delizioso, per un tête-à-tête», commentò l’assessore.
Mastro Giorgio gettò il mozzicone della sigaretta.
«Assessore?»
«Significa incontro di natura riservata, mastro Giorgio.»
Ci fu qualche istante di silenzio. Mastro Giorgio si accese un’altra sigaretta.
«Assessore. Fino a quando volete sospendere i lavori?»
«Fino a nuovo ordine. Sono stato chiaro.»
«È solo che mi domando quando verrà, ’sto nuovo ordine. I miei uomini vengono pagati a ore, e capirete che una settimana di fermo fa male a tutti, specie sotto Natale.»
«Per questo mi sono assicurato che veniste tutti pagati il doppio. Così non vi fate male.»
«Ci avete coperti per una settimana...»
«Più un bonus molto generoso per la discrezione. Vogliamo dimenticarcelo?»
«No, per carità. Ma la settimana è scaduta, assessore. Che succede, mo che passa Natale?»
«E che succede, mastro Giorgio? Dopo Natale c’è Capodanno, e poi l’Epifania. Che tutte le feste si porta via.»
A quella cantilena seguì la risata dell’assessore. Calda e gelida allo stesso tempo.
Un silenzio lunghissimo.
«Mastro Giorgio», disse l’assessore, guardando un orologio da taschino. La voce suonò diversa, una corda che si stringe su un vecchio violino. «Stamattina potevo mandare qualcun altro. Potevo ignorare la sua richiesta di vedermi. Ma sono qui. Le sto dando il mio tempo, la cosa più preziosa che un uomo possa dare a un altro uomo. Perché non mi mostra un poco di rispetto e arriva al punto?»
Mastro Giorgio si raschiò la gola. Propose una cifra, per sé e per gli altri operai. L’assessore gli chiese di ripetere, perché forse non aveva capito bene. Mastro Giorgio lo accontentò, ma invece di alzare la voce l’abbassò. L’assessore rise.
«Mastro Giorgio. Mastro Giorgio. Facciamo così. Io adesso vado via, e questa conversazione ce la dimentichiamo, va bene? Tanto nessuno l’ha sentita. Tanto non c’è mai stata.»
E l’assessore fece come aveva detto: si incamminò verso l’uscita della grotta.
«Che succede se si viene a sapere cos’abbiamo trovato qui sotto?»
L’urlo di mastro Giorgio fermò l’assessore. La grotta rimandò indietro quelle parole. Era come se Monte Echia sapesse che si stava parlando di lui.
«Che succede?» domandò l’assessore. «Chi lo sa, mastro Giorgio. Chi può sapere quali saranno le conseguenze delle nostre azioni, se nemmeno noi che le compiamo riusciamo a immaginarle?»
I due uomini si guardarono.
«Come sta sua moglie, mastro Giorgio?» si informò gentilmente l’assessore. «La signora Valeria, spero si sia rimessa da quell’operazione all’anca.»
Mastro Giorgio sbiancò.
«E i vostri figli?» continuò l’assessore. «Pasquale, Gaetano, Sandro. Tre nuore, cinque nipoti. Complimenti, mastro Giorgio, che progenie! Chiara, la più piccola. Lei cos’ha avuto per Natale?»
Il sorriso dell’assessore non smetteva di allargarsi, senza mai avvicinarsi agli occhi.
«Ha una bella famiglia, mastro Giorgio. Si prenda cura di loro.»
Mastro Giorgio era ancora pallido, ma all’improvviso il suo volto assunse tratti bestiali.
«Mi state minacciando, assessore?»
«Io sono un gentiluomo, mastro Giorgio. E scommetto che lo è anche lei. Non oserei mai minacciarla e lei non oserebbe mai ricattarmi. Dico bene?»
L’assessore se ne andò.
Fanny poté respirare. La sola presenza di quell’uomo risucchiava aria e luce, e adesso le sue parole e i suoi modi confermavano quella sensazione di pericolo. Eppure, ancora una volta avrebbe voluto che lui la guardasse, che sapesse che lei era lì.
Rimasto solo, mastro Giorgio imprecò. Si accese un’altra sigaretta, riprese la sua marcia, poi si fermò a smuovere la terra sotto i piedi. Si inginocchiò a raccogliere qualcosa.
Fanny si morse un labbro. Il capocantiere aveva trovato la sua catenina.
La moneta e la chiave gli penzolavano davanti al naso, gli occhi si strizzarono d’avidità. Pensava di aver scovato un tesoro e già faceva i conti di quello che ci avrebbe ricavato.
Senza far rumore, Fanny si svolse dal telo.
Mastro Giorgio si accorse di quello spiritello incappucciato solo quando gli fu a un respiro di distanza. La mano piccola di Fanny spuntò dal nulla, si allungò, strattonò i ciondoli. L’uomo spalancò gli occhi per la sorpresa, ma soprattutto per la paura di scoprire di non essere solo in quella caverna buia. Sobbalzò all’indietro. La sua presa però era ferrea, e la catenina gli restò tra le dita mentre Fanny si ritrovò la moneta e la chiave nel palmo.
Scappò via, con le gambe ancora intorpidite, e un urlo la seguì fuori dalla grotta: «Fermati!»
La recinzione era aperta, non dovette scavalcare. Nella fuga, sbatté contro un gruppo di donne raccolte davanti al cantiere. Non se ne curò, non si fermò. Fece quasi tutto il borgo di corsa e riprese fiato solo quando la gola cominciò a bruciarle. Si guardò alle spalle: nessuno l’aveva seguita in quella giornata plumbea. Ancora non pioveva, ma l’aria odorava di tempesta.
Si infilò in un bar e alla cassa pagò un caffè e un cornetto con gli ultimi spiccioli rimasti. Andò a sedersi a un tavolino. Le gambe le tremavano ancora, ma pian piano si calmò. Le chiacchiere degli avventori la rassicurarono, la televisione accesa sul tg regionale la riportò nel mondo reale, un mondo lontano da grotte piene di misteri e antichi orfanotrofi.
Fanny bevve il caffè in un sorso solo e fece una smorfia: aveva dimenticato di mettere lo zucchero. Si addolcì la bocca divorando il cornetto alla crema. Quando il cuore riprese un battito normale, dalla tasca prese la chiave e la moneta strappate alle grinfie del capocantiere. La disperazione che l’aveva colta, nel momento in cui aveva rischiato di perdere quel legame con i suoi genitori, l’aveva sconcertata. Non era finita.
Per un po’, ripensò alla conversazione che aveva origliato tra l’assessore e il capocantiere, e un rimpianto l’assalì: avrebbe dovuto esplorare più a fondo la grotta. Ora che l’avevano vista non poteva più tornare indietro. Il suo rifugio era perduto, e anche la possibilità di scoprire cosa avessero trovato gli operai sotto Monte Echia.
Un cadavere, forse? Un tesoro? Un’antica imbarcazione?
Fanny scosse la testa, cancellò quelle fantasie capricciose. Aveva già la sua ricerca di cui occuparsi, ed era molto più importante.
La febbre era scesa, e sebbene si sentisse debolissima non aveva intenzione di lasciar passare un altro giorno senza indagare. Aveva la chiave e la moneta. Era ora di scoprire cosa fossero quei due oggetti.
Uscì dal bar, diretta verso le vie del centro. Mancò di poco il servizio che mandarono al telegiornale. La sua foto riempiva lo schermo, accompagnata da una didascalia: Ragazza di quattordici anni scappa di casa.