Fanny fece come le era stato detto. Si mise a cercare, un libro dopo l’altro, ma per quanto s’impegnasse non riusciva a trovare la sua sirena. E dire che quella mattina era davanti a lei, nelle mani di quell’uomo. L’assessore d’Avalos. D’Avalos.
Senza rendersene conto, Fanny trascriveva il suo nome sul bordo delle pagine che sfogliava. D’Avalos.
Ripensava ai suoi occhi, se li sentiva addosso. Avrebbe voluto sapere chi era, quell’uomo che la mattina di Natale non aveva niente di meglio da fare che venire da C’era una volta a indagare su Monte Echia e sulla sua sirena.
Mangiarono tortellini in brodo e capitone fritto. Nel pomeriggio, il signor Marone andò all’appuntamento con il suo amico, il professore di lingue semitiche. Fanny sperò che tornasse presto, quel giorno non aveva voglia di stare sola. Aveva pensieri bui e fumosi, si sentiva il cervello annebbiato e lo sguardo non faceva che posarsi sulla poltrona dove quella notte si erano sedute le tre ombre.
Quando le campane della chiesa annunciarono le cinque – quei rintocchi erano l’unico modo per conoscere l’ora esatta, visto che tutti gli orologi della casa erano in disaccordo – cominciò ad attendere sempre più impaziente il ritorno dell’antiquario. Le cinque e un quarto, le cinque e mezzo.
Fanny aprì la porta che dava sul negozio. Le luci erano spente. Si domandò se il libro di cui avevano discusso l’antiquario e l’assessore d’Avalos fosse ancora fuori dagli scaffali. Scese le scale e subito lo vide, abbandonato sul bancone.
Dalla Villa Luculliana al Castello dell’Ovo.
Era un saggio storico che narrava gli sviluppi dell’area costiera della città, a partire dal primo secolo avanti Cristo. Lucio Licinio Lucullo, guerriero romano e amante della cultura, aveva fatto innalzare una villa sontuosa, con moli e sbocchi sul mare, allevamenti di murene, aranceti e canneti, e alberi di pesco importati dalla Persia. La tenuta era nota come Castro Luculliano e alla morte del proprietario era caduta in uno stato d’abbandono. Più di cinque secoli dopo, la parte che sorgeva sull’isola di Megaride era diventata luogo d’esilio dell’ultimo imperatore romano, e in seguito un convento. Venne distrutta e ricostruita, e soltanto nel tredicesimo secolo fu ribattezzata col nome di Castel dell’Ovo, ispirato alle leggende virgiliane dell’uovo magico.
Una piantina, ripiegata tra le pagine, mostrava la possibile estensione della villa di Lucullo. Da Municipio a Pozzuoli, si diceva. Ma il suo fulcro era intorno a Monte Echia.
Fanny rimase a leggere a lungo, mentre il buio calava. A furia di tenere la testa piegata, la nuca cominciò a formicolare. Scrocchiò il collo da una parte e dall’altra, e fu allora che notò l’ombra in fondo al negozio. Non era certa di quel che vide, né di averlo visto davvero. Almeno, non quando l’attimo fu passato.
Dall’angolo di un casellario spuntava la testa di una figura incappucciata.
Il fiato le si mozzò in gola, un gemito le sfuggì dalle labbra. Chiuse gli occhi e li riaprì, ed ecco che l’ombra era svanita.
«Chi c’è?»
Scacciando la paura, prese ad aggirarsi tra gli scaffali del negozio. Aveva il respiro accelerato.
Il respiro...
Si tappò naso e bocca, e rimase in ascolto. Possibile che udisse un secondo respiro? Provò a inseguire quel soffio flebilissimo, ma forse si ingannava. Dopo un poco, quel suono sparì tra i tanti scricchiolii di C’era una volta. Fanny si fermò davanti allo specchio di un grosso armadio di noce, e le vennero in mente le fiabe che Gennaro le raccontava da bambina, dei munacielli che infestavano le vecchie case di Napoli, che rubavano il cibo e nascondevano il denaro.
Cosa aveva visto davvero? Cosa aveva sentito?
Osservò il proprio riflesso. Si trovava diversa. Era più magra e più piccola del solito, e molto più pallida. Forse era il tempo di fuori che si rispecchiava sul suo volto grigio.
Dov’è finito il sole?, si chiese.
Era facile, nella nebbia, veder aggirarsi i fantasmi.
Il signor Marone tornò alle sette e per cena portò una focaccia. Fanny notò che ne metteva un pezzo nel forno. Da un sacchetto tirò fuori l’ennesima bottiglia di whisky e stavolta la nascose in un portaombrelli. Improvvisamente, si mise a canticchiare.
«State contento?» chiese Fanny, sbirciandolo dal bordo in legno della dormeuse.
Tra i baffi dell’uomo apparve lo spettro di un sorriso.
«Ci siamo. So che lingua è.»
Fanny saltò sul divanetto, lo scavalcò, corse in cucina. Dalla tasca della giacca, l’antiquario tirò fuori le fotografie che mostravano i due lati della moneta. Fanny gliele strappò di mano.
«Calma, calma!»
«Che c’è scritto?»
«È alfabeto fenicio, il più antico alfabeto conosciuto.»
«Il più antico?»
«Mille anni prima della nascita di Cristo! I mercanti d’Oriente lo usavano per trafficare nel Mediterraneo.»
Fanny avvertì il bisogno di sedersi. Scivolò sul pavimento della cucina.
Mille anni prima della nascita di Cristo.
Voleva dire che la sua moneta poteva avere tremila anni.
L’antiquario non parve notare il suo sconcerto e, pieno di entusiasmo, continuò a dissertare sulla bellezza del sistema di scrittura fenicio.
«Un alfabeto esclusivamente consonantico, a cui solo più tardi vennero aggiunte le vocali...»
«Che c’è scritto sulla mia moneta?» lo interruppe Fanny.
Soltanto allora il signor Marone si rese conto che la ragazza era a terra. In un istante passò dall’entusiasmo allo stupore, e infine parve ricordarsi che la questione riguardava un essere umano, e non una moneta.
«Abbiamo riconosciuto una parola.»
La sua voce era più cauta, adesso. La invitò a osservare le linee che correvano intorno al bordo della moneta, e con il pollice indicò un gruppo di tre lettere.
«B – T – L. Betilo. Letteralmente significa ’la casa del dio’. Per i popoli semitici, il betilo era una pietra sacra, concepita come dimora o rappresentazione di un essere divino venuto dal cielo. Leggende, naturalmente. Queste pietre non erano che frammenti di meteoriti caduti, che gli antichi veneravano come divinità. Le tenevano sospese nei templi, sopra gli altari, e credevano che fungessero da amuleti.»
Fanny prese la moneta dalla tasca dei pantaloni, per osservare dal vivo quelle linee oscure.
Betilo. La casa del dio. La pietra sacra. Betilo. La casa del dio. La pietra sacra. Betilo...
«Non troverò mai i miei genitori.»
Era la prima volta che aveva un simile pensiero. Affondò il volto tra le ginocchia.
L’antiquario non disse nulla. Non voleva mentirle. Sperando di darle un po’ di conforto, preparò una cioccolata calda.
Fanny si svegliò di soprassalto. Nelle sue orecchie ancora echeggiava il boato tremendo del mare, che si spingeva sempre più alto e affamato verso la città. Lasciò la dormeuse e corse in cucina a bere, ripetendosi che era solo un sogno. Se Gennaro fosse stato lì glielo avrebbe smontato pezzo per pezzo, e le avrebbe detto che non c’era nulla da temere, che i sogni sono il posto dove i vivi e i morti s’incontrano. Ma era proprio questo che le faceva paura. I vivi e i morti non dovrebbero incontrarsi.
Avrebbe voluto dirglielo una volta per tutte. Parlare con l’uomo che per quattordici anni si era finto suo padre, che le aveva raccontato storie, e chiedergli perché. Perché i morti non sono morti e basta. Perché i vivi devono fare i conti con loro. Perché non posso essere tua figlia?
Fu tanto lacerante il desiderio di una risposta che prese il telefono e compose il numero di casa. Al primo squillo, terrorizzata da quel suono, attaccò.
Che stava facendo? Rimase immobile ad ascoltare i suoi pensieri confusi. Gennaro le mancava. Ma quella malinconia durò il tempo di un lampo. Dal negozio saliva una musica.
Fanny scese di sotto. Note misteriose aleggiavano tra le pareti di C’era una volta, e lei le seguì, come aveva fatto quel pomeriggio quando aveva colto un leggero ansimare.
Ti troverò, piccolo munaciello. Ti strapperò il cappuccio. Ti costringerò a dirmi dov’è il tuo tesoro.
Si fermò davanti al grosso armadio di noce. Dal fondo del negozio giungeva una luce fioca, ma se la fece bastare. Aprì l’anta dell’armadio. Cappotti, tute da sci, sari indiani, abiti da sposa, tutù di tulle. Lì dentro la musica era più forte. Posò l’orecchio contro la parete interna del guardaroba, per capire se il suono provenisse dall’appartamento a fianco. Le si piegavano le ginocchia a quel ritmo. Le piaceva, era un misto di trombe e sax, di voci bagnate di miele. Guardandosi i piedi, le venne una strana idea. Che forse la musica non veniva dall’appartamento accanto al negozio. Forse veniva da sotto. Si distese nell’armadio, respirò polvere, trattenne uno starnuto. Stavolta posò l’orecchio a terra e capì subito di avere ragione: la musica saliva da sottoterra.
Uscì precipitosamente dal guardaroba, si mise di fianco, poi di spalle. Spinse con tutte le sue forze, ma l’armadio era inchiodato al pavimento. La sua immagine allo specchio le rimandò un’espressione di sfida. Rientrò nell’armadio e di nuovo si stese sul fondo, formato da una serie di pannelli di legno. Batté con pugno leggero e scoprì che l’eco cambiava da un pannello all’altro: doveva essercene uno cavo. Si mise carponi. Sentiva in testa la voce di Gennaro.
Sai dove sta il munaciello? A volte in fondo a un pozzo, altre in un vecchio armadio, dove stanno ammucchiati tutti gli spiriti.
Con le unghie trovò degli spiragli e sollevò il pannello. Una botola.
Una scala a pioli portava nelle viscere della terra, una luce si alzava dal basso. L’emozione le strappò il respiro dal petto. Scese in quello stretto cunicolo. Respirò aria fredda, l’odore del tufo le inebriò i sensi; i piedi, avvolti nei calzini di lana, si appoggiavano sui pioli di ferro; tra le mani restavano tracce di ruggine. La musica l’avvolse, morbida come ovatta, ed esplose quando il cunicolo si aprì in una volta di pietra.
Il sotterraneo era male illuminato, ma Fanny sentì immediatamente che non era vuoto. Pensò di trovarsi nel deposito del negozio, dov’erano stipati oggetti di poco valore, troppo vecchi per essere venduti, oppure rotti. Ma quando i suoi occhi si abituarono alla semioscurità, si accorse che quelle anticaglie erano molto diverse da quelle accumulate di sopra. Racchette da tennis tramutate in specchi, un televisore trasformato in acquario, vasi e lampade ricavati praticamente da qualsiasi cosa: mollette, dischi, cappelli a cilindro, posate. Era come se qualcuno avesse dato una seconda vita a tutti quegli oggetti. Fanny restò senza fiato nel vedere un pianoforte a coda appeso al muro, aperto e scavato per accogliere scaffali pieni di libri di Jules Verne.
Ma quando notò il letto, la meraviglia divenne orrore. Sul materasso, un fagotto di lenzuola e coperte di lana.
Qualcuno vive qui.
Una stufa, una radio – era da lì che veniva la musica –, un fornello elettrico. Su uno sgabello, un piatto con residui di carne. Sparse per terra, dozzine di bottiglie di amari e liquori. Una porticina aperta su un bagno. Una scala a pioli, che dava sulla fenditura affacciata sulla strada.
D’un tratto, Fanny capì dove finivano il latte, il cibo e l’alcol. Capì come si era aperta la porta, la notte in cui si era intrufolata nel negozio. E capì chi aveva ritrovato la sua moneta quando l’aveva persa il primo giorno.
Lo sguardo andò oltre, in cerca di qualcosa, di qualcuno. E lo trovò.
Protetto dentro una specie di nicchia, le volgeva le spalle, chino su una grossa scrivania. Non si era accorto di lei. Era talmente magro che la felpa gli cascava addosso come un mantello. I capelli di cenere, lunghi fino alle spalle, raccolti in un codino. Armeggiava con qualcosa, dei fili di ferro, della paglia.
Fanny mosse qualche passo. Si aspettava che svanisse, ma lui restò dov’era sempre stato.
«Ciao», gli disse.
Il munaciello sobbalzò, la sedia cadde a terra. Si appiattì con le spalle al muro, e forse avrebbe voluto attraversarlo, come fanno i fantasmi per sottrarsi allo sguardo dei vivi. Ma non poteva, perché era fatto di carne e ossa.
Doveva avere sedici, diciassette anni. Metà del volto era scorticata da un’enorme cicatrice. Riluceva, come un piatto lucido e roseo, deturpandogli il lato sinistro, dalla guancia al collo.
Come se fosse una ferita fresca, e potesse sentire su di sé la sua sofferenza, Fanny si toccò il viso.
«Che ti è successo alla faccia?»
Il ragazzo abbassò il viso e si coprì con il cappuccio della felpa.
Fanny si fece più vicina. Il ragazzo ansimava. Quando la distanza si accorciò e i loro respiri si confusero, lui la spinse via e iniziò a correre. Attraversò il sotterraneo, sparendo oltre un arco di pietra che cadeva nel buio. Fanny urlò di aspettarla. Lo seguì, ma nell’oscurità inciampò in una ferraglia, una vecchia bicicletta. Rimase ad ascoltare i passi del ragazzo sperdersi nella terra.