Passò molto tempo. Tommaso si mosse per primo. Si avvicinò alla pozza ma sembrava tenersi pronto alla fuga, nel caso le sirene fossero ricomparse. Fanny lo raggiunse. L’acqua nera fluttuava sotto il suo sguardo, producendo una flebile risacca tra le rocce. Era completamente frastornata.
Cos’era successo?
Si sentì di nuovo strattonare: Tommaso la stava spingendo via. Fanny piantò i piedi a terra, lo fermò.
«Non vuoi mica andartene?»
Lui si girò a tagliarla in due con lo sguardo.
«Perché? Non capisci cos’è successo?»
Tommaso scosse la testa e le batté una mano sul petto. Lei lo capiva?
No, Fanny non lo capiva. Ma proprio per questo voleva scoprirlo. Quelle non erano sirene, si rese finalmente conto. Erano donne, donne che pregavano in un tempio antichissimo.
Tommaso prese il bloc-notes.
Torniamo a casa, lo diciamo al signor Marone, lui saprà che fare.
«Io so già che fare. Voglio seguirle.»
Tommaso scosse la testa. Raccolse lo zaino di Fanny, lei si rifiutò di prenderlo.
«Perché non possiamo seguirle?»
Il ragazzo continuava a scuotere il capo.
«Questa...» s’indispettì Fanny, imitando il suo gesto, «non è una risposta.»
Tommaso trattenne il respiro. Scrisse sul blocchetto: Può essere pericoloso.
«Allora ti metti a paura?»
Per un attimo le sembrò che volesse prenderla a pugni. Invece, lui continuò a scrivere.
La gente di sopra viene nella città di sotto. Fanno cose strane, cose come questa e cose peggiori. Pregano i morti, si pigliano a botte, nascondono segreti. Quando stanno sopra tengono delle maschere, ma quando stanno sotto e pensano che nessuno li vede se le tolgono. Le loro facce non sono belle, non sono buone.
Fanny rilesse quelle parole più volte, e lo fissò. Tommaso aveva uno sguardo pulito, non stava mentendo. Ma lei non poteva immaginare quello che avevano visto i suoi occhi.
«Va bene», mormorò.
Il ragazzo ne fu sollevato e imboccò il cunicolo che portava al pozzo. Fanny lo seguì, ma arrivata a metà strada si fermò. Non poteva farlo. Non poteva sentire il canto delle sirene e trovare la forza di resistergli.
Silenziosamente, tornò sui propri passi. Si sfilò il parka e gli anfibi, accese la torcia. Quando Tommaso si accorse della sua assenza, lei si era già lasciata cadere nella pozza.
Non sei obbligato a venire. Ma io devo sapere.
I pensieri si ghiacciarono, l’acqua le trapassò la pelle. Sembrava fatta di aghi, non di molecole. Il petto si compresse, il cuore rallentò, i denti sbatterono. Scivolò nel buco, reggendosi con le mani al soffitto. La volta le offriva appena lo spazio sufficiente per tenere la testa sollevata dall’acqua. L’eco dei suoi gemiti viaggiava lungo il tunnel, e per quanta luce facesse la torcia, Fanny non riusciva a vederne la fine.
Se ce l’hanno fatta quelle donne ce la faccio pure io.
Spinse i piedi sul fondo del cunicolo, per fare piccoli salti e avanzare più in fretta. C’erano intagli nelle rocce: simboli della dea Syria, disegni di ovali, ripetuti più e più volte, e nomi di donne – decine, centinaia –, date che risalivano a decenni – a secoli – prima.
Fanny avrebbe voluto soffermarsi su ognuna di quelle incisioni, ma il freddo le spezzava la schiena. La fenditura era lunga un centinaio di metri, oltre le pareti poteva sentire il ringhiare sordo delle onde del mare. Impiegò circa sette minuti a percorrerla. Alla fine, sbucò da un foro simile a quello del tempio, in una vasca di pietra custodita dalle statue di tufo di due mostri marini.
Una sala sotterranea. Gli abiti bianchi delle donne fluttuavano come fantasmi, sospesi su un fil di ferro davanti a una stufa. Fanny uscì dalla vasca e corse a scaldarsi. Si strappò di dosso i vestiti fradici e si avvolse in una coperta di lana, trovata in un armadio dall’anta distrutta.
Pensò a Tommaso. Stavolta non l’avrebbe seguita, aveva troppa paura che lo vedessero. Ma andava bene così, perché quella era la sua ricerca, si trattava dei suoi genitori. E nessuno poteva capire quanta urgenza avesse di arrivare fino in fondo.
Pian piano, il sangue riprese a circolare, la pelle divenne di nuovo rosea, il tremore diminuì. Fanny si fece forza. Mezza nuda, con addosso solo la biancheria e la parrucca, imboccò una rampa di scale e sollevò leggermente la botola che trovò in cima. Sopra era buio fitto, quindi osò alzarla del tutto e issarsi in superficie. Accese la torcia. Era finita in una dispensa di conserve, formaggi e salumi. Individuò una porta, ma prima di aprirla spense di nuovo la torcia.
Un piccolo corridoio tetro e polveroso. In fondo, un ritaglio di luce, da cui provenivano aroma di caffè e voci di donne. Con il cuore che le batteva ovunque – nello stomaco, in testa, sotto la pianta dei piedi – Fanny uscì dal magazzino e avanzò di un passo ogni mezzo minuto.
Le donne parlavano in dialetto. Prendevano in giro una loro conoscente, una donna che aveva perso la testa per un uomo sposato. Malata d’amore, la disgraziata aveva attentato alla vita della rivale cospargendo d’olio e strutto le scale di casa sua; poi, sbadata, aveva finito per cadere nella sua stessa trappola. Le donne risero. Il caffè era pronto, e per un po’ fu tutto un gorgoglio e un tintinnio di cucchiai e tazzine. Qualcuna cercava un fiammifero per accendere la sigaretta, un’altra propose di giocare a burraco.
Se Fanny avesse chiuso gli occhi avrebbe creduto di trovarsi nella Casa Rossa, una di quelle domeniche pomeriggio in cui la zia Filomena invitava cugine e amiche a prendere il caffè.
Che ci faccio qui?
Non erano quelle, le sirene che aveva visto nel tempio.
Uno scricchiolio alle sue spalle, colpi di tosse, una porta si aprì e si richiuse.
Fanny scivolò dietro una specchiera. Una donna passò nel corridoio, reggendosi a un bastone. La seguiva una scia di fumo, come una chioma trasandata. Si fermò sull’uscio della cucina.
«Addó sta Greta?» domandò. Aveva la voce roca di una fumatrice incallita.
«Dalla figlia», rispose qualcuno, «doveva badare alla creatura.»
La donna entrò, le chiacchiere s’interruppero. Appena vi fu un tentativo di riprenderle, la nuova venuta s’intromise e deviò quei vaniloqui: parlò del maltempo. Non sembrava un discorso ficcato lì per tappare un vuoto. La donna elencò gli incidenti che si erano susseguiti in quei giorni come se comunicasse un bollettino di guerra. Quando terminò, nessuna aveva più voglia di fare pettegolezzi.
«Allora», disse alla fine la voce roca, «che facciamo con ’sta storia?»
«E che possiamo fare, Tilde? Aspettiamo.»
«Aspettiamo», ripeté Tilde.
«E preghiamo.»
«Preghiamo.»
La donna chiamata Tilde scoppiò in una risata che si trasformò in un accesso di tosse.
Qualcuna si offrì di preparare dell’altro caffè. Per un istante l’atmosfera parve alleggerirsi, ma un colpo – come di un bastone battuto su un tavolo – ristabilì la tensione. La voce di Tilde tuonò in tutta la casa.
«Mentre voi dite le vostre preghiere, Napoli marcisce sotto la pioggia.»
Silenzio. D’un tratto tutte loro, compresa Fanny, poterono percepire lo scroscio sui vetri. Quella pioggia che cadeva e cadeva, che s’infilava nella terra porosa, che rendeva fragili le esistenze di un’intera città.
«Tilde tiene ragione», disse un’altra voce femminile. «’A verità? A me tutta ’sta pioggia m’impressiona.»
«Pure a me, non la sopporto più. Tengo le ossa fracete.»
Le donne presero a lamentarsi del cattivo tempo, della scomparsa del sole, delle sciagure che colpivano Napoli. Fino a quando una voce spiritata s’insinuò tra loro.
«Sorelle, sorelle, perché vi sorprendete? Era la pietra a tenere in equilibrio le forze della natura. Da quando è sparita, l’equilibrio si è rotto. È normale. Ma non temete: noi facciamo quello che dobbiamo per riprendercela.»
«La pietra non è sparita.» Di nuovo la voce roca di Tilde. «E tu, Lucina, tu per riprendertela non stai facendo proprio un cazzo.»
«Stiamo pregando.»
«Le preghiere sono solo parole.»
«Solo parole!» gridò scandalizzata Lucina. «E le tue parole, Tilde, sono parole o sono veleno?»
«Se tenessi le forze...»
«Ma non ce le hai.»
«Non ce le ho, ma tengo l’immaginazione, Lucina. E qua dentro, nella testa mia, ti sto torcendo il collo come a una vecchia gallina.»
Nella cucina calò un altro tremendo silenzio.
«La pietra non è sparita», ripeté Tilde. «È stata presa.»
«Certo, però, vedete voi la coincidenza!» commentò una vecchia. «Tra tanti uomini che potevano prendere la pietra, proprio quell’infame.»
«Coincidenze, coincidenze», disse Lucina. «Per la Grande Madre non esistono coincidenze. Ma gli occhi suoi, che stanno più in alto dei nostri, vedono ogni cosa e noi ci dobbiamo fidare.»
«Perché non gli scriviamo una lettera?» disse una donna, ignorando il discorso di Lucina.
«A chi?»
«All’assessore!»
Fanny affondò le unghie nella carne. Il petto le bruciava, tanto a lungo aveva trattenuto il fiato. Era dell’assessore d’Avalos che stavano parlando?
«Gli scriviamo una bella lettera anonima. Lo minacciamo! Gli diciamo che deve riportare la pietra al tempio. Così si caca sotto.»
«Eh, già!» intervenne un’altra donna. «Mo l’assessore si caca sotto per la lettera che gli scrivi tu. Ma se a stento tieni la quinta elementare!»
Esplose una discussione, le voci si alzarono, ma quella di Lucina arrivò più in alto delle altre.
«Sorelle! Sorelle, dove sta la vostra fede? Dimenticate che la Grande Madre è clemente e che ha benedetto le nostre vite? Tu, Pinu’, tu non la volevi una figlia femmina, e non l’hai forse avuta? E tu, Nunziati’, quanto hai pregato perché tuo marito avesse quel lavoro alle poste? L’ha ottenuto o no? Cinzia, tu, che l’altro anno sei guarita dal male incurabile. Tu, che conosci gli occhi della morte. Dicci come l’hai sconfitta.»
«Con le preghiere.»
«Le preghiere saranno pure parole, ma sono parole di fede. La fede è luce, e più si fa scuro più forte deve brillare. Andremo ancora al tempio e pregheremo per il ritorno della Pietra Sacra.»
Un brusio di consensi attraversò la cucina.
«La Grande Madre non ha mai lasciato sole le sue figlie.» I piedi percossero la terra, le mani i tavoli. «E mai le lascerà.»
Tutte insieme, le donne invocarono Atargatis. La voce graffiante di Tilde fu l’unica fuori dal coro. Disse che erano un branco di scimmie e che si erano spidocchiate pure il cervello.
Fanny sentì scrosciarle addosso una cascata di vertigini. Non era per quei discorsi allucinati o quella follia collettiva, che pure la turbava immensamente. C’era qualcos’altro. Le ultime parole della donna chiamata Lucina.
La Pietra Sacra. Le aveva già sentite.
La pietra sacra. La casa del dio.
Rivide il signor Marone, nella sua cucina.
Betilo. La pietra sacra. La casa del dio.
Quella strana parola fenicia, incisa sulla sua moneta. Betilo.
All’improvviso, Fanny non aveva più alcuna voglia di trovarsi lì. Si voltò e s’incamminò verso il magazzino, sforzandosi di rendere leggeri i suoi passi.
Poi una voce roca alle sue spalle.
«E tu chi cazzo si’?»