19

La investì un odore orrendo, di tabacco e abiti polverosi, di malattia e piaghe aperte. Su di lei comparve un viso squadrato, magrissimo, scolpito nelle rughe. La donna l’afferrò per i capelli, sfilandole la parrucca rossa. Per un istante s’illuse di sfuggirle. Ma l’arpia le torse un braccio e, tenendola stretta come se ne andasse della sua vita, la trascinò in cucina. Le donne gridarono, come un nugolo di galline razzolanti.

Stesa a terra, mezza nuda, Fanny alzò lo sguardo. Su di lei incombevano una cappa di fumo, un tavolaccio di legno e quei volti – quanti erano? Nove? Dieci? – resi vecchi da una vita di lotte e miserie.

La ragazza capì di aver profanato la sacra intimità di quelle donne. Quando una di loro si fece il segno della croce, Fanny non capì più quale divinità pregasse.

«Chi si’?» domandò la voce indemoniata di Lucina.

Fanny la riconobbe, era una delle donne che aveva visto nel tempio. I capelli nerissimi, le guance graffiate da qualche antica malattia, alta e dinoccolata come una betulla morente. Si precipitò su Fanny e le sollevò il mento con un gesto brusco. Lei non disse una parola. Nessuno l’aveva mai sorpresa a violare la propria casa. Era la prima volta che le capitava, e provava una paura e una vergogna così intense da soggiogarla.

Le donne facevano domande. Cosa aveva sentito? Cosa voleva da loro?

«Rinchiudetela.»

Mentre le altre discutevano, Tilde decise per loro. Fanny la fissò negli occhi e sentì uno scossone nell’anima. Erano due pozze nere, che luccicavano su un volto ridotto a un teschio.

La trascinarono via, la rinchiusero in un gelido bagno dalle piastrelle bianche e lilla, senza finestre.

Fanny non oppose la minima resistenza. Ci volle del tempo, prima che cominciasse a riprendere contatto con la realtà. Aveva la pelle d’oca. Si coprì con un asciugamano e si riparò nella vasca.

Dall’altra parte della parete le giungeva un mormorio di voci. Posò un orecchio contro il muro, ma non riuscì a cogliere nemmeno una parola. Cos’avrebbero fatto di lei? L’avrebbero imprigionata? Torturata? Ammazzata? Avrebbe dovuto dar retta a Tommaso, lui l’aveva avvisata.

Dopo un quarto d’ora sentì la chiave girare nella toppa. Lucina entrò nella stanza da bagno, accendendo la luce. Fanny strizzò gli occhi. Tra le mani, la donna stringeva la parrucca rossa, la torcia frontale e gli abiti che la ragazza si era tolta nel sotterraneo.

«Che hai visto?»

Fanny affondò il volto tra le ginocchia. Che senso aveva mentire?

«Che hai visto?»

«Il tempio», mormorò.

Lucina lasciò cadere i vestiti a terra. Si sfregò la fronte, che subito si arrossò. Nella sua angoscia, Fanny vide aprirsi una crepa.

«Vi prego... Vi prego, non dirò nulla. Volevo solo capire chi siete.»

Non aveva con sé la moneta per giustificare la propria presenza in quella casa. E forse, se anche l’avesse avuta, non l’avrebbe mostrata a quelle fanatiche. Era troppo preziosa, e le donne gliel’avrebbero tolta.

Lucina s’inginocchiò accanto alla vasca. Le unghie, dure come legno, scivolarono sulla pelle nuda del braccio di Fanny, provocandole una scossa.

«Capire chi siamo. Nennella, tu si’ ’nu piezzo ’e tiempo. Come la capisci l’eternità?»

Fanny la fissò negli occhi.

«Che mi volete fare?»

La donna non rispose. Si alzò, fece per uscire.

«E Atargatis?» disse Fanny.

Lucina si paralizzò sulla soglia. Tornò indietro e la prese per i capelli.

«Non pronuncerai invano il Suo nome!»

Tirò più forte, solo per sentirla gridare. Se ne andò, lasciandola con gli occhi pieni di lacrime.

Le ore della notte trascorsero pesanti. Fanny non era padrona di sé. Non comprendeva la realtà di quel luogo e di quelle donne, e non sapeva come comportarsi. Se avesse incontrato delle vere sirene, la sua meraviglia sarebbe stata poco più grande. Decine di domande le bruciavano dentro. La moneta. La sirena. Il tempio sotto Monte Echia. La Pietra Sacra.

Cosa c’entrava tutto questo con lei?

Tu si’ ’nu piezzo ’e tiempo. Un pezzo di tempo. Che voleva dire?

Improvvisamente, nel bagno cominciarono a fluttuare gigantesche bolle di sapone. S’inglobavano le une nelle altre, cambiando forma e colore. Acquattato all’altro capo nella vasca, Pulcinella le modellava con le sue mani, come un prestigiatore.

«Che pensi?» le chiese.

«Che non ci capisco niente», disse Fanny.

«Una volta conobbi un tale. Era molto vecchio, e tutti dicevano che era saggio. Quando sei molto vecchio o sei un saggio o sei un citrullo. E quel tale, che non era un citrullo, mi disse: ’Pullecene’, finalmente ho capito tutto della vita!’ E io gli dissi: ’Bravo! E che hai capito?’ ’Ho capito’, disse lui, ’che era meglio se non ci capivo niente.’»

Fanny non ascoltava. I suoi discorsi da buffone la interessavano ben poco.

«Tu non puoi farci niente, Pullecene’? A che servi? Perché non mi aiuti a uscire di qui?»

«Aiutarti? E come?»

«E io che ne so? Perché non... non fai una magia e apri quella porta?»

«Piccere’, e jamme! Ci vuole una magia, per aprire una porta?»

Pulcinella soffiò una bolla grandissima, che le esplose sul volto.

Fanny spalancò gli occhi. Era di nuovo sola, i colori del sogno erano sbiaditi, il freddo le spezzava le ossa. Nel corridoio, rumore di passi, voci. Discutevano, in attesa che tornasse una certa Greta. Non sapevano ancora cosa farsene di lei. Una risata gracchiante condì una frase: iettàmmela a mmare, accussì decide ’o mare, si vive o si more. Fanny ebbe un singulto. Quando i passi delle donne si furono allontanati, uscì dalla vasca da bagno.

Volevano buttarla a mare. Davvero lo avrebbero fatto? Non poteva aspettare di scoprirlo, non poteva restare lì. Doveva fuggire.

Pensa, s’impose. Pensa.

Il bagno era stretto e lungo, non aveva finestre, solo una porta chiusa a chiave.

La chiave.

Fanny corse a controllare la serratura. Nel buco vide rilucere la punta della chiave, rimasta inserita dall’altra parte. Come aveva potuto non pensarci prima? Quante porte aveva aperto, nelle sue esplorazioni! Pulcinella aveva ragione: non ci voleva una magia per aprire una porta.

Cercò qualcosa di appuntito nei mobiletti del bagno. Trovò un paio di pinzette, che provò invano a ficcare nella toppa: erano troppo spesse. Le serviva qualcosa di più sottile. Vide un pettine e ne spezzò un dente. Lo infilò nella serratura e riuscì a toccare la chiave.

Adesso le serviva qualcosa che passasse sotto l’uscio, un foglio, un telo. Strappò dei pezzi di carta igienica. Tendendo le orecchie, si accertò che nei paraggi non ci fosse nessuno. Fece scorrere un lembo di carta sotto lo spiraglio della porta, quindi ficcò di nuovo il dente del pettine nella serratura. Toccò ancora la punta della chiave, premette più a fondo.

Ti prego.

La chiave cadde con un tintinnio. Si augurò che fosse atterrata nel punto giusto, perché non avrebbe avuto una seconda opportunità. Tirò l’orlo di carta, lo fece passare sotto la porta. La chiave era lì sopra.

Tesissima, tremante, Fanny faticò a infilarla nella serratura. Ma alla fine la porta si schiuse.

Le donne erano ancora in cucina, fumavano e chiocciavano, quelle vecchie galline.

A piedi scalzi, senza far rumore, Fanny arrivò in fondo al corridoio. Nel buio del magazzino, urtò contro uno scaffale, e una bottiglia di vetro cadde ed esplose.

Un istante di silenzio agghiacciante, e poi passi pesanti si precipitarono nel corridoio.

Fanny corse a serrare la porta della dispensa col chiavistello. Calpestò schegge di vetro, che le si conficcarono nella carne. Una pioggia di pugni si abbatté contro la porta. Gracchiarono furiose, le streghe.

«Andate a farvi fottere dai vostri dèi!» gridò Fanny.

Un colpo fortissimo alla porta la fece tremare.

Fanny aprì la botola, scivolò sottoterra. A metà scalinata inciampò, batté la testa contro il muro. Tornò subito in piedi. Il mondo vorticava, in bocca aveva il sapore del sangue, ma non si fermò. Corse nel sotterraneo, si gettò nell’acqua gelida, prese a nuotare senza risparmiare energie. Si spinse con i piedi, si trascinò con le mani, non si fermò mai. Ingoiò acqua salata. Poi, come un miraggio, intravide l’uscita del cunicolo, l’ingresso al tempio.

Ci arrivò senza fiato. Cianotica, un pezzo di ghiaccio. Il sangue le colava dalla fronte al collo. A stento riuscì ad aggrapparsi con le dita ai bordi della pozza, ma poi perse la presa e ricadde in acqua. Un grido strozzato le uscì dalla gola.

Prima che il buio la divorasse, una mano l’afferrò e la trascinò fuori da quella tomba di ghiaccio.

Con i piedi saldi a terra, vide Tommaso correre a prendere il suo parka. Aiutandola a sorreggersi, la portò fuori dal tempio.