Il signor Marone non aprì bocca per tutto il tragitto di ritorno. Camminava con passi ciondolanti, diversi metri davanti a lei, e mai una volta si girò per accertarsi che la ragazza lo seguisse.
Quando rientrarono nel negozio, Fanny era sicura che l’aspettasse una sfuriata, che l’antiquario di nuovo minacciasse di chiamare la polizia. Si sbagliava. L’uomo era immerso in pensieri tanto profondi da essersi dimenticato di ogni cosa, forse perfino dell’esistenza stessa di Fanny.
«Non mi dite nulla?» gli chiese infine. «Cos’è successo con l’assessore?»
Lui non la sentì. Quando cominciò a sbattere le ante dei mobili, Fanny si spaventò. Si muoveva con scatti irruenti e maldestri, e finì per rovesciare una pianta. Il terriccio si sparse sul tappeto. Fanny fissò i suoi occhi, la sclera arrossata dei capillari rotti. Era ubriaco.
L’antiquario chiamò Tommaso. Sbraitò il suo nome, finché il ragazzo comparve.
«Dammi da bere.»
Tommaso scoccò un’occhiata a Fanny e poi all’antiquario che dondolava in mezzo alla stanza.
Con una manata, l’uomo spazzò da un mobiletto un vassoio e tre tazzine ancora piene di caffè. Si frantumarono ai piedi di Fanny, che si portò una mano alla bocca per soffocare un grido. Il signor Marone raggiunse Tommaso, lo scrollò per le spalle.
«Dammi da bere.»
Tommaso scrisse sul suo bloc-notes: Avete già bevuto.
L’antiquario gli prese il volto, lo strinse come se avesse avuto due tenaglie al posto delle mani. All’inizio Tommaso non reagì, ma poi ricambiò con lo stesso gesto. Sollevò le braccia distese lungo il corpo e prese a comprimergli le guance, senza smettere di guardarlo. Tommaso parlava con gli occhi e in quel momento gli stava affondando un pugnale nel cuore. Quando lo sentì, l’antiquario si afflosciò come una bambola di pezza.
Si scostò dal ragazzo, il volto paonazzo sbiancò per la vergogna.
«Mi dispiace...»
Gli mise una mano dietro la nuca, lo trasse a sé, gli baciò la fronte.
«Mi dispiace.»
E si lasciò andare singhiozzante sulla sua spalla.
Fanny non si mosse. Lo sguardo che Tommaso le rivolse mentre sorreggeva l’antiquario per accompagnarlo in camera le penetrò dentro, come un amo tra le viscere. Per un attimo, il signor Marone si accasciò contro la parete del corridoio, e la casa tremò fin nelle fondamenta. Fanny immaginò che un filo sottilissimo, invisibile come le tele dei ragni quando il sole le trafigge, legasse l’antiquario al suo negozio, e se uno dei due si fosse spezzato allora anche l’altro sarebbe andato a fondo.
Fanny attese il ritorno di Tommaso. Ricomparve nel salotto un quarto d’ora dopo e si accovacciò sui bordi della dormeuse. Scrisse sul blocchetto.
Sta meglio. Mo dorme.
Lei giocherellava con la chiave e la moneta.
«Capita spesso?»
Tommaso scrollò le spalle.
«Mi dispiace», disse Fanny, «è colpa mia.»
Il ragazzo annuì con durezza, come se volesse punirla per qualcosa. Poi la guardò di sottecchi e scrisse frettolosamente: Non è colpa tua. A Natale è sempre così, gli manca di più.
Fanny stava per chiedergli a chi si riferisse, ma lo capì da sola. Sua moglie. Ricordò il biglietto che aveva trovato nella stanza dell’antiquario, accanto a una cravatta ancora impacchettata. Si chiamava Maria. Solo in quel momento Fanny si rese conto che il signor Marone le aveva dato il nome di sua moglie, per presentarla all’assessore.
«Cosa le è successo?»
Teneva una brutta malattia alle ossa. Non se lo meritava, era una brava donna.
«Tu la conoscevi?»
Gli occhi di Tommaso scivolarono via dai suoi.
Era la mia maestra. Indugiò qualche secondo con la punta della penna sul foglio. Quando ero alle elementari, venivo qui da lei a leggere libri di avventura.
Fanny gli fissò le cicatrici. Lui si accorse della direzione del suo sguardo e tirò un lembo del cappuccio, chiudendo in fretta quello spiraglio sul suo passato.
Ha detto che stasera l’ha vista.
«Chi?»
Sua moglie. Pensava a lei, e per un attimo l’ha pure vista. Nello studio dell’assessore.
Fanny considerò la faccenda.
«Era ubriaco», disse.
Pensò che dovesse essere un inferno amare tanto una persona e dover imparare a vivere senza di lei.
Il giorno successivo la svegliò il gracchiare di un carro che passava per la strada dell’Anticaglia.
«Salviamo il teatro Instabile! Salviamo il patrimonio culturale della città!»
Udì dei rumori in cucina e trovò il signor Marone occupato a preparare la colazione. Gli domandò se stesse bene. L’antiquario, che stava ancora smaltendo la sbronza, sobbalzò al suono della sua voce. La invitò a sedersi e prese posto al suo fianco. Era tale l’imbarazzo che non riusciva a guardarla negli occhi.
«Lazzarona, per ieri sera...»
«Mi dispiace», lo anticipò Fanny prima che lui aggiungesse altro. «Mi dispiace avervi seguito. Voi mi state aiutando e io non faccio che crearvi problemi.»
Lui restò qualche istante in silenzio.
«Abbiamo tutti le nostre debolezze. Ci servono soprattutto a perdonare quelle degli altri.»
Si scambiarono un sorriso di resa.
L’antiquario si protese verso di lei e un lampo gli accese gli occhi.
«Ho visto la pietra.»
Finalmente, il signor Marone le rivelò ogni dettaglio delle sue indagini.
In quei giorni aveva fatto delle ricerche sull’area di Pizzofalcone. Non aveva trovato nulla sul culto di Atargatis, ma aveva scoperto che Monte Echia era un alveare di grotte, dove per secoli si erano tenute feste pagane e riti di ogni sorta. Molto prima che vi sorgesse il Castel dell’Ovo, prima ancora che Lucullo lo scegliesse per la sua villa, sotto quel pezzo di terra gli uomini avevano dialogato con gli spiriti e pregato gli dèi. La ragione era semplice: in quel punto si riteneva che fosse nata la città di Napoli.
Era il luogo d’origine, un luogo magico.
Con la scusa di tenerlo informato su queste nuove scoperte, l’antiquario era riuscito a ottenere un appuntamento con l’assessore d’Avalos. Quando si erano chiusi nello studio, l’assessore gli aveva offerto da bere.
«Si tratta bene, il signore. Rum El Dorado. Uno dei più costosi al mondo.»
Il signor Marone gli aveva parlato della dea sirena Atargatis. Aveva bluffato, sostenendo di aver trovato un antico documento in cui si attestava l’esistenza di un tempio dedicato alla dea, sotto Monte Echia. Sperava così che l’assessore confessasse il suo ritrovamento.
«E ha confessato?» domandò Fanny.
L’antiquario scosse il capo. Fanny non ne fu sorpresa.
«Ma almeno vi ha creduto?»
«Non lo so, lazzarona. Voleva sapere di che documento si trattasse. Ho inventato. Ho detto che il testo non era ancora nelle mie mani, ma che lo sarebbe stato presto. Comunque, l’assessore era colpito. Voleva sapere di Atargatis, era interessatissimo alla sirena. Abbiamo continuato a bere.»
All’improvviso, preso da una strana frenesia, l’assessore d’Avalos aveva aperto il cassetto della scrivania e aveva tirato fuori un oggetto. Una pietra. L’antiquario non poteva avere la certezza assoluta che fosse la stessa pietra che prima stava nel tempio. Quando aveva mostrato il suo interesse, l’assessore l’aveva subito messa via, dicendo che si trattava di un vecchio sasso portafortuna. Lui aveva insistito per vederla, e per quanto restio l’assessore aveva infine ceduto.
«E com’era?» chiese Fanny.
L’antiquario impallidì. Esitò.
«Era solo una pietra. Piccola, tra l’altro. Non più lunga di una ventina di centimetri.»
Poi però tacque, all’improvviso, e Fanny gli lanciò uno sguardo perplesso. Cosa le stava nascondendo? Lui proseguì a voce più bassa, stavolta parlando a se stesso.
«Era nera... o così mi è parsa all’inizio. Però a guardarla sembrava riempirsi di venature colorate. Credo che fossero rosse... ma forse mi sbaglio, forse erano blu, o verdi. Una cosa bellissima. Possibile che l’abbia dimenticata? Era fredda, come certe correnti d’acqua, quando ti spingi al largo. E... e aveva questa strana forma ovale.»
L’antiquario disegnò la sua sagoma nell’aria.
«Era solo una pietra...» ripeté.
Poi fece silenzio. Fanny dovette chiamarlo più volte per invitarlo a proseguire il suo racconto. Lui si riscosse, come da un sogno.
«L’assessore continuava a riempirmi il bicchiere...» disse.
Così avevano bevuto ancora, e ancora, e l’antiquario aveva osato spingersi oltre. Aveva chiesto se l’assessore stesse cercando qualcosa, sotto il monte. O se lo avesse già trovato.
«Che vi ha detto?»
L’assessore d’Avalos lo aveva guardato a lungo, senza rispondere. Gli aveva di nuovo riempito il bicchiere.
«Mi ha fatto un’altra domanda», disse il signor Marone.
Pensa ci sia qualcosa di vero, dietro i miti di Virgilio Mago?
Fanny non riusciva a spiegarsi perché tutt’a un tratto il cuore le battesse più forte.
L’antiquario si alzò a prendere un bicchiere d’acqua.
«Che gli avete detto?»
«Che Napoli fa sempre così con i grandi uomini, li trasforma in miti. Il poeta è diventato un mago capace di ripopolare il mare di pesci, di guarire i cavalli, di scacciare mosche e pestilenze...
«Lui ha ribattuto che la sua domanda era diversa. Voleva sapere se ci fosse qualcosa di vero in quelle leggende. Io ho risposto che qualcosa di vero c’è sempre, ma quando si tratta delle leggende popolari di questa terra, vecchie di secoli o millenni, c’è da impazzire. Possiamo scavare, arrivare al centro del pianeta e spuntare dall’altra parte, ma nella maggioranza dei casi quello che ricaveremo saranno solo altri racconti. Racconti che rimandano ad altri racconti, in un gioco di specchi. Viviamo in quella parte di mondo in cui chiunque cerchi la verità è destinato a trovare storie.»
Nella cucina calò un lungo silenzio. Fanny sentì le campane della chiesa battere due volte di seguito. Segnavano la mezz’ora.
«Perché vi ha chiesto di Virgilio?»
L’antiquario non si mosse. Un velo di pensieri si era posato sulla sua fronte.