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Fanny percorse un passaggio tra le piante. Fissò gli stivali imperlati d’umidità pestare le foglie bagnate, che aderivano al terreno. Non riusciva a credere di essere lì. Raggiunse la vetrata che dava sulla sala da pranzo, aprì la porta finestra, e Tommaso fu attento a richiuderla. Qualunque cosa toccassero dovevano rimetterla a posto, si erano detti. Avrebbero portato via solo la pietra.

Dentro, il buio era fitto, spezzato dai fasci bianchi delle torce. Fanny faceva strada, Tommaso le copriva le spalle. Entrambi percepivano la paura dell’altro, ma fermarsi ora e tornare indietro sarebbe stato folle.

Entriamo, prendiamo la pietra, ce ne andiamo.

Fanny aprì la porta dello studio. Si ritrovò in una stanza rotonda, che le ricordò le torri delle fiabe. Un’intera parete era occupata da una vetrata che affacciava sul golfo di Napoli; al centro si fronteggiavano due divani di cuoio scuro, e più in là una scrivania. La indicò a Tommaso. Lui rimase di guardia alla porta mentre Fanny correva ad aprire i cassetti.

Entriamo, prendiamo la pietra, ce ne andiamo.

Con le mani che tremavano, frugò tra gli effetti personali dell’assessore.

Entriamo, prendiamo la pietra... Documenti, cartelle, agende, penne... Ce ne andiamo... Libri, calcolatrici, rubriche, lettere...

La pietra, pensava, e quella parola le avvitava il cervello, la pietra.

Dov’era la pietra?

«Non c’è.»

Nonostante le sue parole fossero poco più di un sussurro, Tommaso capì. Con uno scatto fu al suo fianco e cominciò ad aprire e richiudere i cassetti.

«Il signor Marone ha detto che stava qui...» disse Fanny, e sembrava che la sua voce fosse sul punto di spezzarsi. «Ti giuro, lo ha detto!»

Tommaso lasciò perdere la scrivania. Le ordinò di calmarsi, di cercare altrove. Fanny obbedì, sollevata che le venisse detto cosa fare. Ispezionò gli scaffali alle spalle della scrivania, ma non trovò niente che somigliasse a una pietra. Tommaso non ebbe maggior fortuna con le librerie sul lato opposto dello studio.

«Magari sta in un’altra stanza», mormorò Fanny.

Lo disse per non dire quello che sentiva davvero. Che era pericoloso e sbagliato trovarsi lì quella notte. Inutile, soprattutto. Tommaso doveva pensarla allo stesso modo.

Uscirono dallo studio. Le tenebre della casa li travolsero, pesanti come un corpo morto.

Fanny non aveva paura, mai, quando vagava da sola al crepuscolo, tra i ruderi del Moiariello. Ma l’assenza dei vivi può essere più spaventosa della presenza dei morti, e l’assessore d’Avalos sembrava nascondersi dietro ogni porta, in ognuna di quelle stanze.

Che facciamo?, avrebbe voluto dire. Si morse la lingua. Era stata lei a trascinare entrambi in quella casa, per una ragione che le sembrava tanto valida e forte, prima, quanto vana e ridicola le appariva ora.

«Tu vattene», bisbigliò, quasi nel timore di svegliare qualcuno. «Io resto a cercare la pietra per mezz’ora, poi me ne vengo pure io.»

Tommaso la guardò di traverso. Prese il bloc-notes.

Metti a posto quello che tocchi.

E andò a esplorare altre stanze.

Fanny controllò la pendola: segnava le undici e un quarto. Era la notte di Capodanno, l’assessore non sarebbe mai tornato prima di mezzanotte.

Tra un’ora siamo a casa, promise a se stessa.

Cominciò a cercare, e stavolta non lasciò niente d’intentato. Aprì ogni cassetto, ogni anta di ogni mobile, rovistò sotto i divani, nei portaombrelli, nelle scarpiere. Tastò i muri alla ricerca di passaggi e recessi segreti, imponendosi una calma che le sfuggiva continuamente.

Dove sei?

Per la terza volta ispezionò la stanza da letto e per la terza volta non trovò nulla. Tornò nel corridoio che cingeva il terrazzo e rimase sorpresa nel vedere una lampada accesa nell’ingresso. Per quale motivo Tommaso aveva acceso una luce? Le salì una gran rabbia, poi il telefono di casa si mise a squillare. Il suono si protrasse a lungo e a vuoto, e quando terminò Fanny sentì l’acqua scorrere dal rubinetto del bagno.

«Tomma’?» chiamò sottovoce.

Il telefono squillò di nuovo.

Fanny storse il naso: cos’era quell’odore repellente?

Presa da un terribile presentimento, spense la torcia un attimo prima che la porta del bagno si aprisse. Scivolò in cucina, dietro l’isola di marmo, proprio nell’istante in cui un rumore di passi irregolari riecheggiò nel corridoio.

«D’Avalos.»

Quando udì la sua voce rispondere al telefono, una paura fredda si attorcigliò alla colonna vertebrale. La mente andò in tilt, i muscoli si atrofizzarono. Era dentro un incubo. Quei passi sembravano ovunque.

Toctoc... toctoc... toctoc...

Rimbalzavano contro il soffitto di marmo, cadevano sulla sua testa, come i rintocchi della mezzanotte in una casa stregata.

Quando la luce della cucina si accese, Fanny serrò le palpebre.

«No, che traffico vuoi che ci sia a quest’ora? Le strade erano deserte.»

Con gli occhi chiusi, tutti i rumori diventavano più forti. La voce dell’assessore, il tonfo dell’aspirina che cadeva nel bicchiere, l’acqua che frizzava, il battito impazzito del suo cuore. Un’eco infinita viaggiava attraverso la casa.

«Sì, lo so. Non preoccuparti, rimedio nei prossimi giorni. Appena mi sarà passato questo tremendo mal di testa. Mi basterà una dormita.»

Il nascondiglio di Fanny era miserabile. Se l’uomo si fosse affacciato solo un po’ oltre l’isola di marmo nero l’avrebbe vista. La sua unica possibilità era dimenticarsi di essere viva. Non respirare, non muoversi, per tutto il tempo necessario. Ma il tempo scandito dalla paura può essere eterno.

Che ci fa qui? Che ci fa qui? Che ci fa qui?

L’assessore non doveva essere lì, era nel posto sbagliato al momento sbagliato. E Fanny... Fanny quasi non c’era più. Nello sforzo di svanire, d’un tratto era davvero andata altrove.

Era al Moiariello, nella Casa Rossa. Le notti di Capodanno lassù erano bellissime. C’era tanta gente, e l’odore di zolfo dei fuochi riempiva il cortile. Dora l’andava a cercare, persa tra la folla di parenti, per farle gli auguri con un bacio. E Gennaro ballava con lei, pestandole i piedi. E le stelline, che lei e Rosa dovevano accendersi a vicenda, prima che il fuoco le consumasse.

Ricordare, all’improvviso, era tremendamente facile. Per un poco la sua memoria la tenne al sicuro. Ma Fanny non ce la faceva più a trattenere il respiro. Aprì gli occhi e scoprì che intorno a lei erano calate nuove tenebre. Provò un totale spaesamento. Quanto tempo era passato?

Avanzò carponi fino alla soglia della cucina, guardò da un lato all’altro del corridoio. Una luce soffusa proveniva dallo studio, rivelando la presenza dell’assessore.

Dal punto in cui si trovava adesso, Fanny avrebbe potuto facilmente raggiungere il terrazzo, calarsi nel pozzo, salvarsi. Poteva farlo, senza che lui si accorgesse di nulla, né ora né mai. Ma non prese nemmeno in considerazione quella possibilità. Non senza Tommaso.

Fanny si riempì i polmoni di aria e coraggio, e uscì dalla cucina, dirigendosi nell’ala opposta allo studio. Camminò in punta di piedi, pianissimo, perché nell’oscurità non poteva vedere gli ostacoli, e quella casa era come un mostro addormentato che non doveva svegliare. Si affacciò in ogni stanza, chiamandolo. Solo un bisbiglio, che riverberava nel buio e cadeva sui pavimenti senza risposta.

Dopo che ebbe fatto il giro delle camere, cominciò a chiedersi se lui non fosse andato via senza di lei. Allora tornò fuori, al gelo del terrazzo, e osservò la bocca del pozzo.

Impossibile.

C’era solo una spiegazione. Fanny alzò gli occhi verso il fascio di luce che proveniva dallo studio. Rientrò in casa, ricordandosi di chiudere la porta finestra. I suoi passi erano talmente leggeri che le sembrava di fluttuare. Si bloccò quando un’imprecazione affettò l’aria. Proveniva dallo studio. Seguirono colpi di ante, fruscii di fogli, mani che picchiavano ripiani.

L’assessore d’Avalos era furioso. Aveva trovato Tommaso?

A quel pensiero le parve di morire.

«Dov’è? Dove diavolo l’ho messa?»

Quando colse quelle parole Fanny riuscì a ricomporre le mille parti di sé che in pochi secondi si erano sfaldate. L’assessore non aveva scoperto Tommaso. Ma c’era qualcosa d’importante che non trovava.

La pietra, intuì subito. Che l’avesse perduta? Che qualcun altro, prima di loro, l’avesse presa?

Fanny era in mezzo alla sala da pranzo, a lambiccarsi il cervello. Si rese conto che non poteva restarsene lì, allo scoperto, e scivolò in fretta dietro una tenda. Per qualche minuto considerò la possibilità di creare un diversivo. Poteva inventarsi un modo per attirare l’assessore dall’altra parte della casa, ma cambiò idea. Se Tommaso non era stato scoperto, avevano ancora un vantaggio. Potevano aspettare. Prima o poi l’assessore sarebbe andato a dormire, e allora si sarebbero messi in salvo.

Fanny aveva appena elaborato quella sorta di piano, quando l’assessore uscì dallo studio. Non spense la luce, restò qualche istante a indugiare. Andò dall’altro lato della casa, trascinandosi la gamba malata. Altre imprecazioni, altri tonfi. Qualunque cosa avesse perduto, non aveva smesso di cercarla. Anzi, il suo accanimento si faceva di attimo in attimo più feroce. Se avesse continuato così, prima o poi avrebbe finito per trovare i due ragazzi.

Fanny protese il capo dai veli della tenda e finalmente vide Tommaso. Si sporgeva dalla soglia dello studio a controllare, come lei, la posizione dell’assessore. Fanny schioccò la lingua sul palato, chiamandolo come avrebbe chiamato un gatto. Lui la individuò. Con lo sguardo e un gesto, le fece capire che dovevano tagliare la corda. Fanny lo sapeva, ma un panico incontrollato la prese quando uno scroscio di fuochi esplose sulla città. Mezzanotte.

Tornò a nascondersi dietro la tenda.

Che ci faccio qua?

Non era l’assessore a essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era lei.

Le sudavano le mani. Stavolta si era spinta oltre ogni limite. Le viscere si stringevano per l’angoscia, si torcevano, scavavano nella pancia. Faceva respiri profondi, ma l’aria sembrava non bastare mai.

Quando il velo della tenda si scostò Fanny fu sul punto di gridare. Ma era Tommaso, che scivolò al suo fianco e le premette una mano sulla bocca. Fanny cercò le sue dita e mantenne salda la presa. Si guardarono. Lui le mise sotto gli occhi il bloc-notes con le parole trascritte prima che si arrampicassero su per il pozzo.

Ti metti a paura?

Fanny non rispose subito. La gola era così stretta che le faceva male respirare.

«Io non mi metto a paura ’e niente.»

Tommaso controllò che la via fosse libera. L’assessore non si vedeva, i suoi passi non si sentivano. Era lontano, era il momento.

Uscirono allo scoperto. Con le schiene piegate, come penitenti, attraversarono la sala da pranzo. Tommaso aprì la finestra sul giardino d’inverno. I fuochi sbocciavano come fiori, riempiendo il cielo velato di fumo scintillante. Accelerarono il passo, si districarono tra alberi, aiuole, sentieri di pietra. Il pozzo apparve davanti a loro, un miraggio di salvezza. Cominciarono a correre. Nel fianco, Fanny sentiva la milza incendiarsi. Ignorando quel dolore acuto, saltò tra le radici sporgenti del noce, raggiunse il bordo della cisterna, s’inginocchiò al centro della grata, infilò piedi, cosce, fianchi.

La paralizzò un improvviso stridore, come un raglio bestiale, o lo schianto di un mondo che cade a pezzi. Sollevò il viso.

L’assessore d’Avalos era dietro le vetrate del terrazzo, e i suoi occhi, colmi di stolto stupore, erano puntati negli occhi di Fanny. In preda a una febbre di adrenalina, Fanny non abbassò lo sguardo.

Ma poi Tommaso le diede uno scossone. Fanny tornò in sé, si aggrappò alle sbarre della grata e si calò nel buio. Scese i primi gradini, inalando tufo, seguita dal ragazzo. Quando sentì l’assessore gridare, si fermò a guardare in alto. La mano dell’uomo aveva afferrato il cappuccio di Tommaso e lo tirava verso la superficie. Il ragazzo strattonò, picchiò, morse. Riuscì a liberarsi. Riprese a scendere e le urla dell’assessore scesero con loro, nelle tenebre.