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I poliziotti si aggiravano per le stanze sotto lo sguardo intransigente dell’assessore. Erano lì perché lui li aveva chiamati, ma la sensazione che provavano era la stessa di chi importuna una famiglia in un giorno di lutto. Timorosi di far rumore con un passo, un respiro, una parola detta troppo forte, avrebbero preferito trovarsi altrove.

L’ispettore capo Gravina raggiunse l’assessore d’Avalos sul terrazzo. Lo trovò intento a fissare il pozzo, come immerso in calcoli che non tornavano. Una mano distesa lungo il corpo, l’altra infilata nella tasca del cappotto.

«Qui pare tutto a posto, assessore», disse.

Si tenne a qualche passo di distanza. Dimostrò, in questo modo, di essere un uomo prudente.

«Pare», disse l’assessore, voltandosi con un sorriso che svanì con un soffio di vento. «Ma non lo è.»

Rientrò nell’appartamento e guardò con distacco la sua casa. Le teche di vetro, le ceramiche alle pareti, le piante di potos. Un orologio spostato più a sinistra sul comò, il cassetto dello scrittoio lasciato semichiuso, l’anta di un armadio un po’ aperta, la forma di un corpo che si era seduto sul divano. Quella era la sua casa. La sua casa. E l’avevano violata.

«Era importante, la lettera che hanno preso?» domandò l’ispettore, seguendo l’assessore.

D’Avalos si bloccò. Nulla, se non un lieve irrigidimento della mascella, tradì la sua collera.

«Ispettore, questa notte due delinquenti sono entrati nella mia proprietà.»

L’ispettore capo Gravina era più basso di lui e aveva un viso scuro e squadrato che ricordava le statue dell’Isola di Pasqua.

«Che differenza fa il valore di quello che hanno rubato? Sa cosa mi hanno tolto davvero, stanotte? La possibilità di sentirmi al sicuro in casa mia.»

L’ispettore annuì comprensivo.

«I miei uomini stanno controllando i sotterranei, assessore. Stiamo facendo il possibile.»

«Il possibile non è abbastanza.»

«Assessore...»

«Ispettore. Ci terrei davvero molto che trovaste quei due ragazzi.»

L’ispettore stava per aprire bocca, le sue labbra già formavano una domanda, ma l’assessore lo precedette.

«È il vostro lavoro», ruggì, perdendo per un attimo il controllo. «Non devo dirvelo io, come farlo.»

Si chiuse nel bagno. Riempì un bicchiere d’acqua, prese un’altra aspirina. Un nodo gli premeva dietro la nuca, grosso quanto una palla da ping pong. Il dolore s’irradiava per tutta la testa, confluendo sulla cima del naso. Premette le mani sui bordi del lavandino, contando i minuti d’agonia. Finalmente la morsa si allentò.

Sollevò il volto a guardare lo specchio.

Gli occhi erano tornati. Occhi di prati spazzati dal vento. Come aveva potuto dimenticare quella loro lucentezza, quasi avessero ereditato un pianto antichissimo?

Li aveva visti a cena, a casa del magistrato Vitale, mentre festeggiavano il Capodanno. All’improvviso erano apparsi in fondo allo sguardo dell’uomo e, più tardi, in quello di sua moglie e di tutti i loro ospiti. L’assessore era dovuto fuggire. Ma quegli occhi lo avevano seguito e adesso invadevano anche il suo sguardo, allargandosi a formare una maschera che gli copriva il viso, finché di lui restò solo il ricordo di qualcun altro.

Si gettò dell’acqua fredda in faccia. Uscì dal bagno. In sala da pranzo, l’ispettore Gravina parlava in tono grave e sommesso con i due uomini che avevano perlustrato i sotterranei di palazzo Serra di Cassano.

Senza badare a loro, l’assessore tornò in cucina, si versò del vino rosso e bevve seduto davanti all’isola di marmo. Infilò una mano nella tasca del cappotto e accarezzò l’oggetto che aveva lì dentro. La pietra era ruvida e fredda, ma sotto il suo tocco sembrò farsi seta, come la schiena di una donna.

«Assessore.»

L’ispettore si stagliava nella cornice della porta.

«Ispettore», disse l’assessore d’Avalos, «non le ho nemmeno offerto un caffè. Lo gradisce?»

L’ispettore si guardò per un istante alle spalle, quasi si aspettasse un suggerimento da dietro le quinte.

«Lo gradirei, assessore, ma mia moglie me lo proibisce.»

Si toccò il ventre ampio, come se lì ci fosse sua moglie e non un principio d’ulcera.

«Un bicchiere d’acqua, allora? Oppure sua moglie le proibisce anche quello?»

L’ispettore Gravina sorrise. L’assessore lo servì restando davanti a lui mentre beveva. Poi riprese il bicchiere e andò a sciacquarlo.

«Mia moglie, invece... sono sempre stato io a doverle proibire il caffè», disse, stringendo i denti nel vano tentativo di trattenere le parole. Sfuggirono comunque. La mano intanto scorreva lungo le pareti del bicchiere, sotto il fiotto del rubinetto. Puliva e raschiava, come se avesse voluto cancellare macchie di sangue. «Fosse dipeso da lei, se lo sarebbe iniettato nelle vene, il caffè.»

«Non sapevo fosse sposato.»

L’assessore poggiò il bicchiere nello scolapiatti. Per qualche istante incrociò lo sguardo dell’ispettore Gravina e più volte prese fiato, come se fosse sul punto di confessare qualcosa.

«Lei come ha conosciuto sua moglie?» domandò infine.

«Mia sorella. Ci ha presentati lei.»

«Ah!»

In quel sospiro c’erano cose che l’assessore non disse. Cambiava tutto, il modo in cui si conosce qualcuno. Tanto che forse non sono le persone, quanto il cammino che conduce a loro a renderle in qualche modo speciali, a tramutarle in mete e doni. O in abissi e maledizioni.

«Io mia moglie l’ho conosciuta per strada», disse, forzando un sorriso. Sudava, senza accorgersene. «È stata la città a portarmi da lei.»

L’assessore accarezzava la pietra. Il ricordo di quel giorno lo stava annebbiando.

All’epoca lavorava in uno studio del centro. Era in pausa. Camminava per Spaccanapoli con un collega, che gli stava raccontando di un ristorante aperto da poco dove servivano la migliore cotica imbottita che avesse mai mangiato. È laggiù! Perché non ci andiamo? Quelle parole gli girarono in testa un’infinità di volte. Perché non ci andiamo? L’aveva appena vista. Sua moglie. Allora naturalmente era una sconosciuta. Aveva un banchetto tra le bancarelle di Santa Chiara, vendeva balsami, oli profumati. I suoi capelli sembravano fiamme.

«Ispettore», disse d’Avalos, emergendo da se stesso, «lei ricorda, quand’era bambino, quanto era affascinante il fuoco? Il senso di bellezza, di pericolo...»

L’ispettore Gravina lo scrutò, senza comprendere. Cosa gli stava chiedendo?

«Si dimentica, ispettore, crescendo si dimentica. Ma lei me lo ricordò. Aveva la meraviglia del fuoco.»

L’ispettore ora capiva che l’assessore parlava della moglie, dominato da una foga oscura, da un bisogno di rivelarsi.

«Era una bella ragazza, immagino», disse l’ispettore, con finta condiscendenza. Pensava che tutto questo andasse al di là dei suoi doveri di quella notte.

«No. Era più di questo.»

D’Avalos abbassò le palpebre per non essere costretto a vederla negli occhi dell’ispettore. Ma lei lo aspettava anche lì, nel buio.

Non mi lascerai dormire nemmeno stanotte.

«La bellezza sfiorisce, mentre in lei c’era qualcosa di selvaggio, di antico, che non poteva andarsene con gli anni. Era un mistero. Che il tempo poteva solo infittire.»

Il modo in cui l’assessore parlava della moglie stupì l’ispettore.

«Dov’è sua moglie ora?» si ritrovò a chiedergli.

«Non c’è», disse l’assessore. «Non c’è da un po’.»

L’ispettore lasciò cadere l’argomento. Non era di sua competenza, sebbene all’improvviso provasse pena per l’assessore. Sembrava una bestia ferita a morte, con la pelle lacerata e le carni scoperte fino all’osso.

«Bene, noi qui abbiamo finito», disse, delicatamente. «Ma torneremo presto.»

D’Avalos annuì. Stava pian piano riprendendo il controllo di sé. Tornò dritto, rigido, e anche la pelle, che si era ingrigita negli ultimi minuti, riacquistò colore.

«Certo che tornerete, ispettore.»

«Non per l’effrazione e il furto. Non soltanto per quello.»

L’assessore scrutò perplesso l’ispettore capo.

«I miei uomini hanno fatto una scoperta, in una caverna non lontana dal vostro palazzo.»

L’assessore aggrottò la fronte.

«Un ritrovamento che richiede ulteriori indagini», disse ancora l’uomo.

«Ispettore, la pianti con questi giochetti. Una cosa o si dice o si tiene segreta. Sappia però che impiegherei pochissimo a scoprirlo anche da me. Qualsiasi resto o colonna abbiate trovato...»

«Non si tratta di una rovina, assessore.» L’ispettore capo Gravina infilò le mani nella tasca del giubbotto. Era sconsolato. «Si tratta di ossa.»

«Ossa?»

«Ossa umane.»

 

 

Se ne andarono.

Solo nella sua stanza, seduto sul bordo del letto, l’assessore fece una telefonata. Gli rispose una vecchia, la receptionist di una squallida pensione dietro la stazione Garibaldi. L’assessore chiese del Topo, la vecchia gli disse di attendere che il Topo lo richiamasse, l’assessore attese.

Venne l’alba, altre ore passarono.

Ossa umane.

Dopo tutto quel tempo. Chissà se il passato torna, si domandava l’assessore, o se invece non se ne va mai, si annida nell’oscurità. Gli occhi sgranati rivolti al soffitto, il sonno un ricordo lontano. Da quante notti non dormiva? Ogni volta che deglutiva, il grumo di saliva scendeva freddo dalla gola al petto, e lì si fermava, a otturargli il cuore.

Finalmente il telefono squillò. Era mezzogiorno.

«D’Avalos.»

«Assessore. Auguri di buon anno», disse la voce del Topo.

Anni prima, il Topo aveva subito un’operazione alle corde vocali, per via di un cancro alla gola. Adesso parlava come un lupo che graffia alla porta.

«Auguri a lei.»

«Cosa posso fare per lei, assessore?»

«Mi servono informazioni su una persona. Paolo Marone, un antiquario. Lavora e abita in strada dell’Anticaglia, numero 9.»

«Cosa vuole sapere di lui?»

«Non di lui.»

L’assessore pensò agli occhi della ragazza che si calava nel pozzo. Forse si sbagliava, ma era meglio esserne certi. E le forze dell’ordine non potevano aiutarlo.

«Di sua nipote.»