2

Fanny aveva le dita dei piedi gelate. Da giorni faceva la posta ai confini della Pignasecca. Ore infinite, consumate nella disperata speranza di vederla passare. Quando non ne poteva più di star ferma – per la noia, ancor più che per il freddo – imboccava la via principale del mercato e si perdeva nei vicoletti che si aprivano a spina di pesce lungo i suoi fianchi. Scrutava i volti delle donne, infossati nei baveri di cappotti sformati, nascosti dietro foulard di lana, coperti da veli di lutti scaduti. Per vederli bene, doveva scavare con lo sguardo.

Tornava da C’era una volta solo quando l’ultimo banco del mercato veniva smontato e le strade ripulite. Bussava alla porta del negozio – due colpi, una pausa, altri due colpi, un’altra pausa, un ultimo colpo – e Tommaso andava ad aprire.

«Ci sono novità?» gli chiedeva subito.

Lui scuoteva il capo. Passava lunghe ore in un sotterraneo dell’ospedale degli Incurabili, le orecchie tese a scoprire qualcosa sulle condizioni di salute dell’antiquario. Per il momento, le notizie viaggiavano per bocca della gente, e l’unica certezza era che il signor Marone era vivo ma ancora incosciente.

Tu hai novità?, scriveva lui sul blocchetto. Anche lei scuoteva la testa.

Ormai vivevano nella tana di Tommaso. Cucinavano e mangiavano il cibo che Fanny rubava al mercato, e dormivano insieme, lei ai piedi e lui a capo del letto, cercando di farsi calore.

Una sera Tommaso le chiese se volesse tornare a casa, sul Moiariello.

«Vuoi che torno a casa?» lo provocò Fanny, rigirando la domanda.

Lui la fissò senza rispondere, con una paura negli occhi.

«Sta’ tranquillo, non torno a casa. Devo prima trovare i miei genitori.»

Naturalmente intendeva un’altra cosa. Devo trovare un perché.

Fanny guardava di continuo le foto rubate. Provava a fissarsi in testa quei volti, a renderseli familiari. Non ci riusciva. Era diversa da loro. L’assessore d’Avalos non poteva essere suo padre e quella donna senza nome non poteva essere sua madre. Quei due non le avevano dato la vita più di quanto non gliel’avessero data Dora e Gennaro. Anzi. Erano ancora più estranei, ancora più lontani, ancora più finti.

Perché non vai a parlare con l’assessore?, le domandò Tommaso.

Fanny scosse il capo con decisione. Quattordici anni prima, abbandonandola nella Ruota degli Esposti, la donna dai capelli rossi si era raccomandata di proteggerla. Finché non avesse scoperto da chi o da cosa, Fanny doveva agire con prudenza. C’era tuttavia un’altra ragione, che non osava rivelare a Tommaso. L’assessore non le piaceva. C’entrava il suo odore, che fin dal primo momento le aveva provocato una strana repulsione, tanto forte da funzionare quasi all’inverso: in certi momenti l’attraeva.

Non poteva farlo, non poteva andare da lui. Non ancora. Perciò stava tentando un’altra strada.

Il terzo giorno, si svegliò prima dell’alba e si vestì accanto alla stufa, senza far rumore. Uno dei foglietti appallottolati di Tommaso la colpì in testa: Copriti bene. Fanny si nascose il petto. Era convinta che Tommaso dormisse. Lui però non la stava guardando, era steso sul letto e fissava il muro. Indossò due maglie e un maglione di lana; calze e calzini sotto i pantaloni. Coprì le mani, spaccate dai geloni, con guanti da neve, e con la sciarpa si riparò fin sul naso. Il parka verde, con il cappuccio. Lo avvisò che era pronta e Tommaso l’accompagnò di sopra. Prima di aprire la porta, controllò oltre i vetri opachi di brina, e accennò a una figura tarchiata in fondo alla strada dell’Anticaglia. Indossava un cappello a falda larga, fumava un sigaro fuori da un bar.

Quell’uomo stava qua pure ieri, tutto il giorno. Non l’ho mai visto prima.

«Che fa?»

Niente.

«E allora?»

Tu che fai tutto il giorno alla Pignasecca?

«Niente.»

Le diede un colpetto sulla fronte. Appunto.

Tommaso attese che l’uomo entrasse nel bar. Quando la strada fu deserta aprì la porta del negozio e Fanny si incamminò lungo il decumano superiore. Le capitava ancora d’imbattersi nei resti della guerra di Capodanno. Un’auto bruciata fino allo scheletro, un cassonetto incendiato, batterie e cartocci di fuochi esplosi. La pioggia in quei giorni aveva concesso una tregua, ma il sole ancora non sbucava. Erano tre settimane, ormai, che la città non godeva di uno squarcio d’azzurro. In alto, il cielo scorreva come un fiumiciattolo sporco tra le sponde dei tetti; sembrava pieno di ghiaccio. Le temperature calavano di giorno in giorno, gelando lastricati e tubature, confinando la gente in casa, dietro infissi troppo vecchi per tenere a bada il freddo.

Il mercato della Pignasecca restava una delle zone più frequentate. Come nei giorni precedenti, Fanny si appostò all’imbocco della via principale. Dopo un’oretta, quando il mercato cominciò ad affollarsi, prese a percorrere quei vicoli che ormai conosceva a menadito.

Forse non era speranza, né tenacia, la forza che la spingeva a tornare lì ogni giorno. Ma inerzia. Per questo, quando la vide, faticò a riconoscerla.

La signora Carmela De Sio era sola, davanti ai banchi scoscesi del pescivendolo, telai di ferro che sostenevano vasche di polistirolo. Due gabbiani, attratti dall’odore di sangue e viscere, si aggiravano con aria famelica. Un garzone addetto alla pesa li scacciò pigramente.

Fanny si avvicinò e guardò la spigola che la signora Carmela stringeva tra le mani.

«L’occhio è grigio», disse. «Ed è pure incavato.»

La signora Carmela ebbe il fremito di chi si aspetta un’aggressione.

«E le branchie...» continuò Fanny, ricordando quello che la buon’anima dello zio Ferdinando le aveva insegnato. «Le branchie devono essere rosse. Devono profumare di alghe marine.»

Si avvicinò ancora un poco per annusarle. Storse il naso.

«Non è fresco, signo’.»

La signora Carmela si portò la spigola al naso. Assentì, imbarazzata.

«Tieni ragione. Non è fresco.»

Ripose il pesce nella vasca. Andò via, scusandosi con il pescivendolo come se ne avesse lei la colpa, di quel pesce avariato. Si trascinava dietro il carrello della spesa, come un cane al guinzaglio.

Non l’aveva riconosciuta. Fanny si tolse il cappuccio del parka, lasciando che solo la parrucca rossa le coprisse le orecchie dal freddo. La seguì.

«Come state, signora Carmela?»

La donna si volse sorpresa. Riconobbe il colore dei suoi capelli e cominciò a metterla a fuoco.

«Maria», l’aiutò Fanny. «Mio nonno è amico dell’assessore. Ve lo ricordate, no? L’altro giorno ci siamo tenute compagnia, a casa sua. Voi avevate fatto una bella pizza di cicoli e ricotta, mentre il nonno e l’assessore stavano in riunione.»

Le pupille della donna si dilatarono: aveva finalmente capito.

«Lui fa sempre riunioni, vero? Povero assessore.»

La signora Carmela si portò le dita alla bocca, una smorfia amara.

«Ah, già. Già. È accussì. Sempre riunioni... povero Augusto!»

Fanny offrì un braccio alla signora, la quale si appoggiò quasi inconsapevole. Cominciarono a chiacchierare come vecchie amiche, vagando per i banchi della Pignasecca. Fanny parlava del più e del meno, la signora Carmela di quello che avrebbe cucinato per l’assessore. Intanto, comprava vongole e fichi secchi, pane dalla crosta croccante, mustaccioli non troppo duri né troppo morbidi. Bisticciava coi mercanti per strappare i prodotti e i prezzi migliori: diceva che erano per l’assessore. Il suo carrellino si riempiva, le rotelle s’incastravano tra le pietre dissestate. Giunsero in fondo alla strada della Pignasecca, dove la signora acquistò un paio di ciabatte per sé.

Fanny disse che la vedeva stanca e le propose di prendere un caffè, nel caldo di un bar.

Adesso che erano sul confine del mercato, zona franca, terra di popolo, la signora la squadrò come se dubitasse di quella creatura che l’aveva avvicinata. Ma alla fine, forse per non essere scortese, accettò l’invito e si sedette a un tavolino, accanto alla finestra inghirlandata. Al banco, Fanny ordinò due caffè. Quello della signora Carmela lo fece correggere con del nocino, ricordando le parole del signor Marone sul liquore delle streghe; disse al cameriere che a sua zia il caffè piaceva forte. Andò a sedersi, sfilandosi sciarpa e guanti. Adagiò il registratore sulle gambe e lo accese. Con tono distratto, riprese a parlare dell’assessore. Capì che la signora Carmela era a disagio, nonostante lo camuffasse con un sorriso tremulo.

«Io credo che siete molto importante per l’assessore, signora», disse Fanny a un certo punto. «Chissà? Magari un giorno vi sposa pure.»

«Ma no.» La donna arrossì, girando lo zucchero nel caffè.

«E con sua moglie? Siete rimaste amiche?»

La rotazione ipnotica del cucchiaino si fermò. La signora Carmela bevve il caffè, trattenendo educatamente una smorfia. Disse che era ben strano, il caffè che servivano in quel bar.

«Come avete detto che si chiama?» disse ancora Fanny. «La moglie dell’assessore.»

«Amelia.»

Quel nome, pronunciato con una certa ritrosia, passò tra loro come polvere.

Amelia.

Fanny se lo sentì cadere nella pancia. Ebbe voglia di ripeterlo.

«Amelia. Amelia come?» La signora Carmela si strinse nelle spalle: il cognome non lo ricordava. «E che tipo è?»

La donna sollevò gli occhi e, scorrendo le dita sul tavolo, disse: «Non una signora».

Fanny inarcò le sopracciglia, invitandola a spiegarsi meglio. La donna si guardò intorno.

«Una janara», sussurrò.

Fanny serrò le mani intorno alla tazzina. La freddezza che in quei giorni l’aveva sostenuta si disintegrò al suono di quella parola. Janara: strega. Allora dovette fare i conti con la realtà e si chiese: È da lei che vengo? È da lei che viene questa maledizione?

«Perché non stanno più insieme?»

«Perché era pazza», strepitò sottovoce la signora Carmela. «Mormorava, sai. Da sola. E una volta la vidi parlare con un albero. Andava in giro sempre scalza e ti guardava in un modo che era come se volesse farti vedere te stesso, ma la tua parte peggiore. E poi rideva.»

«E che male ci sta a ridere?» disse Fanny con irruenza.

Pensò alla donna dai capelli rossi che l’aveva abbandonata nella Ruota. Clemenza, la prostituta di Forcella, l’aveva vista piangere.

«Rideva sguaiata. Non sta bene, per una signora, ridere in quel modo lì. Ah! E le telefonate. Riceveva telefonate da uomini ogni volta diversi. Janara e malafemmena.»

«Quindi lui l’ha lasciata?»

La signora Carmela tacque.

«No», disse dopo un po’. «No, fu lei a lasciare lui. Amelia se ne andò, un inverno, e si portò via la loro creatura. Gli spezzò il cuore, al povero Augusto.»

Fanny si pietrificò. Le parve che il bar e il resto del mondo finissero risucchiati in un vuoto cosmico. Il filo che pendeva reciso alle sue spalle si stava finalmente riannodando a una trama. Ancora non poteva vederla chiaramente, ma sentiva che la tirava a sé.

«Il povero Augusto andò a cercarle.»

«Dove?»

Forse uscì troppo violenta, quella domanda. La signora Carmela si spaventò.

«Dove?» chiese con più dolcezza.

«Non lo so. Non le trovò. Non parla mai di loro, ma da allora è cambiato. E io lo vedo, sai? Che si tormenta. Da certe perdite non ci sta ritorno.»

Restarono in silenzio.

C’era un pianoforte a muro nel bar. Quando un ragazzo si mise a suonarlo, Fanny riemerse dai propri pensieri e le parve di essere stata via per anni. Scoprì che la signora Carmela la stava fissando.

«Tu me la ricordi», le disse.

Allungò una mano, le toccò i capelli, le sistemò una ciocca rossa dietro l’orecchio. Fanny rimase immobile.

«Lei incantava la gente. Poteva farti fare quello che voleva, poteva fartelo dire. E tu manco te ne accorgevi. È così che ammaliò il povero Augusto. È così che fanno le streghe. Danzano sul cuore delle persone. E quando hanno finito, e si fermano, pure il tuo cuore si ferma.»

La signora Carmela si ritrasse in se stessa. Si portò una mano alla bocca.

«Non dovevo parlare di lei. Me lo ha proibito.»

Fanny la vide sollevarsi a fatica dalla sedia, prendere il carrello della spesa e uscire in tutta fretta dal bar. Impiegò qualche istante a reagire. Le corse dietro. In fondo alla via, la signora Carmela aveva fermato un taxi. Fanny la raggiunse. Tenne aperto lo sportello della vettura un attimo prima che la donna lo chiudesse. La signora Carmela le agitò una mano davanti alla faccia, come se tentasse di scacciare una mosca.

«Dov’è andata Amelia?»

«Non lo so! Gesù mio, io non so niente! Lassame sta’!»

«Signorina.»

Richiamata dal tassista, Fanny s’inginocchiò a terra. Non voleva dare spettacolo. Prese le mani della signora Carmela tra le sue, in un gesto rassicurante. Capì che la donna si era spaventata. Non le piaceva mettere paura alla gente.

«Non sapete dov’è andata. Ma almeno sapete da dove veniva?»

La signora Carmela la fissò con occhi sbarrati. Lo sapeva. Non aveva idea di che posto fosse, ma glielo disse. Lo fece per liberarsi di lei.

Fu tale lo sconcerto successivo a quelle parole che Fanny non riuscì a ringraziarla, né a dirle addio.

La signora chiuse la portiera, il taxi partì, sparendo oltre piazza Carità, dietro le bancarelle piene di dolci per l’avvento dell’Epifania.

Sul volto di Fanny si riflettevano le lucine a led attorcigliate al tronco di un albero. Si ripeté in testa quelle parole, come se fossero un incantesimo.

La Casa di Pietra.