Fanny si guardò allo specchio. La canotta schiacciava il petto acerbo, la parrucca pizzicava il cranio. La pelle irta per il freddo riluceva dell’unguento della Casa di Pietra. Aveva raschiato dal fondo dei vasetti le creme ormai secche, mischiandole, spalmandosele addosso. Braccia, mani, gambe; nemmeno le unghie aveva risparmiato.
Ricordava le storie di Gennaro, in cui le streghe si sfregavano il corpo di balsami magici, che le rendevano capaci di volare e compiere altri incantesimi.
Fanny non sapeva perché lo avesse fatto. Anzi, lo sapeva ma non osava dirselo. Voleva trovarla.
La Casa di Pietra. L’etichetta sul vasetto non diceva altro; non c’erano nomi né indirizzi.
L’unica alternativa possibile era tentare l’impossibile.
«Portami da lei.» Fanny strinse le mani sul bordo del lavandino. «Portami da lei.»
Ripeté quelle parole così tante volte da trasformarle in un’unica parola. Una formula magica.
L’odore intenso, mentolato di quel balsamo le pungeva le narici. Sgranò come perle di rosario le dita dei piedi nudi. Chiuse gli occhi.
Alla fine, lo sentì arrivare. Il mare. Provò a non averne paura. Nel buio dietro le palpebre andavano ritagliandosi contorni grigi. Corpi di rocce che spuntavano dalle acque, a metà tra dorsi di creature marine e fortezze di terra. Tre isole brulle, con ciuffi di arbusti. Per il resto, il mare era ovunque, perfino nel cielo. Smagliante. Quando spalancò le braccia, il vento la vestì di sale e di aria, e rise di gioia. Mosse un passo sull’orlo del precipizio, smuovendo una manciata di sassi che caddero in quell’abisso d’azzurro.
Udì belare alla sua destra: una capra selvatica. Si fissarono negli occhi. A un tratto, la bestia piegò le corna ricciute da satiro, porgendo una sorta di saluto che lei ricambiò.
Capitava che le cose della natura le parlassero. Era la stessa natura che stava nascosta nel volo degli uccelli, nella crescita silenziosa dell’erba, nei bisbigli dei morti.
Una voce la richiamò ai suoi doveri. Aspra, come quella terra.
Amelia.
Amelia si voltò.
Arrivo.
Riprese il sentiero che portava all’antico casolare a forma di torre. Casa sua. Una casa di pietra.
Fanny era a terra. Svenuta. La guancia premeva contro il pavimento gelido del bagno.
Tirò una boccata d’aria, come una naufraga che sfugge al sepolcro delle acque. Posò le spalle contro la vasca e si tirò le ginocchia al petto. Restò così a lungo, tremando di freddo e meraviglia, fin quando Tommaso salì a cercarla.
Gli chiese dove fosse La Casa di Pietra. Lui non sapeva di cosa parlasse.
Fanny sparì di nuovo nell’incavo delle ginocchia.
Janara. Strega. Quella era sua madre. Quella era lei.
Il signor Marone aveva ripreso conoscenza e si stava rimettendo in forze. Tommaso sentì Galluccio chiedere al postino se avesse lettere per lui, perché l’antiquario era scocciato assai, e non si sapeva più come intrattenerlo.
I ragazzi provarono un immenso sollievo. Tommaso volle festeggiare con una delle bottiglie che aveva sottratto all’antiquario. Prese un sorso, fece una smorfia, e la passò a Fanny, che si bagnò le labbra. Le venne l’istinto di sputare quel liquido che puzzava di legno umido, ma si sentiva gli occhi di Tommaso puntati addosso, e allora ingoiò finché le bruciò il petto.
Si pulì la bocca con il dorso della mano.
«Come diavolo fa a piacergli questa roba?» disse.
Tommaso scosse la testa e vuotò il contenuto della bottiglia nel lavandino.
«Devo fargli visita», disse Fanny, fissando il vuoto.
Pensava ad Amelia e alla Casa di Pietra. Aveva tanto da chiedere all’antiquario e nessuna intenzione di aspettare che tornasse. In fondo, gli Incurabili erano a pochi passi dalla strada dell’Anticaglia, e poteva andarci di sera, al limite dell’orario consentito, quando c’era meno gente.
«Dovresti venire pure tu», disse in tono disinvolto a Tommaso. E poi lo prese in giro: «Ho sentito che ci stanno ospedali dove fanno entrare gli animali, così le persone guariscono prima».
Tommaso si tese come un fusto di legno.
Io non sono un animale, scrisse.
Quando Fanny fu sul punto di uscire, lo vide arrivare con indosso una giacca grigia, il cappuccio della felpa calcato sulla fronte e un passamontagna che gli lasciava scoperti solo gli occhi.
«Stai andando a rubare? Ancora?»
Lui la spinse fuori dal negozio. Esitò, prima di uscire in strada. Sembrava un bambino che tocca le acque fredde e non sa se buttarsi. Fanny lo afferrò per un braccio e lo trascinò in quel mare.
Una salita di duecento metri collegava la strada dell’Anticaglia agli Incurabili. Come aveva previsto, in giro c’era poca gente. Varcarono indisturbati i cancelli dell’ospedale, attraversarono il cortile dov’erano in sosta tre ambulanze, salirono le massicce scalinate che conducevano nell’androne dell’ingresso. Fanny s’informò su dove tenessero ricoverato l’antiquario, e quando si voltò scoprì che Tommaso era sparito. Ricomparve al suo fianco qualche istante dopo.
«Come fai?» gli domandò, senza ricevere risposta.
Gli Incurabili erano un edificio imponente, un labirinto di cortili, orti, scale e corridoi. Tommaso si allertava ogni volta che udiva voci o cigolii di ciabatte, e svaniva nell’ombra come solo gli spettri sanno fare. Per questo, quando raggiunsero il terzo piano, l’orario di visite era praticamente finito.
Cercarono la stanza numero 4. Un rettangolo di luce si proiettava sulle mattonelle dissestate del corridoio. Affacciandosi, Fanny vide due letti. Il signor Marone occupava quello più vicino alla finestra. La testa infiocchettata da una garza, il braccio destro ingessato, una penna tenuta malamente tra le dita della mano sinistra. In grembo, un libro aperto e dei fogli sparpagliati. Il suo compagno di degenza, un uomo più giovane, ridicolmente sovrappeso, era addormentato. Dalle labbra appena schiuse passavano fischi e sbuffi.
Fanny mosse un passo oltre la soglia. L’antiquario sollevò lo sguardo e la fissò senza batter ciglio, come se dovesse stabilire se fosse vera, oppure si trattasse di una visione.
«Lazzarona.»
Fanny raggiunse il letto. Un sorriso pallido affiorò sul volto dell’uomo, segnato da ferite appena ricucite, graffi e lividi. Una grossa ecchimosi si allargava sulla tempia rigonfia. Cercando di essere delicata, Fanny gli strinse le braccia al collo.
«Sono contenta che siete vivo», gli disse all’orecchio.
Tommaso entrò nella stanza in quel momento. Al principio, l’antiquario lo credette un estraneo e strinse la mano di Fanny, come se con quel gesto potesse rimpicciolirla nel palmo e nasconderla. Ma quando arrivò ai piedi del letto, il signor Marone lo riconobbe e Fanny sentì la stretta intorno alla sua mano farsi più forte. Tommaso prese il bloc-notes: Come state?
«Come sto? Devo avere le traveggole. Ho immaginato di vederti fuori dal tuo sotterraneo. È così grave che lo immagino anche adesso.»
L’uomo sull’altro letto russò: fu come un grugnire corale di maiali. Il signor Marone gli rivolse un’occhiataccia. Fanny guardò il libro che stava leggendo, e si rese conto che non era un libro. Era un dizionario di latino. Allora s’interessò ai fogli sparpagliati sul letto, ma l’antiquario li raccolse in fretta, li impilò e li richiuse nel comodino prima che lei avesse il tempo di cogliere anche solo una parola.
«Fetenti, che ci fate qui? Come ve la cavate senza di me?»
I ragazzi scivolarono a terra, di fianco al letto, dove nessuno avrebbe potuto vederli.
«Bene», mentì Fanny. «Non facciamo niente.»
Lui la scrutò a lungo e a fondo come se dubitasse delle sue parole, poi guardò Tommaso, che resse il gioco con un cenno discreto. Fanny ricambiò lo sguardo indagatore dell’antiquario e pensò che chi sfugge al mondo dei morti deve pagare un caro prezzo: invecchiare tanto e subito.
«Com’è andata quel giorno?» domandò.
Il signor Marone s’incupì. Nemmeno lui che era lì avrebbe saputo dirlo. Il tram stava passando nella Galleria della Vittoria, quando all’improvviso c’era stato un tuono, un boato che non veniva dal cielo ma dalla terra. Ricordava lo sfrigolio delle scintille, come stelle filanti, e una pioggia di pietre. Dopo, il nulla.
«Sono morte undici persone.»
Unnece. Fanny chiuse gli occhi per scacciare il ricordo del sogno.
«Una ragazzina si era alzata per cedermi il posto. Io mi sono offeso. Non sono mica così vecchio, le ho detto. È rimasta seduta. Se avessi accettato...» S’interruppe. Prese fiato e con le parole gli uscì un singhiozzo. «Se avessi accettato al suo posto ci sarei stato io e lei sarebbe ancora viva.»
L’antiquario continuava a invecchiare sotto il suo sguardo, come la cartina di una terra magica a cui si aggiungono confini, fiumi e creste di monti.
«Non ci pensate», disse Fanny. «Non potete farci niente. È stato un incidente.»
«Già. Un incidente...»
Fanny si domandò se fosse il momento opportuno per trattare l’argomento.
«Una specie d’incidente», osò dire. «Ce ne stanno tanti, in questi giorni.»
Gli occhi dell’uomo divennero due falci.
«Voglio dire. Pare una maledizione, no? Quello che sta succedendo a ’sta città.»
Era certa che l’antiquario avesse capito, ma era anche certa che non si sarebbe lasciato adescare. Doveva essere più diretta.
«Cos’è la Pietra Sacra, signor Marone?»
L’antiquario sospirò e il capo gli ricadde sul petto.
«Lo sapevo! Tu non ti stanchi mai, eh? Frugare tra i miei appunti mentre ero in punto di morte!»
«Non siete mica morto.»
«Razza di delinquente!»
La rimbrottò per un po’ e lei lo lasciò fare. Non avrebbe ceduto, in ogni caso. Quando ebbe finito di rimproverarla, gli ripeté la domanda. Lui non le rispose. Ma poi Tommaso scrisse sul suo blocchetto – Cos’è la Pietra Sacra? – e questo lo lasciò confuso, inquieto.
«È solo una pietra», disse alla fine.
«Non è vero. Voi pensate...»
«Saprò bene io cosa penso!»
«Ma la pietra sospesa, la forma ovale, e il punto in cui si trova il tempio...»
«Un tempio antichissimo! Molto più antico di Virgilio e di qualunque leggenda lo riguardi.»
Fanny avrebbe insistito ma l’antiquario volle chiudere lì il discorso. Li costrinse a promettere. Non avrebbero parlato mai più di quella storia, e soprattutto – soprattutto, rimarcò, guardandola negli occhi – non avrebbero fatto nulla. Non ci avrebbero neppure pensato.
I ragazzi promisero, benché quella promessa non avesse ormai più alcun valore.
Parlarono d’altro. Il signor Marone aveva davvero di che lamentarsi, dal cibo insipido al suo compagno di stanza. Fanny ascoltava a metà. Si rifiutava di credere che l’antiquario non considerasse la possibilità che fosse vero. La Pietra Sacra e l’uovo delle leggende. Concluse che il signor Marone voleva solo tenerla lontano dai guai.
D’un tratto, nel corridoio si udì il cigolio di un carrello: stavano per servire la cena.
Tommaso si agitò all’istante. Nel timore che se la desse a gambe, il signor Marone gli ordinò di controllare nel cassetto. C’era il portafogli, gli disse di prendere tutti i soldi che trovava.
«Tornerò a casa prestissimo. Intanto, cercate di starvene buoni. E mangiate, che tenete una brutta cera.»
Si accorse allora dell’insistenza con cui lo fissava Fanny, la quale non accennava a staccarsi dal letto.
«Che tieni, lazzarona?»
Dalla tasca del parka, Fanny tirò fuori uno dei vasetti della Casa di Pietra.
«Che posto è?» disse.
L’antiquario strinse il barattolo tra le mani e per un po’ non aprì bocca. Fanny gli concesse tutto il tempo necessario, anche se l’inserviente si avvicinava e Tommaso lanciava occhiate sempre più nervose alla porta.
Quando il signor Marone staccò il volto dal vasetto, piccole onde gli tremavano negli occhi.
«Maria stava meglio con questi unguenti. Erano l’unica cosa che alleviasse il dolore.»
«Chi li vendeva?» chiese Fanny, presa a un tratto da una gran fretta. «Si chiamava Amelia, per caso?»
Le sopracciglia dell’antiquario s’inarcarono, fremettero.
«Amelia... Amelia. Sì, era una bella ragazza. Veniva da fuori. Aveva...»
Impallidì e puntò gli occhi sulla parrucca di Fanny.
«Aveva i capelli rossi.»
L’antiquario prese a balbettare. Erano passati molti anni, disse, venti o forse più. Amelia aveva un carretto per vendere i suoi unguenti, e girava tra i vicoli del centro; molta gente andava da lei.
«E non ricordate altro? Non ricordate dove sta la Casa di Pietra?»
L’antiquario serrò gli occhi. Parve cadere all’indietro, come gli capitava quando toccava i vecchi oggetti e provava a discorrere con loro, spostandosi in una dimensione che era al di là del tempo.
Il cigolio del carrello si fece vicinissimo. Stavano portando i vassoi nella camera accanto.
«Signor Marone...»
«Torca!» gridò, spalancando le palpebre. «Torca! Sì, veniva da un paesino della penisola sorrentina! Ora ricordo. Amelia mi parlò di una strada sul mare, lei lo chiamava ’il sentiero delle sirene’.»
Fanny si stropicciò nervosamente le mani. Baciò l’antiquario sulla fronte.
«Grazie, signor Marone. Grazie. State bene, ci vediamo presto.»