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Torca è un antico paesino, arroccato sulla costiera amalfitana. Affaccia su un arcipelago di tre piccole isole triangolari, chiamate Li Galli. Era lì che un tempo vivevano le leggendarie sirene. Un tempo talmente lontano che non apparteneva alla storia, ma al mito. Amelia era lì, doveva essere lì. Fanny non aveva dubbi.

«Possiamo arrivare con la circumvesuviana a Sorrento», disse studiando il percorso.

Tommaso la colpì sulla spalla per attirare la sua attenzione.

Possiamo?

Fanny ignorò il bloc-notes.

«Poi da lì prendiamo un pullman per Torca e chiediamo della Casa di Pietra.»

Tommaso la colpì di nuovo e stavolta Fanny sollevò gli occhi dalla cartina.

Smettila, scrisse, io non ci vengo. Ci stanno persone, sui treni.

«Ci stanno persone pure negli ospedali. Ci stanno persone ovunque, fuori da ’sta tomba.»

Ecco perché sto qui.

«Ma tu non ci stai bene qui.»

Che ne sai di come sto io?

«E allora dimmelo come stai.»

Tommaso la fissò torvo.

«Dimmelo a parole tue, come si sta quaggiù, dove non succede mai niente, né nel bene né nel male. Come si sta a non esistere, eh?»

Tommaso non rispose, più crucciato del solito.

Fanny decise che sarebbe partita il giorno dopo, con o senza di lui. Non dormì neppure quella notte. Bevve caffè, riordinò i suoi appunti, preparò le sue cose. La mattina sorse grigia, come tutte le mattine che l’avevano preceduta. Fanny si vestì con i maglioni più pesanti che trovò nel negozio e indossò una giacca da neve.

Tommaso la scrutava immobile dal letto. Quando Fanny fu pronta l’accompagnò di sopra, controllò la via, aprì la porta, la richiuse. Fanny era alla fine della strada dell’Anticaglia quando udì dei passi rincorrerla. Mascherando un sorriso, rallentò per permettere a Tommaso di raggiungerla.

Per arrivare alla stazione Garibaldi percorsero il decumano maggiore e sboccarono alle porte di Castel Capuano. Tommaso camminava curvo, accartocciato, come se sperasse di ridurre al minimo la possibilità di essere notato. Rasentava i muri dei palazzi, staccandosene con un balzo da cavalletta non appena vedeva un commerciante sulla soglia del suo negozio o una vecchia alla finestra del suo vascio. Come la sera prima, solo gli occhi erano scoperti, e li teneva puntati sulla strada. A furia di guardare l’asfalto, avrebbe potuto scavarci un buco.

La stazione Garibaldi era animatissima. Ruspe al centro della piazza lavoravano alla nuova metropolitana; il rumore assordante dei trapani, lo sfrigolio raccapricciante delle rotaie, i fischi dei treni. Zingare, prestigiatori, tassisti e mendicanti approcciavano i viaggiatori con i loro volti sfrangiati dalla fame. L’aria era satura di spezie portate dagli immigrati del Vicino, Medio e Lontano Oriente che abitavano nei paraggi, riempiendo i vicoli sudici di colori e di parole misteriose.

Tommaso attese in un angolo, accanto al tabellone delle partenze, mentre Fanny comprava i biglietti. La fila era lunga, e per tutto il tempo non fece che strapparsi le pellicine morte dalle dita. E se avessero perso il treno?

Una zingara faceva la posta davanti alla biglietteria.

«Due per Sorrento. Grazie», disse Fanny quando infine toccò a lei.

La gente, alle sue spalle, spintonava e pressava. Il bigliettaio stampò i biglietti. Tra le labbra gli pendeva una sigaretta, la cenere fioccava sul banco, il fumo appestava il cubicolo.

«Il prossimo.»

Fanny lasciò cadere il resto dei soldi nel bicchiere di latta della zingara, che la ringraziò – creatura bella, creatura magica – e andandosene vide due uomini in divisa trascinar via un barbone ubriaco che orinava sui binari, mentre un cane dall’orecchio mozzo abbaiava per fermarli.

Quando tornò ai tabelloni, scoprì che Tommaso era scomparso.

«Merda.»

Fanny lo cercò, angosciata, pentita di aver insistito perché venisse. Se avessero tardato avrebbero perso il treno e tutte le coincidenze; sarebbero arrivati a Torca con il buio, non avrebbero trovato la Casa di Pietra, non avrebbe mai incontrato Amelia. Frenò quel flusso negativo di pensieri e finalmente lo vide. Era all’esterno della stazione, nascosto nello spazio sottile tra due pullman a riposo.

«Che diavolo fai?» gridò, correndo da lui.

Tommaso respirava a fatica. Guardava il cielo grigio sopra le loro teste come se avesse desiderato spiccare un balzo e trovarsi a centinaia di chilometri da quell’inferno.

«Ti metti a paura?» gli chiese.

Tommaso abbassò gli occhi su di lei, le pupille dilatatissime. Annuì.

«Non ci sta niente di male», disse Fanny, colta di sorpresa. «Vuoi tornare a casa?»

Tommaso scosse la testa. Allora lo prese per mano. Si accorse che le piaceva poterlo toccare.

«Chiudi gli occhi. Tienili chiusi.»

Lo condusse attraverso l’area di parcheggio dei pullman, dove decine di persone languivano nell’eterna attesa di tram e autobus. Rientrarono nella stazione.

«Fai finta che stai nella città di sotto», gli disse all’orecchio.

Tommaso continuava a tenere gli occhi chiusi.

«Le voci che senti sono le voci di fuori. Non ti vedono, non ti fanno niente.»

Lo guidò attraverso l’atrio. Superarono le banchine, tenendosi a galla tra una fiumana di gente che andava e veniva. Fanny schivava i venditori ambulanti, tagliava le file alle macchinette del caffè, e intanto raccontava a Tommaso storie del sottosuolo, le stesse che Gennaro le narrava quand’era bambina. Di munacielli che nascondono tesori, di guardiani fatti di aria, che difendono città cave con spade e frecce, di titani che vivono nella conca infuocata dei vulcani, e di tutte le altre oscure potenze sotterranee della città. Arrivarono in fondo alla stazione Garibaldi, oltrepassarono i tornelli, scesero le scale mobili. La banchina di pietra della circumvesuviana era invasa dai pendolari.

Tommaso non smise di tenere gli occhi chiusi, Fanny di stringergli la mano e parlargli, e gli parlava di tutto. Anche del Moiariello e dei ruderi abbandonati.

Il treno arrivò e la gente si precipitò nelle carrozze. Fanny si affrettò a conquistare un angolo appartato, ma anche lì lei e Tommaso si ritrovarono schiacciati come sardine. Non era un treno, era un carro bestiame. A ogni fermata, un piccolo gruppo usciva e un gruppo ben più numeroso entrava. Alla calura dei corpi si alternavano sferzate artiche, che penetravano dai vetri rotti. L’odore di mare si faceva più intenso.

Il capolinea era Sorrento.

Tommaso aprì gli occhi soltanto quando arrivarono. Era pallidissimo, sudato, ondeggiava come in preda al mal di mare. Andò a sedersi su una panchina, affogando il volto tra le mani. Sembrava che avesse bisogno del buio per ricaricarsi, come altri hanno bisogno del sole. Fanny gli portò dell’acqua e andò a informarsi sulla corriera per Torca. L’avvisarono che le corse erano rare. Ringraziò e comprò i biglietti. Dovettero attendere due ore su uno stradone poco trafficato, dove passavano per lo più camioncini e motocarri. Seduti sotto una pensilina di vetro, mangiarono dei panini. Per ammazzare il tempo, Fanny prese il registratore e cominciò a dettare una serie di domande.

Perché lo hai fatto? Ti sei pentita? Cosa pensi di fare per rimediare?

Tommaso le chiese a chi si rivolgesse.

«Ad Amelia», disse lei.

Tommaso la scrutò a lungo.

Ti metti a paura?, scrisse sul blocchetto.

«Un poco», ammise Fanny.

Tommaso non disse niente ma Fanny capì lo stesso. Non era sbagliato, avere paura.

Il pullman arrivò. Il tragitto era breve, ma il viaggio fu lungo e impervio, perché la strada che serpeggiava fra le due coste della penisola sorrentina era ghiacciata.

Tommaso, adesso, teneva gli occhi sbarrati. Le cime ammantate di neve del Vesuvio e dei Monti Lattari, le acque grigie del mare che gorgogliavano come piombo liquido, e i paesini arroccati tra le rocce, una sequenza infinita di presepi. Non smise un istante di fissare il paesaggio incantato oltre il finestrino.

Raggiunsero Torca nel primo pomeriggio. Il pullman li lasciò al centro del paese, dove sorgeva la chiesa parrocchiale. Sembrava uno di quei villaggi delle fiabe, addormentato dal maleficio di una strega. Un vecchio cartello indicava la spiaggia di Crapolla; accanto, una mappa. Fanny andò a studiarla. A Torca la carrozzabile finiva, e da lì si ramificava una rete di sentieri che portavano a luoghi dai nomi antichissimi, che se pronunciati lasciavano nell’aria un’eco magica. Fanny cercò subito l’arcipelago de Li Galli.

«Dobbiamo arrivare qua.»

Puntò il dito sulla costa di fronte ai tre isolotti ricordando la visione che aveva avuto quando si era spalmata il corpo d’unguento. Ma per colpa della foschia che stava salendo dal mare, l’arcipelago non era visibile da nessun punto panoramico.

Fanny andò incontro a due vecchine uscite in quel momento dalla chiesa. Fu molto cortese, nel chiedere informazioni sulla Casa di Pietra. Tuttavia, dopo averla pregata di ripetere cosa cercasse, le donne la guardarono con tanto d’occhi, si fecero il segno della croce e fuggirono via. Domandò quindi a un signore che stava parcheggiando l’auto in una piazzola di sosta.

«La Casa di Pietra? Mai sentita.»

«E il sentiero delle sirene?»

«Mi dispiace, non sono di qui.»

Fanny entrò in un minimarket. La cassiera, una signora con occhiali a mezzaluna, l’accolse con un sorriso che svanì appena Fanny nominò la Casa di Pietra.

«Ma perché voi ragazzi vi divertite ad andare in quel postaccio?»

Fanny ammutolì, speranzosa.

«E dove sta?» domandò dopo un attimo.

«Vi sfidate a chi arriva più vicino, è così? Be’, a furia di bussare alle porte dell’inferno prima o poi il diavolo apre! Lo sai che un paio di anni fa ci hanno trovato gli scheletri di decine di animali?» La signora si strinse nel suo cardigan rosso. «Si sentiva belare e chiocciare e nitrire, dal fondo del pozzo. Era senza dubbio opera del demonio. E mentre disseppellivano le loro ossa, la strega se ne stava alla finestra a ridere!»

Fanny ascoltò quella storia.

«Dove sta la Casa di Pietra?» chiese ancora.

«E io che ne posso sapere? Non ci sono mai stata.»

Fanny guardò il grande crocifisso che le pendeva al collo come un campanaccio, e l’adesivo sulla cassa: Gesù ti ama.

Uscì dal minimarket e si guardò intorno. Per strada non c’era nessuno.

Si voltò riconoscendo il fischio di Tommaso. Le indicava una discesa che andava nella direzione opposta alla spiaggia di Crapolla. La Casa di Pietra era a venti minuti di cammino.

«Che ne sai?»

Aveva chiesto a un contadino che veniva da laggiù con una motoretta. Il sentiero era spugnoso, e nelle ultime settimane c’erano state delle frane che rendevano difficoltoso il passaggio. Ma ci si poteva ancora arrivare, con un po’ di fortuna.

«Ti ha detto se ci abita qualcuno?»

Tommaso scosse la testa e seguì Fanny, che aveva già imboccato il sentiero, di corsa.

«Hai parlato con un contadino?» disse lei, che soltanto ora se ne era resa conto.

Lui le mostrò il bloc-notes: Sapete dove sta la Casa di Pietra?

«Be’, è una giornata memorabile.»

Tommaso fece un sorriso che affondò nel passamontagna.

La strada asfaltata presto si trasformò in sterrato. Il sentiero era tortuoso, a volte svaniva tra le sterpaglie per poi ricomparire all’improvviso, segnato da tracce di pneumatici e di ruote di bicicletta. Gli alberi premevano da ogni parte, querce, larici e noci, soprattutto, che più in là cedettero il posto a terrazze di viti e olivi che scendevano verso il mare. Era una strana campagna, dove a piccoli deserti rocciosi si alternavano orti di case coloniche, casolari diroccati e baracche di lamiera. Nelle stalle ragliavano asini, cantavano galli e grufolavano porci.

Si armarono di bastoni per scacciare i cani randagi che li rincorrevano. Il fango li costringeva a procedere lentamente, e più volte dovettero districarsi tra tronchi e rami di alberi caduti, in un percorso a ostacoli.

Dopo quasi un’ora di cammino, Fanny si fermò. Sentì il cuore impennarsi alla vista di una torre di vedetta. Si ergeva sul ciglio di un burrone, a guardia del mare. La Casa di Pietra.