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«Mio fratello era il piccolo della famiglia», disse Lenù, e seduta su quella sedia di paglia sembrava un’attrice che recita un monologo ripetuto un’infinità di volte nel buio di una stanza, «era il piccolo della famiglia e teneva vent’anni quando incontrò Amelia.

«Passava tanto tempo per strada, e le strade di Napoli sono strette, ti fanno incontrare chi devi incontrare, è la città che decide, e lui stava in mezzo alla via, notte e giorno, giorno e notte, e conosceva tutti e tutti conoscevano lui. Chiuso da qualche parte non ci sapeva stare, neppure se lo legavi stava fermo. Lo so perché mio padre ci provò una volta, quando Cristiano era bambino; lo legò a una sedia per farlo studiare ma quello strappò le corde a morsi. Questa però è un’altra storia, nennella. Un’altra storia.

«Cristiano stava in mezzo alla via, a fare spettacoli, diceva che la strada era tutto insieme, palcoscenico e platea, quinte e ribalta, ma soprattutto era vita, e l’arte ha bisogno della vita e la vita ha bisogno dell’arte, perché arte e vita sono creature che si danno da mangiare a vicenda.

«Mio fratello teneva vent’anni, e pure Amelia stava per strada, dietro un banchetto di legno, a vendere... Che vendeva? Candele? Profumi? Mi dispiace, nennella, non me lo ricordo. Non si piacevano all’inizio, non a quel modo, non per molto tempo, e Cristiano teneva tante di quelle femmine che gli andavano appresso, e lui andava appresso a loro... Ma non prendeva nessuna sul serio, e come poteva? Teneva l’arteteca: pigliava e partiva, senza dir niente, ogni tre, quattro mesi, ti svegliavi e lui non ci stava più. Cominciò a quindici anni, quando se ne andò con il circo. Ma questa è un’altra storia, nennella. Un’altra storia. Te lo dico mo per farti capire che lui era fatto a ’sto modo qua, che una femmina fissa non la voleva, legarlo era inutile, qualsiasi corda Cristiano la strappava a morsi.

«Un giorno mi indicò Amelia. ’Sta guagliona mi fa una pena. Veniva da fuori città, ogni giorno, a vendere... che vendeva? Non me lo ricordo. Annanze e areto, areto e annanze, non sapeva manco fare affari, era scurnusa, non sapeva trattare con la gente. Mio fratello teneva la capa spostata, nennella, ma il cuore stava al posto giusto. Volle aiutarla. Amelia cercava un posto dove stare e noi stavamo di casa alla Sanità, allora, una bella casa che è andata perduta, insieme a tutto il resto, e io e Peppino ci siamo ridotti a vivere in questo posto, e pure questo posto, tra due giorni... Ma è un’altra storia, nennella, te la conto un’altra volta.

«All’epoca mettevamo questa stanza qua in affitto, e Amelia si comportava bene, teneva tutto in ordine, pagava in tempo, non la vedevi, non la sentivi. Tranne una volta, una volta che Cristiano venne a sistemare il teatro, e lei stava cantando, e si credeva di essere sola, e Cristiano corse a dirmelo, a dirmi che ’na voce accussì non l’aveva sentita mai. Ti ferisce e ti cura, ’o tiempo se ferma. Forse allora cominciò a vederla in modo diverso, chi lo sa, nennella, chi lo sa com’è che quello che prima è normale tutt’a un tratto ci toglie la ragione. Insistette per farla cantare, e insieme incisero pure una canzone, che mi ricordo mi piaceva assai, parlava di una sirena e di un marinaio. Amelia doveva cantare quella canzone a teatro, una volta, ma si mise paura, si bloccò, non volle più farlo. Li vidi litigare e poi li vidi fare la pace, allora capii tutto, nennella, capii prima che capissero loro, che all’epoca erano solo amici, o accussì si dicevano. Cristiano non aveva mai perso tanto tempo appresso a qualcuno, e Amelia era diversa, a vederla ti dava l’impressione di una piantina fragile, un ciuffo che spunta dalla terra, che chiunque può strappare e calpestare, ma a conoscerla scoprivi che sotto sotto stavano radici robuste, profondissime, e di lei non vedevi mai la fine.

«Mio fratello divenne frenetico, erano mesi che non partiva, che stava fermo, e un giorno mi svegliai e lui non ci stava più. Lo sai, nennella, le prime volte che proviamo un sentimento o un dolore è normale che ci sentiamo perduti, che non vogliamo provarli, però tu non fuggire, non fuggire dal sentimento, non fuggire dal dolore. Se non li attraversi finisce che li rimpiangi.

«Cristiano non tornò per tanto tempo, Amelia se ne andò da qua e più tardi seppi che si era maritata. Non pensai più a lei, e perché dovevo pensarci? Ma poi Cristiano mi chiamò, una notte, da San Pietroburgo. E che ci faceva in Russia? Bolle di sapone, disse, faccio bolle di sapone. L’avrei preso a paccheri, nennella. Non si rendeva conto di quello che faceva alla sua famiglia? Sparire accussì, senza mai chiamare nessuno... E lui disse che qualcuno chiamava. Chiamava Amelia, tre, quattro volte al mese. Restai zitta. E poi dissi: Ma tu lo sai che si è maritata, Cristia’, sì?, e lui disse: E certo che lo so!, Che la chiami a fare?, dissi io, se il marito lo scopre... E lui rise. Ma che deve scoprire! Senti qua, Lenù: quando la chiamo, faccio sempre una voce diversa. Cristia’, dissi io, Lenù, disse lui, è amica mia. Sta bene e sono contento, e dopo volle parlare solo delle bolle di sapone.

«Passarono anni, non so quanti, il tempo a volte ti scorre addosso. Cristiano cominciò a tornare, sempre più spesso, sempre più a lungo. Però a casa con noi non ci stava mai, veniva a dormire qui, in questa stanza, e una mattina che ero venuta a fare pulizie presto vidi Amelia uscire dal teatro. Io non lo so, nennella, non lo so che si erano messi in capa di fare. Lei era maritata, e del marito si diceva che era una persona potente e che era meglio non averci a che fare. Un giorno il marito venne qui, venne a vedere il teatro per comprarlo. Io misi in guardia Cristiano: Guarda che quello lo sa, quello sa tutto. Quello sapeva tutto, nennella, dicevano che parlava coi surece, coi topi. Cristiano mi disse solo: Lenù, fatti i cazzi tuoi. E perché, dissi io, perché non lascia il marito? Ma lui ripeteva sempre la stessa cosa: Lenù, fatti i cazzi tuoi. Ma io tenevo una brutta sensazione e cominciai a pregare di svegliarmi la mattina e di scoprire che Cristiano se n’era partito, ed era la prima volta che pregavo per una cosa del genere, e un giorno il cielo mi ascoltò. Lui non c’era più, e io ringraziai la Madonna, la ringraziai, capisci? È tutto finito, pensavo. Mo se la dimentica. Però dentro di me lo sapevo, nennella, io lo sapevo che quei due morivano, a stare l’uno senza l’altra.

«Capitò un giorno che trovai Amelia a teatro. E tu che ci fai qua? Non lo sapevo com’era entrata, ma ora lo so, ora so che Cristiano le aveva dato la chiave. Addó sta?, mi chiese. Se n’è juto, dissi io, e se ne andò pure lei. Ma tornò, a distanza di qualche settimana, e ancora il mese dopo, e quello dopo... Veniva da me a farmi sempre la stessa domanda: Addó sta Cristiano? All’inizio non la sopportavo, ma poi pur’io cominciai a farmi quella domanda: Addó sta Cristiano? Le settimane passavano e io m’accorgevo che Amelia cambiava, che la sua pelle era bianca e il suo sguardo era nero, era come una fotocopia di quello che era prima, e poi fu chiaro che teneva un segreto che non si poteva nascondere, accussì un giorno ce lo domandai: Di chi è ’sta creatura?, e Amelia mi guardò come se le avessi fatto offesa. È di Cristiano, e dal modo in cui lo disse seppi che non poteva essere di nessun altro. E tuo marito? Vorrei non averglielo chiesto, nennella, perché sentii la sua paura, e per un poco la sua paura divenne la mia paura, e non c’era luce in quel buio. Che pena che mi fece. Le parlai, per farle forza, per darle coraggio. Lascia tuo marito, dissi, e insieme aspettiamo che torna Cristiano. Torna sempre. Vedrai che torna prima che nasce la creatura. Amelia però stava zitta e a un certo punto stetti zitta pure io perché non sapevo più che stavo dicendo, non sapevo più di che parlavo. Se ne andò, e io non so cosa teneva nell’animo quando se ne andò, sentivo solo paura. Quella fu l’ultima volta che la vidi, e mio fratello non è mai tornato, nennella, mai più.»

Il silenzio calò su di lei come un sipario.

Fanny non sapeva più se respirava, se il suo cuore batteva, se era viva in qualche modo. Lo era nelle parole di quella storia, senza dubbio.

Si alzò e ricominciò a camminare, per riappropriarsi del suo corpo, del suo tempo, sforzandosi di comprendere cosa le fosse stato detto, e alla fine si ritrovò con una certezza: Ci sono riuscita. Sapeva chi era sua madre, sapeva chi era suo padre. C’era così tanto dei suoi genitori in lei che se si guardava dentro sapeva dove trovarli.

E mentre lo pensava, fissava le pareti. Cristiano era ovunque. Nei manifesti, nelle fotografie, negli articoli di giornali italiani e stranieri, nelle riviste, nei pamphlet teatrali, nelle cartoline. Come aveva fatto a non vederlo? Lungo e agile, con un sorriso obliquo, perenne come il sole di mezzanotte, capelli scurissimi, folti, ricci, occhi neri pieni di luce, la smorfia di chi imbroglia mentre viene imbrogliato, di chi capitola davanti al destino e lo spernacchia. Funambolo, giocoliere, illusionista, suonava, cantava, recitava. Aveva visto il mondo.

Ma mo, si disse Fanny, mo addó sta?

E anche lei fece la domanda che Amelia ripeteva a Lenù, e che Lenù ripeteva a se stessa, ogni ora di ogni giorno, da quattordici anni.

Peppino fu il primo a rompere quel silenzio solidissimo.

«Mah! Io non capisco perché a me nessuno mi dice mai niente.»

Altro silenzio, poi toccò al signor Marone.

«Non avete più avuto sue notizie? Di nessun tipo?»

Con la coda dell’occhio, Fanny vide Lenù fare di no con la testa.

«Non dire bugie, Lenù. Non dire bugie», disse Peppino.

Seduto un po’ distante dal tavolino a tre gambe, la testa pesante incassata tra le spalle, sembrava un pagliaccio che si è appena tolto il trucco ma non riesce a sfregar via la tristezza. Lenù stette zitta.

«Perdonatemi», insisté il signor Marone.

Fanny si domandava come riuscisse a essere tanto calmo, poi ricordò che la storia di Lenù non era la sua storia, e forse poteva toccarlo e commuoverlo e stupirlo e stuzzicare la sua curiosità di mercante di storie, ma non lo stravolgeva come stravolgeva lei, che si chiedeva come facesse il resto del mondo a stare ancora in piedi.

«Avete avuto o no notizie di vostro fratello?»

«Sì», disse Peppino.

«No», disse Lenù.

Il signor Marone guardò Fanny. Era stremata. Lo avrebbero perdonato, i signori Scarpa, se insisteva; ma quella non era una risposta. E a furia di domandare l’antiquario strappò a Peppino una strana verità, e capì infine il perché di tanta confusione: non vedendo il fratello tornare per molti anni, e non avendo ricevuto nessuna notizia, i fratelli Scarpa le avevano provate tutte. Si erano perfino rivolti all’aldilà.

Il signor Marone accavallò le gambe, Fanny tese le orecchie.

«Lo faceva mio padre» disse Peppino, come a giustificare un difetto fisico.

«Peppino», lo redarguì la sorella.

«Siamo un poco assistiti in famiglia, teniamo il dono.»

«Peppi’.»

«Ched’è, Lenù? Il signore è un uomo colto, e si vede! Sicuramente capisce che ci sono più cose in cielo e in terra... è vero, signore?»

Il signor Marone fissò stranamente Fanny.

«È vero, signore. Il mondo è grande, pieno di cose che sfuggono alla nostra comprensione.»

«Oh, Lenù, lo vedi?»

«Peppi’, sei imbarazzante!»

«Lenù, sai che facciamo? Mo glielo faccio vedere! Un piccolo esperimento, e che ci sta di male?»

Lenù sbarrò le palpebre per la vergogna, o forse per la paura. Peppino, determinato, spostò il tavolino di legno al centro della stanza, accese candele e incensi, spense la luce elettrica, e posando le mani sul bordo del tavolo recitò una preghiera.

«Cristiano Scarpa.» Ripeté il nome del fratello sette volte. Una lunga pausa, prima di chiedere: «Cristia’, ci sei?»

Fanny sentì la cassa toracica espandersi, il cuore battere forte. Per quanto si concentrasse, però, non riusciva a percepire nulla, e si chiese se Peppino avvertisse qualcosa.

Dopo alcuni minuti, Lenù si alzò irritata. Accese la luce e con uno straccio da cucina frustò il fratello. Chiese scusa per quella sceneggiata. Andò da Fanny, la prese per mano. «Vuoi vedere delle foto di tuo padre da ragazzo, sì? Tenete gli stessi occhi e la stessa bocca», disse di nuovo, e non faceva che accarezzarla, con lo sguardo e con le mani.

Stava per aprire un piccolo scrigno di legno pieno zeppo di fotografie, quando qualcuno bussò alla porta.

Peppino balzò come una cavalletta, Lenù si bloccò e impallidì. Nessuno dei due andò ad aprire.

«Ebbene?» domandò il signor Marone dopo che il colpo si ripeté, più forte. «Non aprite?»

«E a chi, signore?» sussurrò Peppino. Aprì la porta per mostrare il mezzanino vuoto. «A chi?»

Si affacciò sull’arena del teatro Instabile. Fanny lasciò andare la mano di Lenù e corse al suo fianco. Anche l’antiquario li raggiunse, un poco traballante, tirando fuori gli occhiali con cui consultava i vecchi oggetti, e tutti e tre insieme si misero a scrutare le tenebre e a interrogarle. Faceva molto freddo.

«Fa sempre accussì», disse Peppino con voce flebile. «Noi lo chiamiamo, lui bussa, e poi...»

«E poi?» chiese Fanny, ansimando.

«Poi niente più. Non vuole dirci che gli è capitato o dove sta. Solo che ci sta.»

«Che non ci sta, Peppi’», disse Lenù. Era dietro di loro. Si stringeva le mani al petto, e con quel gesto pareva tenere insieme i cocci di un cuore infranto. «Cristiano non ci sta più.»

Provatissima, scoppiò in lacrime. Il fratello andò a confortarla.

Fanny tornò a rivolgere lo sguardo al buio del teatro Instabile, sforzandosi di scorgere qualcosa. Era vero? Cristiano non c’era più, come Amelia? Cosa stava cercando, allora, persone perdute da anni? Sebbene non vedesse niente, Fanny era certa che laggiù ci fosse un fantasma, o tanti, tantissimi fantasmi, e che i fantasmi non fossero altro che ricordi custoditi tra la polvere dei luoghi, echi che si propagano come onde nel mare del tempo.